giovedì 3 dicembre 2015



LA CITTA' PIU' ODIATA D'ITALIA...
(da “Il Foglio”, 1° dicembre 2015)

La Roma che appare nell’ultimo film della saga di 007, “Spectre”,  è  notturna, funerea, algida, sfocata e  solo lievemente clericale.  In questo tetro scenario  James Bond  può impunemente  scorrazzare di notte al volante della sua Aston Martin DB10 e sedurre la vedova nera,  Monica Bellucci, cui lui stesso ha ammazzato il marito. La Città Eterna è ridotta a cameo,  un cameo riepilogativo degli stereotipi  che da sempre la volgarizzano.  Se, nel  film, Londra si riappropria del suo ruolo di centrale mondiale dello spionismo, del potere politico torbido, da intrigo internazionale alla Le Carré, Roma appare  votata ad una stremata  decadenza.
Chissà se l’immagine di Londra è veritiera.  A noi,  quella Roma notturna  sembra  non corrispondere  a dati effettivi. E’ solo un cliché. Certamente  non è  la Roma di Marino, il sindaco in carica quando il rombante inseguimento  di James Bond  sulle banchine del Tevere  venne girato tra l’insofferenza dei cittadini, disturbati nella loro distratta quiete.  La Roma di Marino è stata in qualche modo -  piaccia o no  -  una Roma di transizione,  sospesa tra ipotesi e tracollo: l’ipotesi di una rivoluzione tanto volontaristica quanto dilettantesca  e lo sgomento della scoperta dei miasmi AMA o ATAC,  della corruzione burocratico/malavitosa, dell’abusivismo dilagante e dell’inerzia politica. Ma la pasticciata Roma di Marino è l’inaspettato e inquietante epilogo  di una storia – anche amministrativa, oltre che politica e culturale - non del  tutto banale o vergognosa. Sindaci come Petroselli possono  meritare l’enfasi di una intitolazione stradale prestigiosa, l’arteria  che cinge il Campidoglio; accanto a Petroselli altri sindaci, di una parte o dell’altra, sono stati non indecorosi anche quando non così memorabili.
In questi giorni frenetici,  quando a destra come a sinistra si va in cerca affannosa di un nome appena appena decente da presentare per la scalata al colle capitolino, la visione del film di James Bond impone qualche pacata riflessione.  Stiamo attenti a giostrare con gli stereotipi,  c’è il rischio di dimenticare quel che è in ballo, e non solo  nella tornata elettorale ormai prossima: far uscire la capitale d’Italia dall’impasse amministrativo ma anche  dai cliché che la tradiscono. Si  tratta di restituire questa città ad una dignità che sembra perduta. Anche per colpa nostra, di quanti, per una frenesia di bassa o comunque spicciola politica hanno mediaticamente contribuito a rafforzare i sentimenti di antipatia, di avversione, di irriconoscenza e di rancore che il nome di Roma suscita nell’opinione pubblica italiana, non solo dei leghisti padani.  Roma è la città più odiata d’Italia. Anche respingendo al mittente,  con molte ottime ragioni, l’infame “Roma ladrona” , un po’ di quell’avversione se la merita.  Però, per cominciare a capire qualcosa di Roma sarebbe bene -  in partenza - non dimenticare che  è l’unica capitale d’Europa (e forse del mondo) che invece di  guidare e plasmare la formazione del  proprio paese –  come è stato per Londra o Parigi o Mosca o Madrid –  fu conquistata militarmente (va bene,  con una parodia di azione militare) ed è diventata capitale d’Italia controvoglia. L’ anomalo inizio ha avuto conseguenze negative e visibili su quanto è successo  dopo. Quando gli italiani (i piemontesi) hanno dovuto progettare la capitale di uno Stato ancora inesistente hanno subito cercato di far dimenticare un bel po’ di storia, la storia di quella che era stata capitale di uno Stato più o meno millenario, profondamente radicato, lo Stato della Chiesa.  La Roma papalina, la “seconda Roma”,  doveva essere cancellata per edificare al suo posto una “terza  Roma” fittiziamente e teatralmente  emula  di una  “prima Roma”  inventata  dal visionarismo risorgimentale  e mazziniano - dapprima  repubblicana e libertaria, con a suo idolo il vindice  Bruto ma poi, grazie a Mussolini,  imperiale, bellicosa, augustea – e artificiosamente sovrapposta  ai suoi  venerabili  ruderi: un  mito, il loro, autentico , che aveva ispirato il Rinascimento  ed esaltato Piranesi,  Goethe e  Gibbon.
L’impresa lasciò visibili tracce sul tessuto urbano, ma soprattutto sul quello della sua società.  I “buzzurri” – così vennero sarcasticamente appellati  i piemontesi  dai  Rugantino e dai  Meo Patacca, le maschere popolari  dei  tortuosi vicoli e vicoletti attorno al Pantheon   -  e i “monticiani” o “trasteverini “ (gli abitanti di due famosi quartieri dai dialetti simili ma non identici)  sono convissuti senza  forse capirsi bene,  lo sforzo di costruire una sintesi “nazionale” non ebbe risultati del tutto  felici.  Ernesto Nathan, il sindaco espressione di quei buzzurri fattisi italiani, venne sconfitto dagli eredi  di  una secolare aristocrazia sfibrata dalle bellezze dei suoi palazzi e d’improvviso divenuta -  grazie alla conquista piemontese che fece lievitare aree fino al giorno prima pascolo di pecore o giardini ornati di secolari siepi di bosso  - miracolata percettrice di ingenti  rendite fondiarie.  Comunque sia, le  classi dirigenti politico-amministrative di Roma  capitale non hanno potuto avere le  radici piantate in un comune suolo,  sentito come patrimonio di tutti  e da tutti salvaguardato.  Queste classi dirigenti - comprese le fasciste, non le peggiori - si sono sovrapposte le une alle altre, spesso  nutrendosi  di  desideri  di  rivalsa e  vendetta  nei  confronti di quelle che le avevano precedute.
Checché se ne dica, Roma  capitale d’Italia divenne presto una città moderna.  Ma quando mai è stata “pietrificata” o “museificata”, come oggi si va gridando? Semmai si è visto esattamente il contrario, Roma è stata travolta dalla e nella modernità, a strappi, a salti e sussulti,  senza un minuto di requie, di ripensamento; la  sua urbanistica è stratificata, a sfoglie, come le cipolle. E’ divenuta  moderna  molto più rapidamente , per certi versi,  di Milano, e superando difficoltà che il capoluogo lombardo non ha conosciuto,  con la sua storia di  ininterrotta e lineare continuità, della quale fa parte anche il periodo austroungarico, se non altro per l’efficienza  amministrativa  che lo caratterizzava.  L’epoca  umbertina,  a cavallo tra XIX e XX secolo, fu  per  Roma  ricca di strepitosi  avanzamenti, la città scippò a Firenze il ruolo di motore delle arti.  Il primo dopoguerra  vide nascere  la più bella architettura razionalista del  tempo  - dalle arcate di Angiolo Mazzoni sui fianchi della rinnovata Stazione Termini a quel quartiere dell’E42 che nel secondo dopoguerra  fu modello alla “Defense” parigina -  e fiorire  un decoroso classicismo letterario, matrice della lingua italiana “media” dei nostri giorni. Ma soprattutto, con Mussolini, vide  il tentativo di competere  sul piano economico  con Milano:  l’IRI di Alberto Beneduce fu un modello  imprenditoriale di livello mondiale,  su cui si impiantò, nel secondo dopoguerra -  grazie a figure come  Pasquale Saraceno, Donato Menichella e Rodolfo Morandi  - la Cassa del Mezzogiorno.  Con Mussolini nascono anche strumenti  di cultura, dalla Enciclopedia Italiana (poi Treccani) all’EIAR o  a Cinecittà, sorta come fabbrica di propaganda ma divenuta  fornace per autentici geni, esplosi nel secondo dopoguerra. Il secondo dopoguerra  è stato un periodo contraddittorio: Roma  patì  di un movimento immigratorio  ingovernabile e malgovernato che ne stravolse le fattezze  fisiche ed etiche ma su cui si innestò il primo grande dibattito urbanistico italiano. Tentò anche di avviare  una economia produttiva che la sottraesse al  cliché di città impiegatizia, burocratica:  la “Tiburtina Valley”  imitò, senza riuscirci, la Silicon Valley delle industrie tecnologiche, alla sua periferia si sviluppò un tessuto microimprenditoriale non disprezzabile (esemplare l’affollamento industriale e commerciale della Via Pontina). Infine, per un paio di decenni, la città produsse  valori indiscutibili e incredibili che le fecero scalare i vertici della considerazione mondiale, strappando a Parigi il primato europeo della modernità artistica, in un intenso  dialogo alla pari con New York.  
Non so se Roma abbia mai potuto  (o possa)  competere con Milano come “capitale morale” , certo assolse per lungo tempo  il suo compito di capitale nazionale in modo persino egregio. La sua economia, nata  molto pubblica, dirigista, datata, fu destinata  alla scomparsa  quando venne  infangata e rovinata dall’invadenza partitocratica, ma la partitocrazia fu un male non romano quanto piuttosto  nazionale:  la “Roma ladrona” è un epiteto ingiusto, non meno di ”Mafia Capitale”.  E poi,  siamo franchi, è  proprio vero che Milano quell’attributo se lo meriti? Viene rispolverato dopo il successo dell’Expo, ma l’Expo è stata salvata dal naufragio grazie all’intervento del governo che ha imposto un commissario efficiente e affidabile ad una realtà locale assai discussa:  la Milano “da bere”. ..
Le prossime elezioni  amministrative si presentano  a Roma come una avventura, un risiko pauroso. I protagonisti della corsa al Campidoglio si sono gettati allo sbaraglio per occupare le migliori posizioni di partenza.  In questi giorni fioriscono gli appelli, i progetti, le manifestazioni  dell’uno o dell’altro gruppo concorrente. Sono iniziative ovviamente enfatiche, gridate, i  loro programmi  sono o inadeguati o eccessivi; e lo si capisce, anche se credibilità e serietà  richiederebbero  che fossero piuttosto sfrondati che gonfiati, con le promesse asciugate  al minimo essenziale, se si vuole davvero mantenerle. Forse,  il miglior programma potrebbe essere quello di realizzare una città sul modello di Washington, ridotta, modesta ma efficiente capitale e basta, non  sul modello di Parigi o di Londra, metropoli  ricche e strutturalmente capaci  di  assolvere a funzioni diverse.  Perché: davvero la posta i gioco è il tronco “C” della metropolitana o il cosiddetto “risanamento” delle periferie?   
No, non è questione di infrastrutture o di periferie: lo sviluppo delle metropolitane è stato, a Roma, un problema da sempre. Per completare il primo tratto occorsero lustri: forse per colpa di intrighi e mangerie, forse però anche per reali motivi.  Il tronco “C” è in discussione anche, se non soprattutto, per definire un percorso che, se non è sbagliato, è comunque a rischio: il sottosuolo di Roma è una immensa miniera di possibili tesori archeologici che a Londra, quando cominciarono a scavare per il loro mirabile “tube” (l’Italia era ancora divisa in staterelli), non si sognavano nemmeno.  Le periferie hanno costituito un serio e drammatico problema nell’immediato secondo  dopoguerra,  si trattava  di risanare le “borgate” create frettolosamente sotto Mussolini  per  trasferirvi gli abitanti delle aree spicconate su cui far distendere la Via dell’Impero: quelle “borgate”  sì, erano orripilanti, hanno dato origine, anche nel cinema, ad una epopea che ha trovato forse il suo definitivo trionfo col Pasolini di “Mamma Roma” o di “Ragazzi di vita”. Credo che il loro risanamento  debba molto soprattutto  a Petroselli (soprannominato  “il banana”,  in ragione del suo naso storto, da pugile suonato), che si  mise di puntiglio per “unificare” Roma dal centro alle periferie.  Oggi, le periferie che cingono la città sono equiparabili a quelle di ogni altra metropoli.  Abbisognano di cure , questo sì, ma non sono favelas della disperazione.
Ripercorrendo storia e cronache, si può dire che forse il più grosso problema, o questione, che tormenta Roma è – stranamente -  una certa  carenza  di identità.  Milano riscopre (forse fondandola su presunzioni, più che su evidenze e certezze) la sua “milanesità”; forse è stata una  troppo sbandierata “romanità” a far nascere a Roma,  nel passato ma anche in tempi  recenti, equivoci e disperanti  cadute di tono.  Si pensi  al tentativo messo in atto dal Francesco  Rutelli che individuava in Alberto Sordi il  simbolo giusto per dare un nome a questa  identità:  Alberto Sordi, con il suo dialetto ormai sparito. Petroselli ricucì in gran parte il gap tra periferie e centro, ma gli abitanti dei  vari quartieri non si riconoscono gli uni con gli altri, quasi nessuno di loro è davvero un “romano de Roma”. Forse qui è buona parte delle difficoltà che i partiti - se ce ne sono ancora, degni di questo nome - incontrano nella campagna elettorale. Non si vede una “massa critica” di classe dirigente che si senta partecipe delle vicende (mica della storia, sarebbe chiedere troppo) di una città complessa e forse sempre un po’ inadeguata a se stessa.   E come potrebbe  essere altrimenti?  Anche a Roma – ma non solo a Roma - si invoca il ritorno della “politica”, che  rimetta ordine tra il trambusto di incompetenti, di arrivisti e faccendieri. Ma fino a ieri non si urlava tutto il contrario, e cioè che le responsabilità della attuale rovina erano tutta della classe politica, della “casta”, su cui ormai dovrà prendere il sopravvento la “società civile”, quella che si esprime su blog e social? A Roma, molto più che a Milano, certe  contraddizioni rischiano di non trovare una composizione decente,  se non adeguata. Le prossime elezioni amministrative ci diranno se il problema può essere risolto o se la città – la capitale d’Italia – sarà condannata a lungo ad essere “location” di film folkloristici, molto kitsch.   

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