venerdì 19 febbraio 2016




BENEDETTO  CROCE? PIU’ MONTAIGNE CHE HEGEL

Da “L’Opinione”, 20 febbraio 2016
Il 25 febbraio è la ricorrenza dei centocinquanta anni dalla nascita di Benedetto Croce. L’immagine del filosofo napoletano è ormai, specie  tra le giovani generazioni, sfocata, per loro Croce è un desparecido culturale. Non è il solo, del resto. L’epoca è frettolosa, qualcuno definisce l’attuale una “società liquida”, viviamo nello spazio del twitter, di un social o di un selfie che soddisfino il nostro narcisismo o – forse – ci rassicurino che davvero ci siamo.
In controtendenza, Giuseppe Galasso è più ottimista, sostiene che l’odierno eclisse del filosofo non è  una “sepoltura”, un “epilogo”; trattasi bensì, “come per ogni altro grande nome, del passare dalla tumultuosa contingenza del tempo alla perenntà dei classici, alla perenne attualità delle voci che (...) percepiscono ed esprimono qualcosa di sempreverde e imperituro circa l’essenza e l’esperinza della storia, ossia del mondo e dell’uomo”. Lui stesso seconda il passaggio dalla cronaca alla storicità, mettendoci a disposizione un ponderoso volume (oltre 500 pagine), edito dal Mulino, nel quale raccoglie “molti dei numerosi saggi”, di diversa intonazione e spessore, dedicati al filosofo di cui, se non discepolo, è sicuramente attento studioso e cultore (Giuseppe Galasso: “La memoria, la vita, i valori”. Itinerari crociani. A cura di Emma Giammattei. Società editrice Il Mulino, MMXV, 2015). Galasso aveva già fornito una “delineazione complessiva e unitaria” del pensiero del filosofo nel suo “Croce e lo spirito del suo tempo” (“Il Saggiatore”, 1990).
Impossibile tirarne qualche somma nel poco spazio (e tempo) a disposizione, ma il libro sta bene in biblioteca, i saggi appaiono utilissimi da scorrere e consultare, ben  ripartiti come sono in ampie, omogenee sezioni: “La storiografia e l’estetica”, “Etica e politica”, “Tra Napoli e l’Europa”, “Per una biografia contestuale”... E subito il primo dei saggi mi offre uno spunto di riflessione assai ghiotto: tratta, a sua volta, di un saggio del filosofo, una di quelle scritture “secondarie”, di contenuto - almeno ad una prima lettura – erudito, che intervallano, come parentesi svagate,  le opere filosofiche o storiografiche di maggior respiro. Su queste briciole si è appuntata sovente l’ironia dei critici di Croce, pronti ad accusarlo di essere  più che altro un erudito di storia locale, di cose e vicende napoletane. Galasso ci racconta tutta un’altra storia. Croce scrisse il “Saggio su Pulcinella” nell’agosto 1898 e l’amico Gentile, ricorda Galasso, “si compiacque con lui perché mescolava questo argomento ‘agli studi gravi’”, un giudizio condiviso da Antonio Labriola.

In realtà – osserva Galasso – di poco grave nell’interesse di Croce per Pulcinella c’era...poco”. Nello stesso periodo il filosofo stava raccogliendo e sistemando  i suoi studi attorno alla Repubblica napoletana del 1799, ma era anche intento a “definire la propria posizione” sulle dottrine di Marx; e, contemporaneamente, curava l’edizione di scritti di Francesco De Sanctis. Proprio quest’ultima impresa fu la matrice del suo interesse per la maschera napoletana. Nel “diario della scuola” del grande critico, Croce legge un articolo, scritto nel 1872, in cui, come tema di studio degli allievi, De Sanctis aveva proposto il “carattere di Pulcinella”: lo svolgimento datone da Giorgio Arcoleo era piaciuto al critico, che lo aveva fatto pubblicare. Croce approfondisce la questione in pagine scrupolose, ma anche geniali. Arriva a concludere che la celebre maschera era non un “individuo artistico, ma una serie d’individui variamente determinati e coloriti dai varii attori e scrittori comici che per più secoli si sono avvalsi di quella figura”. Insomma - continua Galasso -  Croce indagava non su un tema di erudizione napoletana, ma su un problema “critico”, anzi “essenzialmente estetico”,  che si veniva a trovare già “pienamente sulla strada che Croce (..) si avviava a prendere e che lo avrebbe condotto, con l’ ’Estetica’, alla fondazione del suo ‘sistema’ filosofico”. Il saggetto poco “grave” introduceva e forse fondava temi squisitamente  teorici, come “la riduzione del tipologico, del genere letterario, delle schematizzazioni figurative e psicologiche, delle generalizzazioni sociologiche e antropologiche alla varietà storica effettiva e individuale dei casi letterari, delle figure artistiche, delle rappresentazioni estetiche, delle espressioni e dei personaggi più o meno riuscitamente poetici, da cui generalizzazioni, schematizzazioni, tipologie, generi sono dedotti per un lavoro, per Croce, doppiamente infecondo di unificazione e astrazione”.  Di altri saggi crociani su temi “eruditi” si potrebbe dire, penso, qualcosa di analogo, a segno della unitarietà del pensiero, schiettamente filosofico o profondamente storiografico, su cui sempre si muoveva Croce.
Vorrei portare, a riprova, una mia riflessione. Tra le opere storico-erudite di Croce c’è un libro a me carissimo ma non molto considerato dalla critica. Si tratta di “Vite di avventure, di fede e di passione”. Uscì nel 1935, io ne posseggo l’edizione Adelphi del 1989, curata proprio da Galasso. Sono sei biografie, rispettivamente dei medievali Filippo di Fiandra e Cola di Monforte; dei rinascimentali Galeazzo Caracciolo, “Isabella di Morra e Diego Sandoval de Castro”  e Diego Duque de Estrada; e infine del settecentesco Carlo Lauberg;  quest’ultima è la vita “di un rivoluzionario”.  Alle sei biografie Croce premise una avvertenza: “Mi è accaduto, nel corso delle mie letture e indagini, di sentirmi attirato dalle figure di alcuni uomini, le cui vite, ricche di vicende e di contrasti, trabalzate e trapiantate dalla fortuna in paesi lontani e diversi, impersonavano drammaticamente le condizioni e le lotte politiche e morali dei tempi loro. Mi pareva che, a ben raccontarle, si potesse appagare l'immaginazione, che si diletta dello straordinario e inaspettato, senza perciò deludere le richieste della seria intelligenza storica”. E’ qui esplicitata una avvertenza metodologica fondamentale. “L’immaginazione”, avverte il filosofo,  si “diletta” ed “appaga” dello “straordinario e dell’inaspettato”: l’espressione sarebbe piaciuta a G.B. Marino, per il quale “è dell’artista il fin la meraviglia”. Però, avverte subito il filosofo, nell’appagare “l’immaginazione” si dovrà stare attenti a non “deludere le richieste della seria intelligenza storica”. Prosegue, ribadendo il suo rifiuto delle “deplorevolissime”, “cosidette biografie romanzate” e fornendoci precise indicazioni sui criteri da lui seguiti nello stendere le sue: “attenersi scupoloamete alla documentazione”, essere rigorosi nella “ricostruzione biografica”, “riattaccare i casi degl’individui ai problemi delle loro età; e tuttavia “appagare in certa misura la fantasia mercé la particolarità dei fatti e la vivezza del racconto”. Ma non è, questo, esattamente il problema che attanagliò il Manzoni quando intraprese la stesura del suo “romanzo storico”?
Perché mi è sempre parso che questo lavoro, tenuto per secondario se non per marginale, dovesse essere invece inteso come quasi un culmine dell’opera crociana?  Perché qui, così come nel saggio su Pulcinella, Croce cerca di raggiungere e rappresentare un ideale - tutto filosofico -  di “soggettività” umana concreta e storicamente impegnata, sfuggendo e rifiutando esplicitamente da una parte l’astrattezza dell’”individuo” illuministico, dall’altra la vuotezza delle categorizzazioni sociologiche o erudite e classificatorie. In queste opere  Croce insegue nel concreto e tenta di “verificare” le sue stesse teorie estetiche ed etiche: fondare, “creare”, far vivere il “soggetto” umano nella sua complessa, concreta realtà è l’ideale segreto del suo pensero, dell’intera sua opera. E’ lo sviluppo e la maturazione di quella sua giovanile memoria su “La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte” (1893). Ha inizio da qui una fervida avventura da cui la cultura italiana uscì rinnovata. L’erudizione si innalza a filologia, storiografia: filosofia “in nuce”.
Forse Croce ne ha paura, teme di esserne invischiato e catturato, la mette alla prova in opere “minori”. Ma le sue “Vite” sono un eccezionale capolavoro di “teoria” etico-estetica applicata: anzi, della sua teoria filosofica complessiva. Grazie a scritti come questi, Croce dovrebbe essere messo a confronto, più che con Hegel, con un moralista della statura di Montaigne. Vi pare poco, in un’epoca - la nostra - di astrazioni, generalizzazioni, classificazioni  senza corpo, né anima né etica?  Almeno questo ammestramento vale la pena di sottolinearlo, per i centocinquanta anni della sua nascita.

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