LA CITTA' PIU' ODIATA D'ITALIA...
(da “Il Foglio”, 1° dicembre 2015)
La Roma che appare nell’ultimo film della saga di 007,
“Spectre”, è notturna, funerea, algida, sfocata e solo lievemente clericale. In questo tetro scenario James Bond può impunemente scorrazzare di notte al volante della sua
Aston Martin DB10 e sedurre la vedova nera, Monica Bellucci, cui lui stesso ha ammazzato il
marito. La Città Eterna è ridotta a cameo, un cameo riepilogativo degli stereotipi che da sempre la volgarizzano. Se, nel film, Londra si riappropria del suo ruolo di
centrale mondiale dello spionismo, del potere politico torbido, da intrigo
internazionale alla Le Carré, Roma appare votata ad una stremata decadenza.
Chissà se l’immagine di Londra è veritiera. A noi, quella
Roma notturna sembra non corrispondere a dati effettivi. E’ solo un cliché. Certamente
non è la Roma di Marino, il sindaco in carica quando
il rombante inseguimento di James
Bond sulle banchine del Tevere venne girato tra l’insofferenza dei cittadini,
disturbati nella loro distratta quiete. La
Roma di Marino è stata in qualche modo - piaccia o no - una
Roma di transizione, sospesa tra ipotesi
e tracollo: l’ipotesi di una rivoluzione tanto volontaristica quanto
dilettantesca e lo sgomento della
scoperta dei miasmi AMA o ATAC, della
corruzione burocratico/malavitosa, dell’abusivismo dilagante e dell’inerzia
politica. Ma la pasticciata Roma di Marino è l’inaspettato e inquietante
epilogo di una storia – anche amministrativa,
oltre che politica e culturale - non del tutto banale o vergognosa. Sindaci come
Petroselli possono meritare l’enfasi di
una intitolazione stradale prestigiosa, l’arteria che cinge il Campidoglio; accanto a Petroselli
altri sindaci, di una parte o dell’altra, sono stati non indecorosi anche
quando non così memorabili.
In questi giorni frenetici, quando a destra come a sinistra si va in cerca
affannosa di un nome appena appena decente da presentare per la scalata al
colle capitolino, la visione del film di James Bond impone qualche pacata riflessione. Stiamo attenti a giostrare con gli stereotipi, c’è il rischio di dimenticare quel che è in ballo,
e non solo nella tornata elettorale
ormai prossima: far uscire la capitale d’Italia dall’impasse amministrativo ma anche dai cliché che la tradiscono. Si tratta di restituire questa città ad una
dignità che sembra perduta. Anche per colpa nostra, di quanti, per una frenesia
di bassa o comunque spicciola politica hanno mediaticamente contribuito a
rafforzare i sentimenti di antipatia, di avversione, di irriconoscenza e di
rancore che il nome di Roma suscita nell’opinione pubblica italiana, non solo
dei leghisti padani. Roma è la città più
odiata d’Italia. Anche respingendo al mittente, con molte ottime ragioni, l’infame “Roma
ladrona” , un po’ di quell’avversione se la merita. Però, per cominciare a capire qualcosa di Roma
sarebbe bene - in partenza - non dimenticare
che è l’unica capitale d’Europa (e forse
del mondo) che invece di guidare e
plasmare la formazione del proprio paese
– come è stato per Londra o Parigi o
Mosca o Madrid – fu conquistata militarmente
(va bene, con una parodia di azione
militare) ed è diventata capitale d’Italia controvoglia. L’ anomalo inizio ha
avuto conseguenze negative e visibili su quanto è successo dopo. Quando gli italiani (i piemontesi) hanno
dovuto progettare la capitale di uno Stato ancora inesistente hanno subito cercato
di far dimenticare un bel po’ di storia, la storia di quella che era stata
capitale di uno Stato più o meno millenario, profondamente radicato, lo Stato
della Chiesa. La Roma papalina, la
“seconda Roma”, doveva essere cancellata
per edificare al suo posto una “terza
Roma” fittiziamente e teatralmente emula di
una “prima Roma” inventata dal visionarismo risorgimentale e mazziniano - dapprima repubblicana e libertaria, con a suo idolo il
vindice Bruto ma poi, grazie a Mussolini,
imperiale, bellicosa, augustea – e artificiosamente
sovrapposta ai suoi venerabili
ruderi: un mito, il loro,
autentico , che aveva ispirato il Rinascimento
ed esaltato Piranesi, Goethe e Gibbon.
L’impresa lasciò
visibili tracce sul tessuto urbano, ma soprattutto sul quello della sua
società. I “buzzurri” – così vennero sarcasticamente
appellati i piemontesi dai Rugantino e dai Meo Patacca, le maschere popolari dei tortuosi
vicoli e vicoletti attorno al Pantheon - e i “monticiani”
o “trasteverini “ (gli abitanti di due famosi quartieri dai dialetti simili ma
non identici) sono convissuti senza forse capirsi bene, lo sforzo di costruire una sintesi “nazionale”
non ebbe risultati del tutto felici. Ernesto Nathan, il sindaco espressione di quei
buzzurri fattisi italiani, venne sconfitto dagli eredi di una
secolare aristocrazia sfibrata dalle bellezze dei suoi palazzi e d’improvviso divenuta
- grazie alla conquista piemontese che
fece lievitare aree fino al giorno prima pascolo di pecore o giardini ornati di
secolari siepi di bosso - miracolata percettrice
di ingenti rendite fondiarie. Comunque sia, le classi dirigenti politico-amministrative di
Roma capitale non hanno potuto avere le radici piantate in un comune suolo, sentito come patrimonio di tutti e da tutti salvaguardato. Queste classi dirigenti - comprese le
fasciste, non le peggiori - si sono sovrapposte le une alle altre, spesso nutrendosi di desideri
di rivalsa e vendetta nei confronti di quelle che le avevano precedute.
Checché se ne dica, Roma capitale d’Italia divenne presto una città
moderna. Ma quando mai è stata
“pietrificata” o “museificata”, come oggi si va gridando? Semmai si è visto
esattamente il contrario, Roma è stata travolta dalla e nella modernità, a
strappi, a salti e sussulti, senza un
minuto di requie, di ripensamento; la sua
urbanistica è stratificata, a sfoglie, come le cipolle. E’ divenuta moderna
molto più rapidamente , per certi versi, di Milano, e superando difficoltà che il
capoluogo lombardo non ha conosciuto, con la sua storia di ininterrotta e lineare continuità, della quale
fa parte anche il periodo austroungarico, se non altro per l’efficienza amministrativa che lo caratterizzava. L’epoca umbertina,
a cavallo tra XIX e XX secolo, fu per Roma
ricca di strepitosi avanzamenti, la città scippò a Firenze il
ruolo di motore delle arti. Il primo
dopoguerra vide nascere la più bella architettura razionalista del tempo -
dalle arcate di Angiolo Mazzoni sui fianchi della rinnovata Stazione Termini a
quel quartiere dell’E42 che nel secondo dopoguerra fu modello alla “Defense” parigina - e fiorire un decoroso classicismo letterario, matrice
della lingua italiana “media” dei nostri giorni. Ma soprattutto, con Mussolini,
vide il tentativo di competere sul piano economico con Milano:
l’IRI di Alberto Beneduce
fu un modello imprenditoriale di livello
mondiale, su cui si impiantò, nel
secondo dopoguerra - grazie a figure
come Pasquale Saraceno, Donato
Menichella e Rodolfo Morandi - la Cassa
del Mezzogiorno. Con Mussolini nascono
anche strumenti di cultura, dalla
Enciclopedia Italiana (poi Treccani) all’EIAR o a Cinecittà, sorta come fabbrica di propaganda
ma divenuta fornace per autentici geni,
esplosi nel secondo dopoguerra. Il secondo dopoguerra è stato un periodo contraddittorio: Roma patì di
un movimento immigratorio ingovernabile
e malgovernato che ne stravolse le fattezze
fisiche ed etiche ma su cui si innestò il primo grande dibattito
urbanistico italiano. Tentò anche di avviare
una economia produttiva che la sottraesse al cliché di città impiegatizia,
burocratica: la “Tiburtina Valley” imitò, senza riuscirci, la Silicon Valley
delle industrie tecnologiche, alla sua periferia si sviluppò un tessuto
microimprenditoriale non disprezzabile (esemplare l’affollamento industriale e
commerciale della Via Pontina). Infine, per un paio di decenni, la città
produsse valori indiscutibili e
incredibili che le fecero scalare i vertici della considerazione mondiale,
strappando a Parigi il primato europeo della modernità artistica, in un
intenso dialogo alla pari con New York.
Non so se Roma abbia mai potuto (o possa) competere con Milano come “capitale morale” ,
certo assolse per lungo tempo il suo
compito di capitale nazionale in modo persino egregio. La sua economia, nata molto pubblica, dirigista, datata, fu
destinata alla scomparsa quando venne
infangata e rovinata dall’invadenza partitocratica, ma la partitocrazia
fu un male non romano quanto piuttosto nazionale: la “Roma ladrona” è un epiteto ingiusto, non
meno di ”Mafia Capitale”. E poi, siamo franchi, è proprio vero che Milano quell’attributo se lo
meriti? Viene rispolverato dopo il successo dell’Expo, ma l’Expo è stata
salvata dal naufragio grazie all’intervento del governo che ha imposto un commissario
efficiente e affidabile ad una realtà locale assai discussa: la Milano “da bere”. ..
Le prossime elezioni amministrative si presentano a Roma come una avventura, un risiko pauroso.
I protagonisti della corsa al Campidoglio si sono gettati allo sbaraglio per
occupare le migliori posizioni di partenza.
In questi giorni fioriscono gli appelli, i progetti, le
manifestazioni dell’uno o dell’altro
gruppo concorrente. Sono iniziative ovviamente enfatiche, gridate, i loro programmi sono o inadeguati o eccessivi; e lo si
capisce, anche se credibilità e serietà
richiederebbero che fossero
piuttosto sfrondati che gonfiati, con le promesse asciugate al minimo essenziale, se si vuole davvero
mantenerle. Forse, il miglior programma
potrebbe essere quello di realizzare una città sul modello di Washington,
ridotta, modesta ma efficiente capitale e basta, non sul modello di Parigi o di Londra, metropoli ricche e strutturalmente capaci di
assolvere a funzioni diverse. Perché:
davvero la posta i gioco è il tronco “C” della metropolitana o il cosiddetto
“risanamento” delle periferie?
No, non è questione di infrastrutture o di periferie: lo
sviluppo delle metropolitane è stato, a Roma, un problema da sempre. Per
completare il primo tratto occorsero lustri: forse per colpa di intrighi e mangerie,
forse però anche per reali motivi. Il
tronco “C” è in discussione anche, se non soprattutto, per definire un percorso
che, se non è sbagliato, è comunque a rischio: il sottosuolo di Roma è una
immensa miniera di possibili tesori archeologici che a Londra, quando
cominciarono a scavare per il loro mirabile “tube” (l’Italia era ancora divisa
in staterelli), non si sognavano nemmeno.
Le periferie hanno costituito un serio e drammatico problema
nell’immediato secondo dopoguerra, si trattava di risanare le “borgate” create
frettolosamente sotto Mussolini per trasferirvi gli abitanti delle aree
spicconate su cui far distendere la Via dell’Impero: quelle “borgate” sì, erano orripilanti, hanno dato origine,
anche nel cinema, ad una epopea che ha trovato forse il suo definitivo trionfo
col Pasolini di “Mamma Roma” o di “Ragazzi di vita”. Credo che il loro
risanamento debba molto soprattutto a Petroselli (soprannominato “il banana”, in ragione del suo naso storto, da pugile
suonato), che si mise di puntiglio per
“unificare” Roma dal centro alle periferie. Oggi, le periferie che cingono la città sono
equiparabili a quelle di ogni altra metropoli. Abbisognano di cure , questo sì, ma non sono
favelas della disperazione.
Ripercorrendo storia e cronache, si può dire che forse il
più grosso problema, o questione, che tormenta Roma è – stranamente - una certa
carenza di identità. Milano riscopre (forse fondandola su
presunzioni, più che su evidenze e certezze) la sua “milanesità”; forse è stata
una troppo sbandierata “romanità” a far
nascere a Roma, nel passato ma anche in
tempi recenti, equivoci e
disperanti cadute di tono. Si pensi
al tentativo messo in atto dal Francesco
Rutelli che individuava in Alberto Sordi il simbolo giusto per dare un nome a questa identità: Alberto Sordi, con il suo dialetto ormai
sparito. Petroselli ricucì in gran parte il gap tra periferie e centro, ma gli
abitanti dei vari quartieri non si
riconoscono gli uni con gli altri, quasi nessuno di loro è davvero un “romano
de Roma”. Forse qui è buona parte delle difficoltà che i partiti - se ce ne
sono ancora, degni di questo nome - incontrano nella campagna elettorale. Non
si vede una “massa critica” di classe dirigente che si senta partecipe delle
vicende (mica della storia, sarebbe chiedere troppo) di una città complessa e
forse sempre un po’ inadeguata a se stessa.
E come potrebbe essere altrimenti? Anche a Roma – ma non solo a Roma - si invoca
il ritorno della “politica”, che rimetta
ordine tra il trambusto di incompetenti, di arrivisti e faccendieri. Ma fino a
ieri non si urlava tutto il contrario, e cioè che le responsabilità della
attuale rovina erano tutta della classe politica, della “casta”, su cui ormai dovrà
prendere il sopravvento la “società civile”, quella che si esprime su blog e
social? A Roma, molto più che a Milano, certe contraddizioni rischiano di non trovare una
composizione decente, se non adeguata.
Le prossime elezioni amministrative ci diranno se il problema può essere risolto
o se la città – la capitale d’Italia – sarà condannata a lungo ad essere
“location” di film folkloristici, molto kitsch.
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