mercoledì 17 dicembre 2014

Da:

Angiolo Bandinelli 
"Giardini crudeli"
pagg. 78
Ediz. Pendragon, 2014
10,00 euro


Capitolo 3


Da quando - con Baudelaire - la poesia è condannata all'urbano, tocca alla prosa penetrare le lusinghe del paesaggio. Ma a suo rischio: può uscirne indenne, e può esserne travolta e perirne. Il giardino è il labirinto, dentro ogni giardino c'è un vago orrore di violenze e di blandizie, di sacrifici crudeli. Chi riuscirà a cogliere i segreti e le metafore di un giardino, le trame grazie alle quali i suoi proprietari consumano il rapporto con uno spazio delimitato e fantastico, con una natura ristretta eppure imprevedibile, quasi sempre fallendo e ritraendosene amareggiati (e a noi resta solo farci strada attraverso l'impalpabile e mai accettata incuria in cui decadono, prima o poi, i più belli e famosi giardini)?

Ma i giardini sono ormai rari. E' possibile che in città, anche nei quartieri più aridi o sulle terrazze, scarni riquadri verdi di fiori e piante abbiano un posto di riguardo e opulento, e ad essi si rivolgono fruttuosamente le rubriche dei settimanali dedicate a ciò che è perduto; ma sono veri giardini, quelli dove si coltivano piante senza radici nel profondo? E neppure sono belli i giardini pubblici, le piante senza un padrone languono, il giardino vive nel rapporto lungo col tempo e con le gelosie di chi lo cura. Resta la tristezza dolce dei vecchi giardini abbandonati nelle ville e nei suburbi, delle aie e dei cortili.

Il giardino di Matteo e Camilla è piccolo, un fazzoletto dietro la casa (ancora una stalla restaurata), pochi metri quadrati che si affacciano su un muro a secco a filo del quale, due metri più in basso, corre la viottola da dove entrano in paese le macchine agricole e i trattori. Un giardino, dunque, che offre pochi spazi. Dalla casa si scende sul terrazzo, rettangolare, cinto da una sottile ringhiera. Due corte gradinate in pietra, una di qua e una di là, e si è nel prato. A destra si innalza un alloro, alla sinistra c'è invece un enorme rosmarino, da cui si dipartono e al quale richiamano tutte le delizie e tutte le promesse. Quelli che capitano nel giardino se ne escono in esclamazioni ammirate, giurano che mai hanno visto un cespuglio di rosmarino uguale a questo. E' di dimensioni davvero inconsuete. I rami oscillano protesi in festoni, spasmodici, in tutte le direzioni, e sormontano il terrazzo infilandosi tra le sbarrette della ringhiera: amano la pietra, l'arenaria che accumula e riverbera il calore del sole. Basta sfiorarli, passare la mano sugli aghi succulenti, per ritrarla impregnata di essenza, che resta a lungo, pesante.

Matteo lo comprò che entrava tutto in un vasetto di plastica nera interrato in un'aiola insieme a centinaia di altri, in bell'ordine. Voleva qualche pianta officinale, e un rosmarino non poteva mancare accanto alla salvia, all'origano, alla ruta, alla menta, alla borragine. Il rosmarino crebbe rapidamente. Più rapidamente di ogni altra pianta del giardino, eccetto l'alloro che lo fronteggia col suo fogliame nero. Ora è un cespuglio così folto che cinque persone tenendosi per mano riescono appena ad abbracciarlo, e dilaga fino a coprire metà del terrazzo. Per quasi tutto l'anno è una festa di verde e di blu, il blu inconsunto dei fiori che in tutte le stagioni ne punteggiano il mantello. All'inizio dell'estate i rami infittiscono, si gonfiano di umori, i nuovi sopra i vecchi rivestiti di squame, e guadagnano qualche centimetro ancora sulla ringhierina che avvolgono e celano con la forza e l'intensità di una piovra terrestre. Matteo prova un po' di orrore dinanzi a questa pianta. Gli fa venire in mente, come nessun'altra, il ceppo oscuro delle cose e delle anime.

Il suo profumo e i suoi fiori richiamano incessantemente una popolazione di insetti varia e inusitata. Accorrono da ogni parte, ammantano il cespuglio di un ronzare
turbolento. Vespe gialle e nere, api piumose con le zampette appesantite dal polline,


calabroni bluastri e coleotteri rivestiti di scaglie - nere, o scintillanti di tutte le smagliature dell'iride - partono in volo o si posano leggermente. Certi aprono la corazza e ne estraggono, come quando un violino esce dalla custodia, ali ronzanti visibili solo per un attimo prima che l'insetto torni a librarsi a mezz'aria. Mantidi impacciate, come fossero caricate di un peso enorme o rese ottuse da un male segreto, farfalle svolazzanti in scatti maniacali, tutta un'arnia in continuo e irrefrenabile moto. Sembra obbediscano a un richiamo, o piuttosto a un ordine che vieta loro di fermarsi un istante. Volano da un rametto all'altro, da un mazzetto di fiori a un cespo, si posano su un grumo blu e subito si precipitano su uno più in là, incalzando e penetrandolo con sottili antenne e proboscidi per suggerne profumi e cere.

Mentre sono ancora indaffarati le ali trasparenti li strappano via per trascinarli, malvolentieri, dall'altra parte del cespuglio dove il rito riprende, ugualmente assillato. Dietro già altri zampettano, aggrappandosi ai rami e agli aghi verdi sotto i quali il rosmarino ha il colore della cenere, o scavalcando nodosità e forcelle tra cui si stende una tela di ragno polverosa. La danza delle ali comincia il mattino presto, appena i raggi del sole, cadendo dai vertici dell'azzurro come una pioggia, si infiltrano tra i rami e fanno sentire il loro tepore. Si fa più intensa fino a culminare a mezzogiorno, sotto una luce che si è fatta arida. Il ritmo è ora intenibile, sembra che l'intero cespuglio sia scosso e vibri all'unisono, ed è difficile avvicinarglisi: vespe, calabroni, api volteggiano attorno all'intruso sfiorandolo, scattando ansiose. Nel pomeriggio il rosmarino si distende nella calura e profuma di resina, un richiamo torbido, dolciastro e repellente. Il pellegrinare delle api si fa più rado verso sera, quando pochi stanchi insetti vanno ancora in giro quasi stessero cercando di raccogliere gli avanzi del banchetto altrui, quanto è stato lasciato dall'avidità dei commensali del giorno e dalla loro furia di accumulare essenze e polveri dorate. Inattese danze


proseguono languide, fin dentro l'autunno e il primo inverno, di straniti coleotteri. Deboli, ubriachi per la stanchezza, si lasciano andare e cadono al suolo con le elitre aperte e le ali scosse da un tremito.

Poco discosto, Matteo osserva un lillà. E' un alberello smilzo, un bastoncino che sostiene pochi rametti a raggiera. Camilla ha voluto assolutamente un lillà, nel giardino. In ognuno dei giardini della zona, anche nei più poveri dove la terra secca brucia tra i cespugli, davanti al muretto o proprio in faccia alla casa c'è sempre un lillà, mai troppo alto e mai troppo bello. Solo a primavera, per un paio di settimane, i pennacchi dei lillà diventano la colorata bandiera del giardino, dell'orto, e attirano l'ammirazione dei passanti. Amano strapparne i mazzi violetti, e portarseli a casa. Gli amici in visita ne chiedono sempre, e non vengono mai respinti a mani vuote. Come se i sottili alberelli avessero il dono di riprodurne in magica quantità.

Anche Camilla ha voluto il suo lillà. Bisognava allora andare al vivaio, comprare la piantina in vaso. Invece, Matteo una notte ha preso la vanga, è uscito, si è diretto per lo stradello fin sotto il giardino dei vicini dal quale un gran ciuffo di lillà diffonde in giro polloni e virgulti primaverili, alcuni dei quali sono riusciti a farsi largo fin tra i sassi della strada, a qualche metro dalla pianta madre. Matteo si è dato da fare con la vanga. La notte era chiara e la strada era bianca, con ombre stagliate. Ha lavorato sordamente per non farsi sentire dai vicini, che sono in casa e tengono le finestre aperte e illuminate nell'aria tiepida. Sassi tenaci si sono opposti ai suoi sforzi. La
vanga ha sbattuto con clangore, a un certo momento. I vicini si sono affacciati per vedere chi sia, nel buio, a provocare estranei rumori. Matteo si è dovuto fermare per qualche istante. Alla fine, è riuscito a strappare la piantina con la radice e a portarsela a casa, dove è giunto trafelato.




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