UNA 7.65 PER IL
PARTIGIANO GIOLI
di
Angiolo Bandinelli
da
“Il Foglio”, 11 maggio 2013
Lo sciagurato che il
giorno del giuramento del governo Letta ha sparato, ferendoli, contro
due carabinieri, utilizzava - riferiscono i giornali - una pistola
automatica Beretta calibro 7.65 comperata, ha detto costui, da una
specie di rigattiere, con il numero di serie eraso per non farne
individuare la provenienza. Il dettaglio dà la stura ai ricordi:
anche io ho posseduto una automatica 7.65. Non era una Beretta, era
di fabbricazione belga. A quell'epoca mi passarono per le mani
parecchie altre armi, ma quella pistola mi fu particolarmente cara:
mi si capisca, fu parte di una vicenda personale piena di sapore, e
quasi epica. Iniziò durante la guerra, nel drammatico settembre del
1943, l'amaro autunno - secondo alcuni - che vide il tramonto di
un'idea di nazione.
Sotto casa mia, in un
parco pubblico, da qualche giorno era acquartierato un reparto della
Divisione di Fanteria Piave. Si temeva il peggio. Al mercato tra le
donne, tra gli uomini nei caffè e nelle vinatterie si vociferava che
la Divisione fosse stata concentrata intorno e dentro Roma per motivi
di sicurezza, in vista di un possibile sbarco alleato o fors'anche di
una ormai probabile ritorsione tedesca: dopo il 25 luglio, quando si
erano consumati l'estromissione dal governo e l’arresto di
Mussolini, l’alleato diffidava degli italiani, con quegli strani
partiti riemersi dal nulla ma certo non favorevoli al proseguimento
di un conflitto di stampo fascista. Arrivò l’8 settembre, e fu la
catastrofe. In un amen il reparto si dissolse, ufficiali e soldati
cercarono scampo - ciascuno per sé e Dio per tutti - abbandonando
ogni cosa non necessaria, soprattutto l’armamento. Il parco
deserto, le tende vuote, davano un senso di sinistra desolazione. Con
altri ragazzi amici ci spingemmo cautamente a frugare tra le
carabattole sparpagliate. C’erano armi dappertutto: ovviamente
molti fucili, mi colpirono però i mortai, aggeggi quasi ignoti,
certo mai visti altrimenti. I soldati si erano portati via i muli per
tornarsene a casa con in mano qualcosa; un paio, che volevano
dirigersi verso il Veneto, furono ospitati per qualche giorno a casa
nostra, dormirono su materassi arrangiati nel salotto. Ricambiarono
l’ospitalità facendoci dono - lo avevano trasportato con una
carriola - di un grosso contenitore di alluminio pieno di ottimo
olio, che avevano preso al non lontano Aeroporto dell’Urbe,
abbandonato a un forsennato saccheggio da soldati e ufficiali in
fuga. Anch'io, assieme all’inseparabile Lucio, mi ero affrettato ad
accorrervi, speranzoso di poter racimolare qualcosa di utile, o
almeno di interessante. Ci trascinavamo dietro la bicicletta del suo
attendente, poteva essere necessaria per caricarci su la roba
trafugata. Il padre di Lucio era un ufficiale e allora gli ufficiali
avevano diritto ad un attendente, un giovane militare che per lo più
faceva commissioni per la moglie. Quello del padre di Lucio era un
alpino, alto, robusto e un po’ polentone, docile e remissivo.
Andava a fare la spesa con la sporta, senza problemi.
L'aeroporto
era deserto. I capannoni rimbombavano sotto i nostri passi, ma
non trovammo nulla, tutto - l'utile come l'inutile - era già stato
portato via. Il mio miraggio era di trovare un paracadute. I
paracadute erano, allora, di seta di ottima qualità, ci si potevano
fare camicie di sogno. In un canto adocchiammo un barile: era
scoperchiato, pieno di sottaceti, la superficie oleosa coperta di una
poltiglia di mosche morte, forse uccise dagli effluvi maleodoranti.
L’unico trofeo che potei strappare e portarmi via fu una bussola
giroscopica, svitata dalla consolle di uno degli aerei parcheggiati
ai margini del campo - ce n'erano quattro o cinque, un paio
sembravano in buone condizioni e forse in grado di prendere il volo,
gli altri esibivano ferite slabbrate, prodotto dei bombardamenti ai
quali l’aeroporto veniva sottoposto quasi quotidianamente. Per
sgomberare il campo di rullaggio, qualche carcassa, un groviglio di
tubi e tela, era stata buttata nella corrente del Tevere che
costeggiava il campo, noi che nuotavamo in quelle acque corremmo il
pericolo di restarvi impigliati.
Mi infilai cautamente in
un enorme Savoia-Marchetti S.M. 88, un trimotore da bombardamento
meno noto del Savoia-Marchetti S.M. 79, quello chiamato lo
“Sparviero” o, a causa del cupolino sul dorso, il “Gobbo
maledetto” (non stupisca l'esattezza terminologica, sapevamo
distinguere a colpo d'occhio gli aerei militari, anche quelli
tedeschi o alleati, che ci sorvolavano e spesso duellavano
perpendicolarmente sulle nostre teste). Un amico più grande di noi
si divertì a sparare qualche raffica dalla mitragliera dorsale,
lasciata incustodita - ma cosa c’era di custodito, in quei giorni,
a Roma? - con il nastro dei proiettili inserito. Io non mi azzardai,
mi contentai della bussola. Ai nostri occhi il sofisticato strumento
aveva qualcosa di magico, quando scorgevamo il giroscopio - cuore del
congegno - oscillare e girarsi lentamente, quasi danzando, dentro il
liquido di servizio, rimanevamo incantati a osservare lo
straordinario fenomeno, per noi difficile da spiegare. Subito
progettai di installarla nella barca che prima o poi mi sarei fatto.
Naturalmente la mia era una sciocchezza, la bussola giroscopica ha
bisogno, per funzionare, di un motore.
Sulla strada del ritorno
camminavano al nostro fianco, a
passo svelto, altri saccheggiatori, con i volti eccitati perché
erano riusciti a trafugare qualcosa, se non all’aeroporto da un
treno abbandonato alla stazione di Monterotondo, sempre sulla
Salaria, un po' oltre l’aeroporto. I più fortunati si trascinavano
dietro sacchi, o cospicui involti, di bianchissima farina. Anche io e
Lucio ci eravamo spinti alla stazione ma arrivammo
troppo tardi, ci
sorpresero amaramente le strie bianche di farina che attraversavano
in lungo e in largo il piazzale di fronte ai binari. La fila dei
vagoni merce era desolatamente vuota - a quell’epoca dovevi
cogliere immediatamente occasioni come queste, tutti cercavano
qualcosa, l’istinto di sopravvivenza dava le ali, i confini tra il
lecito e l'illecito si erano fatti labili.
Ma
il vero trofeo di quei giorni altrimenti disperati fu, appunto, la
pistola calibro 7.65. Frugavo
qua e là nel parco ormai deserto, aggirandomi tra le bellissime
fontanelle scolpite e il laghetto nel quale, quando c'era l'acqua,
d'estate gracidavano le rane. La scorsi dietro una bordura di
mortella. Era appartenuta sicuramente ad un ufficiale che se ne era
liberato al momento di darsi alla fuga. Era piatta, elegante,
brunita, il caricatore pieno di proiettili. Insieme alla pistola mi
portai a casa, per la verità, un paio di moschetti ’91 (con i
fucili '91 erano l'arma sovrana della fanteria italiana), un po' di
sacchetti di un esplosivo confezionato in sottili quadratini che
somigliavano molto alla pasta a quadrucci, alcuni proiettili Very di
quelli usati per le segnalazioni. Non trovammo, purtroppo, l’apposita
lanciarazzi, ma nei giorni seguenti riuscii ugualmente, con un
marchingegno di cui fui molto fiero, a spararli. Lasciavano nel cielo
la loro stria rossastra, ricadevano sui tetti dei vicini, sentii
madri affacciarsi alle finestre urlandomi dietro improperi: “Gioli!
Sei un mascalzone!” Gioli era - alla toscana - il diminutivo del
mio nome, tutti mi chiamavano così.
Il
mio lato infantile stava però facendo posto all'adolescente che
cercava di partecipare agli eventi, grandiosi e incomprensibili, in
tumultuoso svolgimento attorno a lui. Durante i mesi dell'occupazione
nazista misi assieme un arsenale di tutto rispetto. Lo tenevo
nascosto in parte sotto l’ultimo cassetto del comò in parte dietro
il letto. I miei non si accorsero di nulla, almeno finché mio padre,
entrando una volta nella mia stanza, non mi trovò intento a lustrare
uno dei due moschetti con uno strofinaccio intinto in olio d’oliva
rubacchiato in cucina. Io sapevo smontare e rimontare un fucile o un
moschetto ’91: come tutti i miei coetanei ero - ovviamente - un
avanguardista e gli avanguardisti facevano le loro esercitazioni del
sabato pomeriggio con veri moschetti ai quali era stato tolto o
raschiato via il percussore. Oltre ai due moschetti, avevo un fucile
‘91 (per incidens, fui molto stupito quando, molti anni dopo,
appresi che per assassinare il Presidente J.F. Kennedy, Lee Harvey
Oswald aveva usato proprio uno di quei fucili, mai avrei pensato che
fosse un’arma così precisa e affidabile). Lo avevo casualmente
scovato in una grotta in aperta campagna e me lo ero portato a casa
avviluppato sotto il cappotto, cercando di non far troppo emergere
dal colletto la lunga canna. Mi fu poi affidata da custodire, non
ricordo come, anche una cassetta di proiettili per il mitra Beretta
della Pai, la Polizia Coloniale Italiana, fatta rientrare dall'Africa
e in servizio cittadino nelle inconsuete divise kakhi e in testa
l'elmetto coloniale di sughero. Attraverso giri strani mi arrivarono
infine un paio di comuni revolver ma anche uno enorme e pesantissimo,
credo una Colt, che sembrava d’argento. Le mie cure assidue erano
però dedicate alla pistola belga. Ne sparai l’intero caricatore,
insieme a Lucio, su in soffitta. Nonostante che, in quel periodo,
armi e armamenti girassero a fiumi, non riuscii a trovare altri
proiettili, la pistola però la portai sempre appresso ogni volta che
pensavo potesse essercene bisogno. Non la usai mai.
In
quei giorni febbrili e carichi di attesa mi aggregai al Partito
d’Azione. Sognavamo l’insurrezione liberatrice contro i nazisti,
ci riunivamo periodicamente a casa dell’uno o dell’altro, sempre
preoccupati di non farci seguire o notare. Alle riunioni c’ero io
del Partito d’Azione, ma anche monarchici e cattolici. Ci
pervenivano, per vie misteriose, pacchetti di giornali clandestini,
che io distribuivo a scuola, ai compagni fidati. Ma mi accaddero
anche cose eccitanti. Due o tre giorni dopo l’8 settembre assistei
ad uno scontro militare a Piazza Fiume. Nella febbre dell’attesa
l’impazienza ci divorava, tutto poteva accadere, bastava un
nonnulla, una voce, un sussurro, per metterci in allarme: così, un
pomeriggio arioso e soleggiato, mi misi in cammino verso il centro,
con la mia pistola nella cintola dei pantaloni. Arrivai a Piazza
Fiume, piena di gente che urlava a piena gola, il grido che si
sentiva di più era “Viva Savoia, abbasso Mussolini”. Scorsi,
facendomi largo tra gambe e braccia, una colonna di autocarri
militari carichi di soldati - credo anche questi della Divisione
Piave - che muoveva lentamente verso Porta Pinciana. Venivano forse
da fuori Roma, dalla Via Nomentana. L'entusiasmo, figlio assurdo di
una assurda speranza, era indescrivibile. A un certo momento arriva a
gran velocità, fendendo la folla, una automobile da campo
dell'esercito tedesco, con quattro militari a bordo. L’auto si
bloccò a fianco del corteo degli autocarri, ne scesero un paio di
ufficiali. Gli autocarri si fermarono, accorse qualche ufficiale
italiano della colonna. Si aprì una discussione. Non so come o
perché, si udirono colpi di arma da fuoco. La folla sbandò, si
divise, il fuggi fuggi la disperse in mille rivoli. Anche io mi misi
a correre, mi rifugiai ansimando in un portone. Si sentirono altri
spari. Poi un silenzio innaturale, rotto dal sordo gorgoglio dei
motori, da qualche voce altissima, disperata. Aspettammo un po'
tempo, alla fine mi azzardai ad uscire per strada. L’automobile dei
tedeschi era scomparsa, la colonna degli autocarri aveva ripreso a
muoversi. Mi aggirai attorno, chissà cosa era successo. Vidi, capii:
in un angolo della piazza (ogni volta che ci passo mi si accendono i
fotogrammi della scena) per terra, un brandello di carne in un pozza
di sangue, sulla quale era stata gettata una secchiata d’acqua.
La
sera del 4 giugno decisi di rompere ancora gli indugi e correre al
centro, volevo finalmente combattere e comunque andare incontro ai
liberatori. Mi infilai di nuovo nella cintura dei pantaloni la mia
calibro 7.65. Non mi servì nemmeno questa volta, i tedeschi erano
già lontani quando incontrai le prime “jeep” e i primi “truck”
con la stella bianca della “U.S. Army”sul
cofano motore, carichi di eccitati soldati: quella fu anche per me la
notte della festa popolare più attesa e goduta. Rientrai a casa
molto tardi solo per non fare impensierire i miei. Ma l'impazienza mi
teneva desto, quelle ore erano cariche di novità da non perdere,
assolutamente. La mattina uscii presto. Un drappelletto di soldati
americani stava disteso stravaccato sul marciapiede, mangiucchiando,
leggendo o radendosi, in attesa di ordini. Che presto arrivarono: si
diceva che a poca distanza fosse in corso uno scontro con reparti di
retroguardia tedeschi. Forse era l'occasione perché potessi fare
anche io un po' di guerra. Afferrai la mia pistola - non avevo
proiettili ma vedi mai - la infilai nella cintola, ero divenuto ormai
esperto. Anche un po' gradasso.
Sullo
strapiombo dove finiva la città gli americani si erano appostati tra
cespugli di sambuca e rovi. Parecchi metri più sotto, in un
gruppetto di case contadine al di là dell'Aniene, era appostato il
reparto tedesco, si vedeva anche un carro armato. Si sparava da una
parte e dall'altra, i Garand americani, tozzi e pesanti, facevano un
sordo ta-pum, una mitragliatrice faceva partire una breve raffica poi
l'addetto si tirava indietro, con la faccia annoiata. Io mi appostai,
inginocchiato, accanto a lui. Ero in guerra, finalmente. Non durò a
lungo, un corpulento ma autoritario graduato mi scacciò via, dovetti
risalire la costa, mi rintanai sotto la tettoia di un casale
contadino. No, non avrei combattuto, ma volevo vedere come sarebbe
andata a finire. Non distanti da me, un paio di soldati americani
fumavano e chiacchieravano. Uno di loro mi si accostò, puntò il
dito sulla pistola che occhieggiava di sotto la cintola. Mi indicò
che glie la mostrassi. La prese in mano, la palpeggiò con curiosità,
mi fece capire che l'avrebbe comperata volentieri. Io nicchiavo, per
nulla al mondo mi sarei separato dall'amato gingillo. La cosa non
andò avanti, sentimmo a un tratto una sorta di sordo rombo, e subito
vidi la tettoia di lamiera ondulata che copriva gli attrezzi
scomporsi, frantumarsi, volare via tra una nuvola di polvere
rossiccia. Il carro armato tedesco era entrato in azione e mirava
sulla casupola. Mi prese il terrore panico, cominciai a correre.
Corsi a perdifiato, scorsi Lucio che anche lui correva, al mio
fianco. Ci fermammo solo quando fummo certi di essere molto lontano
dallo scontro. Nella cintola avevo ancora la mia 7.65.
La
guerra finì, il governo emanò una ordinanza perché venissero
immediatamente consegnate alle autorità tutte le armi detenute da
privati cittadini. Obbedii, portai all'ammasso il mio arsenale. Ma
non consegnai la pistola. Passarono alcuni anni. Non ricordo
esattamente come avvenne, un giorno qualcuno mi propose di scambiare
la 7.65 con un piccolo revolver, molto meno ingombrante. Accettai.
Altro tempo passò, quando mia moglie la vide in giro per casa mi
sequestrò l'arma. Lei odiava ogni arma, me l'ha tenuta nascosta per
cinquanta anni, l'ho ritrovata solo dopo che lei era morta.