giovedì 25 aprile 2013



CHIOSE LAICHE
da "Il Foglio"

Modellistica. Tra la scepsi intellettuale, il culto del tragico, la visione apocalittica di Nietzsche da una parte e, dall'altra, la grassa euforia carnascialesca, l'ironia sulfurea, il sarcasmo sapiente di Rabelais, darei la palma della laicità - una affascinante laicità - al secondo. Tutti e due guardano all'uomo così come è su questa terra, senza illusioni d'un aldilà spirituale: ma il primo soffia sul freddo del nichilismo, il secondo respira l'aura di uno sciolto umanesimo rinascimentale. La cultura alta dà la palma a Nietzche, perché - dice - offre più nutrimento intellettuale. Rabelais entra nel gran Canone occidentale, ma più come scrittore che non come modello o punto di riferimento di un'etica universale. Però, a guardar bene, egli appartiene al cerchio magico al cui centro troviamo probabilmente Cervantes: una loro gran risata può spazzare via, come foglia al vento, mille stantie elucubrazioni, sgambettare ogni incedere serioso e regalarci un'inaspettata e fresca luce intellettuale...L'uomo di Nietzsche mi richiama certe immagini del tardo simbolismo, per esempio quelle che apparivano sulle tessere del Partito Socialista d'inizi dell'altro secolo, con il Lavoratore (L maiusola, mi raccomando) che forgia sull'incudine qualcosa che non può essere che il fato, suo e della Razza (sempre maiuscolo) umana; oppure, la frigida processione dei nudi o quasi-nudi del fregio di De Karolis nell'emiciclo del Parlamento italiano. Tutte immagini seriose, impacciate e persino grottesche. I personaggi di Rabelais sfogano la stessa portentosa vitalità delle figure e figurine che animano i quadri di Brueghel, minuto popolaccio di ubriaconi e donne grasse come la Gradisca di Fellini che si saziano attorno a tavolate di salami e birra. Sono della pasta di quel Falstaff cui si attribuisce un "non-moral humour", anche essi "coprono di un immortale ridicolo gli ideali di eroica virilità" (Ch. Herford) . "Crapula, solo crapula", griderà, schifiltoso, il gran teorico che ha speso una vita a chiosare Nietzsche e non si abbasserebbe a considerare più di tanto il rabelaisiano "Fà quel che vuoi", il motto della Abbazia di Thèleme che affossa la cultura del monachesimo medievale e i valori dell'ascesi claustrale. Diciamo che la scelta di un possibile e auspicabile modello laico di vita è tra questi due estremi, almeno all'apparenza inconciliabili. Oddio, a mezza strada ci potrebbe stare Montaigne...

Tornare a Erasmo? Che le promesse, grandi riforme di Francesco possano portare ad una chiesa di stampo erasmiano?  L'immagine mi è balzata dinanzi casualmente ma via via, pensandoci un po', ha acquistato consistenza. "L'Elogio della pazzia" (1509) è una satira sferzante della presunzione teologica e scolastica, della scandalosa immoralità del clero, dell'indegnità della Curia (Erasmo rifiutò una promozione curialesca che gli era stata offerta), che mi pare possa attagliarsi benissimo alla situazione del Vaticano di oggi, epicentro della crisi che investe la Chiesa di Roma. Ma, restando nell'attualità, l'Elogio erasmiano appare molto in sintonia con i tanti auspici riformatori che vengono formulati circa il futuro di questa Chiesa e che guardano, speranzosi, al mitico Concilio Vaticano II. Questo evento può essere letto come espressione della visione umanistico-religiosa di Erasmo, da lui riassunta in un irenismo universale cui diede per motto il "fate l'amore, non fate la guerra" (poi riscoperto, ahimè, dai nostri sessantottini). Tra i molti e complessi motivi per cui ci si richiama al Vaticano II alcuni sono degni e seri, altri invece attirano per l'apparenza facile e persino scontata. Guardando dal di fuori, ritengo che il confronto con la modernità sarà molto più arduo, non basterà evocare Erasmo e il suo irenismo.

Diavolerie. Sfoglio con simpatia l'opera ultima, in ordine di tempo, di Tullio Gregory, l'insigne storico della filosofia medievale e moderna: "Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente", edito da  Laterza.  Il librino, di non molte pagine e di elegante e sobria scrittura, passa in rassegna le diverse interpretazioni e formulazioni storiche di questa figura capitale della religiosità cristiana, o giudaico-cristiana. Oggi, dopo il passaggio dell'illuminismo e l'ingresso nella modernità, il suo profilo appare parecchio sfocato, nonostante gli sforzi - anche ad opera di Papi - per mantenerlo acceso nell'immaginario dei fedeli. Ovviamente senza malizia, lo storico ricorda l'importanza  che la figura del diavolo ebbe nella ideologia dei gesuiti, ma ripesca anche il fatto, davvero curioso, che Cartesio mostrò di credere nella sua forza malefica. Già dal titolo, peraltro, Gregory ci avverte che sul piano ontologico il diavolo vale poco, la sua presenza è solo una questione culturale (sopravvive forse in Vaticano, dove sembra provochi un sacco di guai). Il libretto termina, gustosamente, sulla pagina dei Fioretti di San Francesco nella quale ai racconta come frate Ruffino, seguendo il suggerimento del santo di Assisi, rispose al diavolo che lo tentava: "Apri la bocca, mo' vi ti caco".

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