Da:
Angiolo Bandinelli
"Giardini crudeli"
pagg. 78
Ediz. Pendragon, 2014
10,00 euro
Capitolo 3
Da
quando -
con Baudelaire -
la poesia è condannata all'urbano, tocca alla prosa penetrare le
lusinghe del paesaggio. Ma a suo rischio: può uscirne indenne, e può
esserne travolta e perirne. Il giardino è il labirinto, dentro ogni
giardino c'è un vago orrore di violenze e di blandizie, di sacrifici
crudeli. Chi riuscirà a cogliere i segreti e le metafore di un
giardino, le trame grazie alle quali i suoi proprietari consumano il
rapporto con uno spazio delimitato e fantastico, con una natura
ristretta eppure imprevedibile, quasi sempre fallendo e ritraendosene
amareggiati (e a noi resta solo farci strada attraverso l'impalpabile
e mai accettata incuria in cui decadono, prima o poi, i più belli e
famosi giardini)?
Ma
i giardini sono ormai rari. E' possibile che in città, anche nei
quartieri più aridi o sulle terrazze, scarni riquadri verdi di fiori
e piante abbiano un posto di riguardo e opulento, e ad essi si
rivolgono fruttuosamente
le rubriche dei settimanali dedicate a ciò che è perduto; ma sono
veri giardini, quelli dove si coltivano piante senza radici nel
profondo? E neppure sono belli i giardini pubblici, le piante senza
un padrone languono, il giardino vive nel rapporto lungo col tempo e
con le gelosie di chi lo cura. Resta la tristezza dolce dei vecchi
giardini abbandonati nelle ville e nei suburbi, delle aie e dei
cortili.
Il
giardino di Matteo e Camilla è piccolo, un fazzoletto dietro la casa
(ancora una stalla restaurata), pochi metri quadrati che si
affacciano su un muro a secco a filo del quale, due metri più in
basso, corre la viottola da dove entrano in paese le macchine
agricole e i trattori. Un giardino, dunque, che offre pochi spazi.
Dalla casa si scende sul terrazzo, rettangolare, cinto da una sottile
ringhiera. Due corte gradinate in pietra, una di qua e una di là, e
si è nel prato. A destra si innalza un alloro, alla sinistra c'è
invece un enorme rosmarino, da cui si dipartono e al quale richiamano
tutte le delizie e tutte le promesse. Quelli che capitano nel
giardino se ne escono in esclamazioni ammirate, giurano che mai hanno
visto un cespuglio di rosmarino uguale a questo. E' di dimensioni
davvero inconsuete. I rami oscillano protesi in festoni, spasmodici,
in tutte le direzioni, e sormontano il terrazzo infilandosi tra le
sbarrette della ringhiera: amano la pietra, l'arenaria che accumula e
riverbera il calore del sole. Basta sfiorarli, passare la mano sugli
aghi succulenti, per ritrarla impregnata di essenza, che resta a
lungo, pesante.
Matteo
lo comprò che entrava tutto in un vasetto di plastica nera interrato
in un'aiola insieme a centinaia di altri, in bell'ordine. Voleva
qualche pianta officinale, e un rosmarino non poteva mancare accanto
alla salvia, all'origano, alla ruta, alla menta, alla borragine. Il
rosmarino crebbe rapidamente. Più rapidamente di ogni altra pianta
del giardino, eccetto l'alloro che lo fronteggia col suo fogliame
nero. Ora è un cespuglio così folto che cinque persone tenendosi
per mano riescono appena ad abbracciarlo, e dilaga fino a coprire
metà del terrazzo. Per quasi tutto l'anno è una festa di verde e di
blu, il blu inconsunto dei fiori che in tutte le stagioni ne
punteggiano il mantello. All'inizio dell'estate i rami infittiscono,
si gonfiano di umori, i nuovi sopra i vecchi rivestiti di squame, e
guadagnano qualche centimetro ancora sulla ringhierina che avvolgono
e celano con la forza e l'intensità di una piovra terrestre. Matteo
prova un po' di orrore dinanzi a questa pianta. Gli fa venire in
mente, come nessun'altra, il ceppo oscuro delle cose e delle anime.
Il
suo profumo e i suoi fiori richiamano incessantemente una popolazione
di insetti varia e inusitata. Accorrono da ogni parte, ammantano il
cespuglio di un ronzare
turbolento.
Vespe gialle e nere, api piumose con le zampette appesantite dal
polline,
calabroni
bluastri e coleotteri rivestiti di scaglie - nere, o scintillanti di
tutte le smagliature dell'iride - partono in volo o si posano
leggermente. Certi aprono la corazza e ne estraggono, come quando un
violino esce dalla custodia, ali ronzanti visibili solo per un attimo
prima che l'insetto torni a librarsi a mezz'aria. Mantidi impacciate,
come fossero caricate di un peso enorme o rese ottuse da un male
segreto, farfalle svolazzanti in scatti maniacali, tutta un'arnia in
continuo e irrefrenabile moto. Sembra obbediscano a un richiamo, o
piuttosto a un ordine che vieta loro di fermarsi un istante. Volano
da un rametto all'altro, da un mazzetto di fiori a un cespo, si
posano su un grumo blu e subito si precipitano su uno più in là,
incalzando e penetrandolo con sottili antenne e proboscidi per
suggerne profumi e cere.
Mentre
sono ancora indaffarati le ali trasparenti li strappano via per
trascinarli, malvolentieri, dall'altra parte del cespuglio dove il
rito riprende, ugualmente assillato. Dietro già altri zampettano,
aggrappandosi ai rami e agli aghi verdi sotto i quali il rosmarino ha
il colore della cenere, o scavalcando nodosità e forcelle tra cui si
stende una tela di ragno polverosa. La danza delle ali comincia il
mattino presto, appena i raggi del sole, cadendo dai vertici
dell'azzurro come una pioggia, si infiltrano tra i rami e fanno
sentire il loro tepore. Si fa più intensa fino a culminare a
mezzogiorno, sotto una luce che si è fatta arida. Il ritmo è ora
intenibile, sembra che l'intero cespuglio sia scosso e vibri
all'unisono, ed è difficile avvicinarglisi: vespe, calabroni, api
volteggiano attorno all'intruso sfiorandolo, scattando ansiose. Nel
pomeriggio il rosmarino si distende nella calura e profuma di resina,
un richiamo torbido, dolciastro e repellente. Il pellegrinare delle
api si fa più rado verso sera, quando pochi stanchi insetti vanno
ancora in giro quasi stessero cercando di raccogliere gli avanzi del
banchetto altrui, quanto è stato lasciato dall'avidità dei
commensali del giorno e dalla loro furia di accumulare essenze e
polveri dorate. Inattese danze
proseguono
languide, fin dentro l'autunno e il primo inverno, di straniti
coleotteri. Deboli, ubriachi per la stanchezza, si lasciano andare e
cadono al suolo con le elitre aperte e le ali scosse da un tremito.
Poco
discosto, Matteo osserva un lillà. E' un alberello smilzo, un
bastoncino che sostiene pochi rametti a raggiera. Camilla ha voluto
assolutamente un lillà, nel giardino. In ognuno dei giardini della
zona, anche nei più poveri dove la terra secca brucia tra i
cespugli, davanti al muretto o proprio in faccia alla casa c'è
sempre un lillà, mai troppo alto e mai troppo bello. Solo a
primavera, per un paio di settimane, i pennacchi dei lillà diventano
la colorata bandiera del giardino, dell'orto, e attirano
l'ammirazione dei passanti. Amano strapparne i mazzi violetti, e
portarseli a casa. Gli amici in visita ne chiedono sempre, e non
vengono mai respinti a mani vuote. Come se i sottili alberelli
avessero il dono di riprodurne in magica quantità.
Anche
Camilla ha voluto il suo lillà. Bisognava allora andare al vivaio,
comprare la piantina in vaso. Invece, Matteo una notte ha preso la
vanga, è uscito, si è diretto per lo stradello fin sotto il
giardino dei vicini dal quale un gran ciuffo di lillà diffonde in
giro polloni e virgulti primaverili, alcuni dei quali sono riusciti a
farsi largo fin tra i sassi della strada, a qualche metro dalla
pianta madre. Matteo si è dato da fare con la vanga. La notte era
chiara e la strada era bianca, con ombre stagliate. Ha lavorato
sordamente per non farsi sentire dai vicini, che sono in casa e
tengono le finestre aperte e illuminate nell'aria tiepida. Sassi
tenaci si sono opposti ai suoi sforzi. La
vanga
ha sbattuto con clangore, a un certo momento. I vicini si sono
affacciati per vedere chi sia, nel buio, a provocare estranei rumori.
Matteo si è dovuto fermare per qualche istante. Alla fine, è
riuscito a strappare la piantina con la radice e a portarsela a casa,
dove è giunto trafelato.
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