domenica 12 maggio 2013



UNA 7.65 PER IL PARTIGIANO GIOLI
di Angiolo Bandinelli
da “Il Foglio”, 11 maggio 2013


Lo sciagurato che il giorno del giuramento del governo Letta ha sparato, ferendoli, contro due carabinieri, utilizzava - riferiscono i giornali - una pistola automatica Beretta calibro 7.65 comperata, ha detto costui, da una specie di rigattiere, con il numero di serie eraso per non farne individuare la provenienza. Il dettaglio dà la stura ai ricordi: anche io ho posseduto una automatica 7.65. Non era una Beretta, era di fabbricazione belga. A quell'epoca mi passarono per le mani parecchie altre armi, ma quella pistola mi fu particolarmente cara: mi si capisca, fu parte di una vicenda personale piena di sapore, e quasi epica. Iniziò durante la guerra, nel drammatico settembre del 1943, l'amaro autunno - secondo alcuni - che vide il tramonto di un'idea di nazione.

Sotto casa mia, in un parco pubblico, da qualche giorno era acquartierato un reparto della Divisione di Fanteria Piave. Si temeva il peggio. Al mercato tra le donne, tra gli uomini nei caffè e nelle vinatterie si vociferava che la Divisione fosse stata concentrata intorno e dentro Roma per motivi di sicurezza, in vista di un possibile sbarco alleato o fors'anche di una ormai probabile ritorsione tedesca: dopo il 25 luglio, quando si erano consumati l'estromissione dal governo e l’arresto di Mussolini, l’alleato diffidava degli italiani, con quegli strani partiti riemersi dal nulla ma certo non favorevoli al proseguimento di un conflitto di stampo fascista. Arrivò l’8 settembre, e fu la catastrofe. In un amen il reparto si dissolse, ufficiali e soldati cercarono scampo - ciascuno per sé e Dio per tutti - abbandonando ogni cosa non necessaria, soprattutto l’armamento. Il parco deserto, le tende vuote, davano un senso di sinistra desolazione. Con altri ragazzi amici ci spingemmo cautamente a frugare tra le carabattole sparpagliate. C’erano armi dappertutto: ovviamente molti fucili, mi colpirono però i mortai, aggeggi quasi ignoti, certo mai visti altrimenti. I soldati si erano portati via i muli per tornarsene a casa con in mano qualcosa; un paio, che volevano dirigersi verso il Veneto, furono ospitati per qualche giorno a casa nostra, dormirono su materassi arrangiati nel salotto. Ricambiarono l’ospitalità facendoci dono - lo avevano trasportato con una carriola - di un grosso contenitore di alluminio pieno di ottimo olio, che avevano preso al non lontano Aeroporto dell’Urbe, abbandonato a un forsennato saccheggio da soldati e ufficiali in fuga. Anch'io, assieme all’inseparabile Lucio, mi ero affrettato ad accorrervi, speranzoso di poter racimolare qualcosa di utile, o almeno di interessante. Ci trascinavamo dietro la bicicletta del suo attendente, poteva essere necessaria per caricarci su la roba trafugata. Il padre di Lucio era un ufficiale e allora gli ufficiali avevano diritto ad un attendente, un giovane militare che per lo più faceva commissioni per la moglie. Quello del padre di Lucio era un alpino, alto, robusto e un po’ polentone, docile e remissivo. Andava a fare la spesa con la sporta, senza problemi.

L'aeroporto era deserto. I capannoni rimbombavano sotto i nostri passi, ma non trovammo nulla, tutto - l'utile come l'inutile - era già stato portato via. Il mio miraggio era di trovare un paracadute. I paracadute erano, allora, di seta di ottima qualità, ci si potevano fare camicie di sogno. In un canto adocchiammo un barile: era scoperchiato, pieno di sottaceti, la superficie oleosa coperta di una poltiglia di mosche morte, forse uccise dagli effluvi maleodoranti. L’unico trofeo che potei strappare e portarmi via fu una bussola giroscopica, svitata dalla consolle di uno degli aerei parcheggiati ai margini del campo - ce n'erano quattro o cinque, un paio sembravano in buone condizioni e forse in grado di prendere il volo, gli altri esibivano ferite slabbrate, prodotto dei bombardamenti ai quali l’aeroporto veniva sottoposto quasi quotidianamente. Per sgomberare il campo di rullaggio, qualche carcassa, un groviglio di tubi e tela, era stata buttata nella corrente del Tevere che costeggiava il campo, noi che nuotavamo in quelle acque corremmo il pericolo di restarvi impigliati.

Mi infilai cautamente in un enorme Savoia-Marchetti S.M. 88, un trimotore da bombardamento meno noto del Savoia-Marchetti S.M. 79, quello chiamato lo “Sparviero” o, a causa del cupolino sul dorso, il “Gobbo maledetto” (non stupisca l'esattezza terminologica, sapevamo distinguere a colpo d'occhio gli aerei militari, anche quelli tedeschi o alleati, che ci sorvolavano e spesso duellavano perpendicolarmente sulle nostre teste). Un amico più grande di noi si divertì a sparare qualche raffica dalla mitragliera dorsale, lasciata incustodita - ma cosa c’era di custodito, in quei giorni, a Roma? - con il nastro dei proiettili inserito. Io non mi azzardai, mi contentai della bussola. Ai nostri occhi il sofisticato strumento aveva qualcosa di magico, quando scorgevamo il giroscopio - cuore del congegno - oscillare e girarsi lentamente, quasi danzando, dentro il liquido di servizio, rimanevamo incantati a osservare lo straordinario fenomeno, per noi difficile da spiegare. Subito progettai di installarla nella barca che prima o poi mi sarei fatto. Naturalmente la mia era una sciocchezza, la bussola giroscopica ha bisogno, per funzionare, di un motore.

Sulla strada del ritorno camminavano al nostro fianco, a passo svelto, altri saccheggiatori, con i volti eccitati perché erano riusciti a trafugare qualcosa, se non all’aeroporto da un treno abbandonato alla stazione di Monterotondo, sempre sulla Salaria, un po' oltre l’aeroporto. I più fortunati si trascinavano dietro sacchi, o cospicui involti, di bianchissima farina. Anche io e Lucio ci eravamo spinti alla stazione ma arrivammo troppo tardi, ci sorpresero amaramente le strie bianche di farina che attraversavano in lungo e in largo il piazzale di fronte ai binari. La fila dei vagoni merce era desolatamente vuota - a quell’epoca dovevi cogliere immediatamente occasioni come queste, tutti cercavano qualcosa, l’istinto di sopravvivenza dava le ali, i confini tra il lecito e l'illecito si erano fatti labili.

Ma il vero trofeo di quei giorni altrimenti disperati fu, appunto, la pistola calibro 7.65. Frugavo qua e là nel parco ormai deserto, aggirandomi tra le bellissime fontanelle scolpite e il laghetto nel quale, quando c'era l'acqua, d'estate gracidavano le rane. La scorsi dietro una bordura di mortella. Era appartenuta sicuramente ad un ufficiale che se ne era liberato al momento di darsi alla fuga. Era piatta, elegante, brunita, il caricatore pieno di proiettili. Insieme alla pistola mi portai a casa, per la verità, un paio di moschetti ’91 (con i fucili '91 erano l'arma sovrana della fanteria italiana), un po' di sacchetti di un esplosivo confezionato in sottili quadratini che somigliavano molto alla pasta a quadrucci, alcuni proiettili Very di quelli usati per le segnalazioni. Non trovammo, purtroppo, l’apposita lanciarazzi, ma nei giorni seguenti riuscii ugualmente, con un marchingegno di cui fui molto fiero, a spararli. Lasciavano nel cielo la loro stria rossastra, ricadevano sui tetti dei vicini, sentii madri affacciarsi alle finestre urlandomi dietro improperi: “Gioli! Sei un mascalzone!” Gioli era - alla toscana - il diminutivo del mio nome, tutti mi chiamavano così.

Il mio lato infantile stava però facendo posto all'adolescente che cercava di partecipare agli eventi, grandiosi e incomprensibili, in tumultuoso svolgimento attorno a lui. Durante i mesi dell'occupazione nazista misi assieme un arsenale di tutto rispetto. Lo tenevo nascosto in parte sotto l’ultimo cassetto del comò in parte dietro il letto. I miei non si accorsero di nulla, almeno finché mio padre, entrando una volta nella mia stanza, non mi trovò intento a lustrare uno dei due moschetti con uno strofinaccio intinto in olio d’oliva rubacchiato in cucina. Io sapevo smontare e rimontare un fucile o un moschetto ’91: come tutti i miei coetanei ero - ovviamente - un avanguardista e gli avanguardisti facevano le loro esercitazioni del sabato pomeriggio con veri moschetti ai quali era stato tolto o raschiato via il percussore. Oltre ai due moschetti, avevo un fucile ‘91 (per incidens, fui molto stupito quando, molti anni dopo, appresi che per assassinare il Presidente J.F. Kennedy, Lee Harvey Oswald aveva usato proprio uno di quei fucili, mai avrei pensato che fosse un’arma così precisa e affidabile). Lo avevo casualmente scovato in una grotta in aperta campagna e me lo ero portato a casa avviluppato sotto il cappotto, cercando di non far troppo emergere dal colletto la lunga canna. Mi fu poi affidata da custodire, non ricordo come, anche una cassetta di proiettili per il mitra Beretta della Pai, la Polizia Coloniale Italiana, fatta rientrare dall'Africa e in servizio cittadino nelle inconsuete divise kakhi e in testa l'elmetto coloniale di sughero. Attraverso giri strani mi arrivarono infine un paio di comuni revolver ma anche uno enorme e pesantissimo, credo una Colt, che sembrava d’argento. Le mie cure assidue erano però dedicate alla pistola belga. Ne sparai l’intero caricatore, insieme a Lucio, su in soffitta. Nonostante che, in quel periodo, armi e armamenti girassero a fiumi, non riuscii a trovare altri proiettili, la pistola però la portai sempre appresso ogni volta che pensavo potesse essercene bisogno. Non la usai mai.

In quei giorni febbrili e carichi di attesa mi aggregai al Partito d’Azione. Sognavamo l’insurrezione liberatrice contro i nazisti, ci riunivamo periodicamente a casa dell’uno o dell’altro, sempre preoccupati di non farci seguire o notare. Alle riunioni c’ero io del Partito d’Azione, ma anche monarchici e cattolici. Ci pervenivano, per vie misteriose, pacchetti di giornali clandestini, che io distribuivo a scuola, ai compagni fidati. Ma mi accaddero anche cose eccitanti. Due o tre giorni dopo l’8 settembre assistei ad uno scontro militare a Piazza Fiume. Nella febbre dell’attesa l’impazienza ci divorava, tutto poteva accadere, bastava un nonnulla, una voce, un sussurro, per metterci in allarme: così, un pomeriggio arioso e soleggiato, mi misi in cammino verso il centro, con la mia pistola nella cintola dei pantaloni. Arrivai a Piazza Fiume, piena di gente che urlava a piena gola, il grido che si sentiva di più era “Viva Savoia, abbasso Mussolini”. Scorsi, facendomi largo tra gambe e braccia, una colonna di autocarri militari carichi di soldati - credo anche questi della Divisione Piave - che muoveva lentamente verso Porta Pinciana. Venivano forse da fuori Roma, dalla Via Nomentana. L'entusiasmo, figlio assurdo di una assurda speranza, era indescrivibile. A un certo momento arriva a gran velocità, fendendo la folla, una automobile da campo dell'esercito tedesco, con quattro militari a bordo. L’auto si bloccò a fianco del corteo degli autocarri, ne scesero un paio di ufficiali. Gli autocarri si fermarono, accorse qualche ufficiale italiano della colonna. Si aprì una discussione. Non so come o perché, si udirono colpi di arma da fuoco. La folla sbandò, si divise, il fuggi fuggi la disperse in mille rivoli. Anche io mi misi a correre, mi rifugiai ansimando in un portone. Si sentirono altri spari. Poi un silenzio innaturale, rotto dal sordo gorgoglio dei motori, da qualche voce altissima, disperata. Aspettammo un po' tempo, alla fine mi azzardai ad uscire per strada. L’automobile dei tedeschi era scomparsa, la colonna degli autocarri aveva ripreso a muoversi. Mi aggirai attorno, chissà cosa era successo. Vidi, capii: in un angolo della piazza (ogni volta che ci passo mi si accendono i fotogrammi della scena) per terra, un brandello di carne in un pozza di sangue, sulla quale era stata gettata una secchiata d’acqua.

La sera del 4 giugno decisi di rompere ancora gli indugi e correre al centro, volevo finalmente combattere e comunque andare incontro ai liberatori. Mi infilai di nuovo nella cintura dei pantaloni la mia calibro 7.65. Non mi servì nemmeno questa volta, i tedeschi erano già lontani quando incontrai le prime “jeep” e i primi “truck” con la stella bianca della “U.S. Army”sul cofano motore, carichi di eccitati soldati: quella fu anche per me la notte della festa popolare più attesa e goduta. Rientrai a casa molto tardi solo per non fare impensierire i miei. Ma l'impazienza mi teneva desto, quelle ore erano cariche di novità da non perdere, assolutamente. La mattina uscii presto. Un drappelletto di soldati americani stava disteso stravaccato sul marciapiede, mangiucchiando, leggendo o radendosi, in attesa di ordini. Che presto arrivarono: si diceva che a poca distanza fosse in corso uno scontro con reparti di retroguardia tedeschi. Forse era l'occasione perché potessi fare anche io un po' di guerra. Afferrai la mia pistola - non avevo proiettili ma vedi mai - la infilai nella cintola, ero divenuto ormai esperto. Anche un po' gradasso.

Sullo strapiombo dove finiva la città gli americani si erano appostati tra cespugli di sambuca e rovi. Parecchi metri più sotto, in un gruppetto di case contadine al di là dell'Aniene, era appostato il reparto tedesco, si vedeva anche un carro armato. Si sparava da una parte e dall'altra, i Garand americani, tozzi e pesanti, facevano un sordo ta-pum, una mitragliatrice faceva partire una breve raffica poi l'addetto si tirava indietro, con la faccia annoiata. Io mi appostai, inginocchiato, accanto a lui. Ero in guerra, finalmente. Non durò a lungo, un corpulento ma autoritario graduato mi scacciò via, dovetti risalire la costa, mi rintanai sotto la tettoia di un casale contadino. No, non avrei combattuto, ma volevo vedere come sarebbe andata a finire. Non distanti da me, un paio di soldati americani fumavano e chiacchieravano. Uno di loro mi si accostò, puntò il dito sulla pistola che occhieggiava di sotto la cintola. Mi indicò che glie la mostrassi. La prese in mano, la palpeggiò con curiosità, mi fece capire che l'avrebbe comperata volentieri. Io nicchiavo, per nulla al mondo mi sarei separato dall'amato gingillo. La cosa non andò avanti, sentimmo a un tratto una sorta di sordo rombo, e subito vidi la tettoia di lamiera ondulata che copriva gli attrezzi scomporsi, frantumarsi, volare via tra una nuvola di polvere rossiccia. Il carro armato tedesco era entrato in azione e mirava sulla casupola. Mi prese il terrore panico, cominciai a correre. Corsi a perdifiato, scorsi Lucio che anche lui correva, al mio fianco. Ci fermammo solo quando fummo certi di essere molto lontano dallo scontro. Nella cintola avevo ancora la mia 7.65.

La guerra finì, il governo emanò una ordinanza perché venissero immediatamente consegnate alle autorità tutte le armi detenute da privati cittadini. Obbedii, portai all'ammasso il mio arsenale. Ma non consegnai la pistola. Passarono alcuni anni. Non ricordo esattamente come avvenne, un giorno qualcuno mi propose di scambiare la 7.65 con un piccolo revolver, molto meno ingombrante. Accettai. Altro tempo passò, quando mia moglie la vide in giro per casa mi sequestrò l'arma. Lei odiava ogni arma, me l'ha tenuta nascosta per cinquanta anni, l'ho ritrovata solo dopo che lei era morta. 

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