venerdì 9 maggio 2014

                                                                 COMIZI

da "Il Foglio"

Domenica pomeriggio. Mi stacco (a fatica) dal computer, mi vesto ed esco, voglio sgranchirmi le gambe. Mi dirigo verso la via principale del quartiere, un quartiere semicentrale però oggi deserto, con le serrande tutte chiuse se non fosse per l'immancabile spaccio dei cinesi, il banco dei fruttivendoli del Bangladesh, e poi i caffè e la libreria cui mi indirizzo tanto per avere un obiettivo.  A metà strada, una piazzetta ornata di stente aiole dinanzi all'ingresso del mercato di quartiere. Ora, ovviamente, è chiuso ma nella piazzetta c'è un po' di folla, sento qualcuno che parla. Una donna mi mette in mano un depliant a colori con in copertina una immagine di Cristo: “La grande Missione in 100 Piazze di Roma”. La gente si tiene disciplinatamente su tre lati, il quarto ha al centro un modesto palco e un microfono, cui fanno ala, da una parte tre chitarristi dall'altra quattro o cinque suonatori con strumenti vari. Indietro, defilato,  scorgo un prete, tutto in bianco, seduto su una sedia, le mani distese sulle ginocchia, a capo chino. Al microfono sta ora parlando un giovane, vestito modestamente. Non mi pare il suo sia un discorso forbito, trovo più esplicito e conclusivo il distico tratteggiato a grandi caratteri su uno striscione alle sue spalle: “La fede viene per l'ascolto del kerigma”. Il depliant mi fornisce ulteriori spiegazioni: la “Grande Missione” consiste in cinque incontri – immagino come questo – che si terranno durante il mese di maggio nelle 100 piazze evocate. Leggo anche: “Con papa Francesco, nelle piazze ad annunciare Gesù Cristo, Egli ci salverà”, e quindi, una enigmatica frase di San Paolo: “Dio ha voluto salvare i credenti mediante la stoltezza della predicazione (del Kerigma)”. Quel termine, “stoltezza”, nei secoli ha disturbato, e ancora disturba, parecchi: se mi è consentita l'integrazione, i “benpensanti”. I quali, come è noto, hanno gran cura della saggezza, quando si identifichi con la (loro) occhiuta prudenza.

Non so se l'iniziativa sia dovuta all'impulso di Papa Francesco e al suo modello ecclesiale. Ricordo qualcosa di simile, chitarre comprese, all'epoca e subito dopo il Concilio Vaticano II, quando i laici si trovarono sorprendentemente a dover e poter occupare le chiese con i loro dialetti culturali ed etici, non più contrapposti al latino che scendeva dai pulpiti. Durò poco, quei tentativi vennero presto riassorbiti. Ma il richiamo della parola gridata in piazza mi ha sempre affascinato. Ho fatto anche io comizietti tipo questo, reggendo un identico altoparlante con il manico come il calcio di una pistola. Forse il mio primo fu a Verona o a Vicenza, nel corso di una marcia antilitarista Milano-Peschiera. Tenevamo comizietti del genere ad ogni paese o città che la nostra carovana attraversasse: accanto a noi Radicali - impacciati borghesi strappati fuori dalle loro giacche e cravatte - c'erano i primi capelloni, i primi freaks, le prime femministe, i primi anticlericali e antimilitaristi ignari di una gloriosa tradizione protosocialista. I camionisti che incontravamo, quando porgevamo loro i volantini (stando attenti che non se ne perdesse uno) ci gridavano dietro qualcosa come: “Andé a lavurà”. E c'erano i primi fumatori di marijuana, la sera si rifugiavano in qualcuna delle baracche che ci ospitavano nei posti di tappa. Allora noi non sapevamo nulla di droghe, di marijuana, di erba, di cannabis. Marco decise di andare a dormire anche lui in quella baracca, poi ci riferiva sul nuovo fenomeno socioculturale.

Quei miei primi comizietti mi stremavano, mi pareva di trovarmi sempre dinanzi ad un vuoto incolmabile e tremendo. Il vuoto era dentro di me, dovevo inventarmi una attitudine cui non ero assolutamente preparato. Quei comizietti rompevano infatti, e sfidavano, un clima sociopolitico segnato dai grandi, oceanici comizi dei grandi partiti di allora, i partiti "di massa", o anche dalla incipiente TV.  Ne tenevano di altrettanto sparuti certe frange di estremisti, di sfigati, di ferrivecchi culturali, io avevo una gran paura che anche noi fossimo assimilati a questi... Parlare alla gente è un affare difficile. Ma ho avuto sempre una simpatia per la parola, rispetto allo scritto. Non sempre la parola del comiziante è all'altezza del "kerigma", però dà la sensazione che sia un affare laico. Bisogna sforzarsi di essere dialoganti, magari convincenti (allo sbaraglio: laici, appunto). All'epoca del divorzio mi toccò fare un comizio a Orte, borgo selvaggio quant'altri mai. La piazza era gremita di gente dall'aspetto contadino. Appoggiati al muro in fondo alla piazza, due uomini in giacchetta nera e la camicia senza il colletto, con la sola cimasa. Li guardavo: feci con me stesso una scommessa. Avrei giudicato riuscito il comizio se mi fossi fatto ascoltare e capire da quei due. Sapete? Non si staccarono mai dal muro, gli occhi sempre piantati su di me. Non sono un pauperista, ma questo ritorno ai comizietti di quartiere con l'altoparlante a mano ho la sensazione che indichi un cambiamento di epoca, anche se non epocale. E non è detto sia un ritorno indietro.

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