lunedì 14 dicembre 2015



Dopo il lepenismo: una Europa tra nazionalismi e localismi. 

(da "Notizie Radicali" del 14/11/2015)

I risultati del ballottaggio hanno piegato le aspirazioni di Marine Le Pen, ma non cambiano i termini del “caso” francese.  Per il momento Hollande l’ha scampata,  ma anche lui va incasellato tra gli sconfitti. Il resto del panorama politico d’oltralpe, poi, ci dà sempre l’immagine di un  disastro nazionale (e, ahimè, europeo).  L’assalto del lepenismo alle istituzioni e al  governo è stato respinto, ma non si dica che ha vinto la democrazia.  Marine Le Pen non ha tutti i torti nel sostenere che in Francia destra e sinistra sono morte. Il tradizionale gioco tra destra e sinistra è scomparso, i passeggeri della nave Francia si sono buttati tutti sulla fiancata opposta a quella dove si era provocata la falla, giusto per impedire alla nave di affondare: ma  la falla sta ancora lì. Detta un po’ brutalmente, in Francia oggi si vince o si perde a seconda dell’emozione momentanea, nello scontro tra due paure. Se mai gli sarà possibile riprendere in mano le carte, il gioco del confronto democratico va rifondato ex novo.
Marine Le Pen  aveva recentemente strappato il partito dalle mani del fondatore, il padre,  ma il lepenismo  rappresenta nell’oggi  una ideologia di assai lunga durata e che ha un nome - per l’appunto -  francese:  “chauvinisme”,  sciovinismo.  Cova da sempre sotto le ceneri  della Francia profonda, ben oltre le odierne paure per l’invasione degli immigrati:  per capirlo, basterebbe ricordare  il  referendum  che seppellì  il Trattato per la Costituzione Europea  sotto  il “no” dei  francesi (29 maggio 2005) e  trascinò con sé, due giorni dopo,   il “no” dei Paesi Bassi. Allora, giocò la sua parte nel determinare il voto la paura dell”idraulico” polacco che, con la vittoria del sì alla “direttiva Bolkenstein” ,  avrebbe invaso la Francia e rubato il lavoro ai francesi.  Volendo, si potrebbe poi risalire al “no”  al Trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa (CED) espresso dall’Assemblea Nazionale francese, con l’escamotage di un  espediente procedurale,  il 30 agosto 2004. Tra le cause della  mancata approvazione di quel  rivoluzionario trattato  c’era  la morte di Stalin che attenuò le tensioni con l’Unione Sovietica,  il cattivo andamento della guerra in Indocina ma soprattutto il rifiuto dei nazionalisti - forse già lepenisti - di accettare il riarmo tedesco, sia pure sotto la bandiera stellata dell’Europa.  E alla fine - perché no? - si potrebbe riesumare con profitto il fantasma della Francia “pétainiste” di Vichy, un episodio non del tutto casuale, le cui radici forse non sono state completamente  rescisse.
Oggi, le ragioni del quasi successo lepenista  (il 42° dei voti ha comunque il suo peso negli equilibri politici dell’oggi e del domani)  vengono colte nella reazione popolare – dettata da una comprensibile  insicurezza  psicologica -  alla strage jihadista al Bataclan. Certo, quel  massacro  è stato un episodio di terrorismo gravissimo e dolorosissimo,  e può essere assunto a causa immediata e scatenante dello sconquasso elettorale;  ma forse non riesce a spiegare del  tutto  l’avanzata nazionalista. Ripetiamolo: il lepenismo  rappresenta un tassello essenziale dell’identità profonda della Francia, basta che si apra un varco e la più scapigliata Marianna si riprende  la scena. Eppure, il paese dovrebbe essere  mitridatizzato contro  certi riflussi della sua storia: nelle banlieues parigine vi sono interi quartieri (perfino la zona attorno alla cattedrale di Saint Denis, culla del gotico, dove sono sepolti alcuni Re di Francia) tra i cui abitanti è difficile scorgere un volto bianco. La Francia ha un antico retaggio di accoglienza per le genti di colore, dovuto al fatto di aver avuto  colonie dalle quali sono approdati immigrati d’ogni genere e condizione.  In questo, la Francia è simile all’Inghilterra, anche se i due paesi hanno assunto un diverso approccio al tema dell’integrazione. Ecome in Inghilterra, anche  in Francia  l’integrazione non è riuscita perfettamente, per ragioni sociali più che per motivazioni  etniche.  Si sparga su  questa  ferita sempre aperta il sale del terrorismo, e la tragedia è sicura.
Le conseguenze europee del doppio voto francese saranno  gravi. Dopo il primo turno, Salvini ha esultato, ha scambiato con la Le Pen felicitazioni e auguri. Ma - non c’è neppure bisogno di dimostrarlo - tra il lepenismo e la Lega non ci sono punti di contatto seri  e autentici, si tratta di fenomeni  sociopolitici diversissimi: non sono però i soli, in Europa c’è  un formicolare di rivendicazioni, dalla Spagna all’Inghilterra (e altrove)  che è sbagliato accorpare tutte assieme sotto l’etichetta di “populismo”, ma è giusto qualificare tutte assieme come “localiste” e antieuropee.  Con varie gradazioni, marciano assieme  nell’odio per le istituzioni di Bruxelles e Strasburgo:  si va dalla semplice  diffidenza  nei  confronti di quelle  burocrazie e delle loro farraginose  politiche  fino alle orgogliose rivendicazioni delle “piccole patrie” in rivolta contro le  grandi “nazioni” istituzionalizzatesi  nel corso dei secoli a formare gli Stati nazionali che conosciamo. Il voto francese accentuerà comunque   le tante derive  isolazioniste. Schengen è formalmente salvo, di fatto  le frontiere tra i paesi europei  diventano  sempre più muraglie disagevoli da superare.
Il localismo non ha solo il volto inferocito dei piccoli nazionalismi provinciali, nostalgici o rétro. Si può presentare anche con un volto rassicurante, apparentemente inoffensivo, perfino suadente.  Questo localismo pretende - garantisce - di  essere europeista e sinanche federalista.  I suoi sostenitori  teorizzano un federalismo che nasca “dal basso”, dalle istituzioni locali, le città o i vari distretti  amministrativi - si chiamino province o regioni - secondo il principio di sussidiarietà.  E’ una visione che si ispira più al modello dei cantoni svizzeri che a quello americano, sbocciato sull’humus della  grande cultura illuministica settecentesca: secondo quanti lo professano,  un  federalismo realizzato nel  piccolo delle comunità locali favorisce o addirittura produce  - allargandosi, diciamo così, a macchia d’olio - un federalismo istituzionale di livello sovranazionale e intereuropeo.   Il  movimento federalista europeo ha già conosciuto, decenni  fa, questa deriva, specie presso i francesi. Combattuto da Spinelli e i suoi, si è dimostrato presto, sul piano teorico non meno che nella prassi, inconcludente e distraente. Oggi lo sentiamo insinuarsi, invitante, anche in case insospettabili, per esempio tra i radicali italiani: facciamo il federalismo a partire dalle nostre città, e questo fiorirà anche, rigoglioso,  nelle Istituzioni di Strasburgo e Bruxelles.  E’ su questa base che si preme per la partecipazione alla prossima tornata amministrativa. Si tratta di  fantasie,  o forse solamente di un alibi.

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