CARDUCCI: COME E’ MODERNO, QUESTO SCONOSCIUTO
“Il Foglio”, 13 febbraio 2016
“Effetto curioso, trovarsi a leggere Carducci
a Parigi. Mi piacerebbe sapere quale sia la stima che i critici e gli scrittori
francesi, gli italianisti di quel paese, hanno del poeta nostro dal timbro più
prossimo al loro Hugo. Forse nemmeno lo conoscono, ne avranno sentito parlare
da letterati italiani che di Carducci
spicconano quotidianamente l’immagine tra insofferenza e ironia: un po’
quanto accaduto anche al poeta francese (André Gide: ‘Hugo,
hélas!’) ma con una differenza, che Hugo resta nella pelle dei transalpini come
Carducci non è più, da tempo, per noi: forse perché loro sono sempre un po’
robespierriani e massoni anticlericali, noi lo siamo stati per un tempo troppo
breve. Le storie e le antologie della poesia novecentesca italiana aprono
(proprio in polemica anticarducciana) col Pascoli, eletto a primo dei moderni.
Carducci resta di là, l’ultimo dell’ottocento.
Io, dopo aver ballato e bevuto per metà della notte a
Piazza della Bastiglia, il 14 luglio, mi ritrovai a declamare quel ‘Ça ira’ che
da ragazzo mi dava i brividi: ‘Lento sui colli di Borgogna splende/e in val di
Marna a le vendemmie il sole;/il riposato suol piccardo attende/l’aratro che lo
inviti a nuova prole.//Ma il falcetto su l’uve iroso scende…’. Partendo per
Parigi, avevo messo in valigia l’antologia curata da Luigi Baldacci per gli
Oscar Mondadori (1983-1998), di dimensione e peso perfetti per una rilettura estiva. Ottima anche per introduzione e apparati - forse il
meglio che si sia scritto sul Carducci poeta
- peccato che scarti il ‘Ça ira’.
C’è invece ‘Piemonte’, uno dei bersagli preferiti dell’ironia anticarducciana. E in effetti ‘Piemonte’
appare una oleografia costruita su temi d’obbligo, un catalogo di luoghi comuni
incastrati uno sull’altro con zeppe
retoriche. Nulla che possa sollevarla nel cielo della lirica pura, ‘moderna’.
Ma in quest’ode tanto irreparabilmente scolastica c’è un ritmo, anzi un suono
(proprio un suono, percepibile nettamente ad una declamazione) con “immagini sonore” grandiose - come dire?, alla
Fattori, alla De Carolis - che sotto i
nostri occhi si muovono e vivono. Tutto un vedere che prelude, buttiamola lì,
al cinematografo. E, in questo, c’è
poesia autentica. Come in Hugo.“
Così iniziava un mio articoletto inviato da Parigi,
in un’estate di alcuni anni fa, a una rivista letteraria italiana cui collaboravo.
Sono righe non così lontane nel tempo, e
il giudizio su Carducci non si sollevava
dal cliché critico corrente all’epoca.
Non so quanto il cliché sia cambiato, da allora, ma forse il criterio di
una mia rilettura è diverso. Mi ci fa riflettere un robusto saggio sul poeta recentemente uscito per le
edizioni Salerno, sempre attente alle
biografie letterarie: “Francesco Benozzo, ‘Carducci’, pagg. 298, 16 euro”. Docente di filologia romanza ma anche musicista e poeta, Benozzo lavora con
passione e acribia, in particolare, nel difendere e ripulire il poeta dagli
“stereotipi critici che hanno appiattito
e museificato, a partire dalle antologie scolastiche, la sua immagine”...”Pre-digerito
e ri-presentato come poeta-professore monolitico e dal profilo riconoscibile e
tranquillizzante, egli fu invece - avverte Benozzo - personaggio irregolare,
caratterizzato da sfaccettature
molteplici, lacerato da contraddizioni e incoerenze” e, pur nella inderogabile fedeltà
ai suoi ideali profondi, “ tormentato da continui conflitti con se stesso” (...e
saranno le “eterne risse” che il poeta evoca in “Davanti a San Guido”...) . Benozzo
rivendica al Carducci - giustamente - il
ruolo di intellettuale di alto profilo per i vasti, profondi e - nonostante la
stroncatura crociana - originali studi letterari e filologici che il professore
di Via Zamboni 33 - l’Ateneo bolognese -
coltivò assiduamente. Mi pare però di poter dire che al centro della sua
attenzione non vi sia la questione
critica che a me pare essenziale, la domanda circa il significato della poesia
di Carducci nell’attuale panorama culturale e anche strettamente poetico.
La critica carducciana è, anche quando positiva,
sempre carica di riserve, di cautele, di distinguo, di sottili antipatie. Forse è per questo che
Benozzo se ne tiene un po’ alla larga (ne riporta pochissime citazioni). In piena indipendenza e
scioltezza di giudizio, dunque , Benozzo può sbilanciarsi fino ad attribuire
alla produzione carducciana un carattere
di modernità e vitalità quando, a complemento del “tormentato” (o anche de
l’”inattuale”, su cui Benozzo insiste) ,
inserisce la definizione di “sperimentale”. La ritroverò nella introduzione di
Baldacci alla sua antologia. Sperimentale, Carducci? Ma non era, secondo una
famosa definizione di Croce, il “poeta della storia”, e dunque già lui un po’ responsabile
della sua postuma imbalsamazione dentro ad uno stabile, immutabile cliché?
E’ sferzante, Benozzo, quando parla di questo cliché
pedantesco e ufficiale, appiccicato all’aulico professore universitario con una “operazione di addomesticamento” mirante a proporne, tra istituzioni
scolastiche e scelte antologiche
“parziali e tendenziose”, una immagine
“ecumenica e conciliatrice”. Una
“deplorevole azione di chirurgia plastica” , di cui anch’io provai i soporiferi
effetti: il Carducci che più mi è sottopelle
è il Carducci imparato a memoria per
obblighi scolastici, anno dopo anno. Credo che fosse lui, allora, il poeta più
letto nelle scuole, assieme al Pascoli della “Cavallina storna” o al Leopardi
del “Sabato del villaggio”. Dei tre
stereotipi, nessuno ha retto al vaglio del tempo. Chi dei tre ha più guadagnato nel
riposizionamento critico è però,
curiosamente, Pascoli: al di là della cavallina storna delle antologie
scolastiche, Pascoli è indicato come la porta, o la sottile fessura attraverso
la quale passano la modernità linguistica e la cultura del decadentismo,
proprio in contrapposizione con la cultura e la poesia di Carducci, attardato
postromantico.
Lo spartiacque tra i
due poeti è tuttora, pur limato da revisioni
e puntualizzazioni, un punto fermo della
critica letteraria. Di fronte all’esibita
(quanto - ora lo sappiamo - supposta) salute e sanità dell’imbalsamato Carducci ecco la altrettanto esibita malattia del Pascoli, di quel suo fanciullino che si
ritira dal mondo, si chiude tra le
dilette, piccole myricae, evocate con una sottile voce vibrante di singhiozzi e
suoni arcani: il poeta romagnolo non è sano, è malato, malato di una malattia -
la décadence - penetrata profondamente
anche nel novecento letterario (e oltre). La “modernità” di Pascoli è in
questa sua - alla francese - “morbidité”,
la morbosità che portò Croce a non
amare la poetica del fanciullino,
certamente non freudiano né hillmaniano ma regressivo, “che dà ragione - osservava Contini - della “discesa
della percezione sotto la soglia della coscienza comune” e di un
“plurilinguismo che può includere anche l’onomatopea e in genere il linguaggio
inarticolato”: fenomeni propri - osservo io - di una situazione esistenziale
anche “borderline”, al limite dell’afasia neuropsichiatrica. Ne sarebbe presto seguito, in una
consequenzialità strenuamente teorizzata, l’abbandono della metrica tradizionale,
bollata come convenzione coatta che ostacola una sincerità inseguita e
perseguita fino all’estremo dell’automatismo
surrealista. Tutto bene, ma restando ancora provincialmente lontani, ahimè,
dalla sarcastica spinta del Queneau che
teorizzava “de prosodie impaire et de
vers-librisme ...” (“Le
vol d’Icare”, 1968).
L’adesione alle categorie estetiche e culturali della poetica postpascoliana (postmallarmeana,
post-surrealista) elevate a canoni universali ed eterni, metastorici, fa sì che
la poesia italiana contemporanea si sia piuttosto chiusa su se stessa; schemi
estrinseci, sovrapposti per sola pulsione ideologica, le vietano il contatto con il corpo delle cose, con la realtà, l’evento
più o meno storico o cronachistico.
Tradendo, senza rendersene conto, le
ragioni stesse su cui dice di fondarsi e di volersi giustificare, si
riduce per lo più ad uno scivolare vischioso sulla superficie, a un farfugliare
sull’immediato che teme e rifugge l’avventura, l’esplorazione
del mondo ma anche del sé: tra quelle righe l’inconscio non corre nessun
rischio, siamo lontani anche dal fanciullino pascoliano - che
un po’ nevrotico lo era davvero - e figuriamoci da Rimbaud, il Rimbaud-pellicano
che si lacera il petto per nutrire i suoi figli (i versi, in questo caso): “Il
s'agit d'arriver à l'inconnu par le dérèglement de tous les sens. Les
souffrances sont énormes, mais il faut être fort, être né poète, et je me suis
reconnu poète”. Il concetto crociano - bellamente rifiutato in sede teorica!... - della
poesia come lirica pura viene qui diligentemente
applicato come formula, forse come alibi per
nascondere una inerzia intellettuale. Contratta, intimidita, socializzata e casalinga, la
poesia contemporanea italiana diventa
ripetitiva, monocorde e monotona. Obbligatoriamente prosastica, scarsa
di immagini, di sonorità, di una qualunque evidenza. Plumbea, a volte anche lutulenta. Addirittura compiacendosene, si perde nel gratuito (il fanciullino è un
Peter Pan che sfugge alle responsabilità, no?). Dopo aver sperimentato e
adottato un bel po’ di canoni estetici della più diversa origine, non ha ancora
un suo “status” riconoscibile. Non lo vuole, ne ha paura.
Da questa situazione di
indeguatezza (e inutilità?) viene recuperato - ma resta sotto esame - Dino
Campana, si salva Amelia Rosselli -
baccante sfrenata nella cui psiche ferita l’automatismo verbale è conseguenza di una profonda sensibilità per i conflitti,
di una sofferta, reale dissociazione - o il Penna dall’erotismo compulsivo e fuorilegge,
mentre gli “sperimentali” (“neosperimentali”?) Sanguineti, Zanzotto (o il carissimo e amatissimo Adriano Spatola,
che dello sperimentalismo fece ragione di vita) sono pur sempre epigoni di Pascoli, anche se imprigionano
il suo fanciullino in una rigorosa ed
intellettualistica afasia schizofrenica, scoperta e compiaciuta, da primi della
classe. Tutti costoro, comunque, si ritrarrebbero schifati se qualcuno facesse
loro il nome di Carducci, mentre di sicuro parecchi hanno scritto il loro bel
saggetto sul Pascoli, efficacissimo per l’ingresso al club dei poeti ammessi. L’unico che tenti la presa diretta sulle “cose”, rifacendosi peraltro - al di là
degli omaggi formali che gli vengono porti da ogni parte - al magistero dantesco,
è Pasolini: e infatti, se non altro per la “retorica”, a Carducci si avvicina,
a volte.
L’osservazione vale per
la poesia italiana che dipende - anche se inadeguatamente - dal magistero
francese di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé e, forse, Valery, filtrati - appunto
- attraverso il fanciullino pascoliano e, poco dopo, attraverso l’accademia
dell’ermetismo. Per fortuna, queste categorie non hanno valore universale: la poesia anglosassone, inglese come
americana, ha conservato il gusto per la “narrazione” piena, per la corposità
del reale e dell’evento, anche con Eliot
(figlio non di Baudelaire ma di
Laforgue) e con i più recenti Seamus
Heaney o Tony Harrison in Inghilterra, con Pound, Robert Lowell, ma anche i “beat” - tra Ginsberg e Gary Snyder - o il recente Frank O’Hara in America (per quel
tanto che ne conosco, almeno). Qui basti
ricordare specificamente Harrison, con il suo realismo, il suo gusto per
la satira, l‘osceno, il concreto insomma, in un “impasto - vedi la prefazione a
una antologia einaudiana (“V, ed altre
poesie”, a cura di Massimo Bacigalupo, 1996) - di
violenza, sentimento, critica sociale, rappresentazione teatrale” di cui non
trovo riscontro in Italia se non,
ancora, in Pasolini. Anche la poesia anglosassone ha il suo antidoto al
gursto troppo narrativo: ma non è Baudelaire o Mallarmé, è Emily Dickinson.
La nostra poesia di
oggi, anche nelle sue formulazioni teoriche, è poesia di soggetto - di un riluttante soggetto che non affronta il
gran tema della soggettività - non di
oggetto. L’oggetto, se vi appare, è sotto forma di narrazione prosastica, su moduli ripetitivi e, soprattutto, anodini,
non caratterizzati. Questa poesia respinge la caratterizzazione, non conosce
l’oggettivazione, nemmeno nella formula eliotiana del “correlativo oggettivo”
che nomina, o evoca, una cosa la cui presenza stimoli la nascita di una
emozione: per Eliot, cogliere i correlativi oggettivi di un'emozione è l'unica via per renderla letterariamente.
La poesia contemporanea italiana invece resta volutamente immersa nella più
umbratile emozione. C’è, sotto questa forma, una formula teorica, per la quale
la poesia ha come sua funzione e modalità quella, appunto, di cogliere l’emozione nella sua estrema purezza,
nel suo primo spontaneo nascere. In questa teorizzazione si intrecciano un
certo gusto del “primitivo”, una pedissequa ripetizione di una lontana illuminazione
surrealista, la convinzione che l’arte sorgiva del bambino – del fanciullino - sia l’arte più vera e sincera. Forse, mentre
ci si aspettava di essersene liberati per sempre, siamo di nuovo in una “retorica”.
Si ripete qui un po’ la
situazione, il contesto che il giovane Carducci si trovò ad affrontare e cui si
ribellò, di uno sfatto sentimentalismo romanticheggiante, estenuato e senza
forma. Carducci reagì aggrappandosi ad un classicismo formale e letterario,.
Quel classicismo pedantesco, libresco e fumido di lucerna finì però,
straordinariamente, con l’incontrare e interpretare un aspetto specifico ed
importante del decadentismo europeo, quella sua ricchezza di stilismi e stilemi
linguistici che la critica ha bollato (o esaltato, secondo il punto di vista)
come “artificio” o, come osserva Walter
Binni nella “nota” premessa alla antologia del Baldacci, “compiacimento
tecnico-stilistico”, oppure anche, nel suo famoso saggio sulla poetica del
decadentismo, materiale “eloquente” più che “poetico”. Con tutta la cautela
possibile, io il classicismo carducciano lo metterei in parallelo con quello
che ci rievoca un certo Flaubert, forma specifica dell’ “esotismo”; o, con
maggiore pregnanza , con quello che sostanzia la pittura di un non
disprezzabile (e oggi “recuperatissimo”) Alma Tadema (1836-1912) il pittore al
quale, e alla cui scuola, venne dedicata nel 2007, al Museo Archeologico Nazionale
di Napoli, una grande mostra intitolata appunto “Nostalgia dell’Antico”: anche
qui, dell’”antico” inteso come “esotismo”. Il clima del tempo era quello, diffuso e
nutrito di certezze progressiste (classicismo contro spiritualismo
cristiano...), perché Carducci avrebbe dovuto sottrarsene? E quel clima non
viene oggi considerato un binario non secondario della modernità , parallelo a
quello messo in atto dall’impressionismo
francese? Certamente, Carducci guardava più alla Germania che alla Francia,
frequentava Heine e Platen più di Baudelaire (e, nel caso, più Hugo che
Baudelaire), secondo una deriva intellettuale usuale ai suoi tempi. E’
possibile anche che il poeta maremmano non
fosse adeguatamente consapevole del significato teorico di questo suo
classicismo decadente ma, almeno a mia conoscenza, credo che solo Huysmans, Baudelaire
o Maeterlinck avessero chiara
consapevolezza critica del proprio operare. Mi pare si possa dire che la
coscienza (o autocoscienza) della decadenza, del “decadentismo”, si presenti inizialmente
in forme frammentarie e disorganiche in questo o quell’artista. Come dire che,
alla fin fine, Carducci poté essere un precursore, e proprio per questo non
consapevole pienamente della direzione dei suoi passi. La tesi è plausibile anche se respinta dal
Binni, per il quale Carducci non fuoriesce mai dall’estetica (e dall’etica) romantica.
.
Poeta molto “formale”
dunque, Carducci, sul piano della lingua
e degli stilemi ma, per una delle contraddizioni che formano la sua
personalità, anche poeta della cosa, della realtà. In primo luogo, la realtà “storica”, inseguita ed esplorata appassionatamente.
La storia è (qui Croce ha ragione) il suo habitat, la location preferita: la storia antica, la medioevale, la
contemporanea. Ma senza il filone storicista che corre dal Foscolo (“Italiani,
vi esorrto alle storie!”) al Manzoni
filologo del seicento, al Settembrini e al De Sanctis, il Risorgimento non
sarebbe stato. L’Italia nasce e prende corpo e volto sulle sue icone storiche.
Perché stupirsi? Tanta della lirica storico-patriottica del Carducci si muove
nella stessa direzione della pittura storica del suo tempo, se non come il ben
più drammatico Fattori almeno come i Pietro Aldi o Amos Cassioli degli
affreschi a Palazzo Pubblico di Siena. E, in fondo, anche Delacroix dipinge
allegorie, fantasie storiche, epos del suo tempo (“La libertà guida il popolo”,
1831).
Il discorso può allargarsi,
in Carducci oltre la storia c’è la geografia, il paesaggio del presente.
Potremmo farlo discorrendo della questione di una pittura italiana e del suo
rapporto con il processo unitario. A
Firenze, nel 1861, la prima Esposizione Nazionale Italiana avrebbe dovuto apporre un sigillo iconico al progetto
politico-culturale dell’Italia unificata ma, per quanto riguarda la pittura, fu
un insuccesso perché, a seconda delle regioni, vennero messi in mostra “ora il
formalismo di matrice accademica, ora le novità della corrente realista, ora i
generi apprezzati dalla borghesia”. Siamo di fronte ad una ricerca variata quanto sincera. Invece, per la
critica moderna del primo Novecento i nostri artisti ottocenteschi non erano
riusciti ad allinearsi alle innovazioni francesi; ovviamente, in primo luogo, all’impressionismo. Nel 1937 Roberto Longhi,
stabilendo un “bilancio fallimentare dell’Ottocento nostrano”, augura
metaforicamente la buona notte “al signor Fattori”. Non sembra di sentire
qualche critico letterario mentre parla di Carducci, poeta sì, ma con riserva? Anche in questo settore si ripete insomma (a scapito innanzitutto del Carducci) lo
schema della stroncatura novecentesca, condita di disprezzo e ironia. Se si
guardasse con un po’ più di attenzione ci si accorgerebbe invece che pittura e
poesia (carducciana, si intende) marciavano in parallelo, consapevolmente, per
darci il volto reale, vero, del
paesaggio e dell’umanità italiana del tempo, nella sua complessità e varietà.
La “Raccolta del fieno in maremma” di Fattori (1867) è la splendida traduzione
visiva del “pio bove” ma anche ci suggerisce lo sfondo dei cipressi di Bolgheri;
così come un Segantini ci porta dinanzi agli occhi il “Mezzogiorno alpino”
(“Nel gran cerchio de l’alpi...”, con quel che segue), e un nebbioso De Nittis
londinese ci rende perfettamente l’atmosfera di “Alla stazione, in una mattina
d’autunno”. E non dovrebbe essere neppure difficile scoprire tra i versi di Carducci un
tocco (impressionista) di immagini affocate come un Turner.
Con l’epopea risorgimentale
l’Italia si unifica ma subito si divide in segmenti - segmenti geoculturali
- ciascuno alla ricerca di se stesso, della sua specifica rappresentatività”:
in ritardo sociologico rispetto alla borghesia parigina, a Milano la Scapigliatura
cerca comunque di aprire un discorso
sulla modernità all’europea; a
Castigliocello, ospiti dell’assolato casale
di Martelli, i macchiaioli rinnovano,
sottoponendolo a una lucida critica “politica”, il portato del Quattrocento
toscano; a Napoli fiorisce una cultura che rielabora il classico pompeianesco e,
con Gemito, lo declina verso Rodin,
mentre un folklore di consumo si solleva
a kitsch mitteleuropeo con Fortuny o Michetti. Esplode il “caso” Sicilia, che alla fine si accamperà,
con i suoi miti ctoni (la
“sicilitudine”), quasi al centro della vicenda letteraria e culturale italiana,
mentre l’isolata Trieste mette potentemente
a frutto le sue radici austroungariche
ed ebree volgendole decisamente verso
l’Italia se non addirittura verso Firenze.
Infine, un Liberty non del tutto liberato dalla tradizione italica non può
ignorare il peso della arretratezza sociologica di un paese rurale - con solo punte di efficace innovazione
(Expo Torino 1912) - e si intreccia a un verismo declinato verso il
regionalismo e il naturalismo.
In questo complesso mosaico delle cento Italie,
Carducci parte dal classicismo toscano per
immedesimarsi con la avventurosa mitopoiesi risorgimentale o postirisorgimentale.
Ma finisce anche per approdare con accenti solitari nel cuore di una Europa che
comincia a sentire la crisi della tradizione e dei suoi valori, e con
i suoi metallici versi barbari si muove ad incontrare quasi un Mallarmé. Seppur stremato, svela anche la sua anima tardoromantica, se
non proprio decadente: “Alla stazione, in una mattina d’autunno” ci propone, come uscendo da un fumido
dipinto londinese di De Nittis, il tema
della donna, l’amante, che se ne va, salendo sulla “vaporiera” (è un Carducci un
po’ “preraffaellita”, restio alla terminologia dell’uso), il simbolo della
modernità che irrompe. Benozzo allinea paralleli con altri scrittori e poeti
che trattano del tema del treno con tutta la sua simbologia. Non ricorda però un brano letterario peraltro
famoso, che si muove sui due temi della poesia carducciana: parlo di quella
Anna Karenina che si suicida buttandosi sotto un treno, sorella più drammatica
della dama che, nella poesia carducciana, si limita a scomparire , con la “bianca faccia” e il “bel velo”,
“nella tenebra” di un lacerante addio. Carducci è partecipe di questo
drammatico e sconvolgente processo culturale, e lo rispecchia nei suoi versi.
La “modernità” , che a Parigi poté apparire come il naturale portato di una evoluzione
sociologica preparata e sviluppata in tempi lunghissimi e dunque sentita come
inevitabile, era in Italia un concetto lontano, un miraggio dai contorni
confusi, che occorreva definire “in progress”: dunque, a fatica.
Nell’elaborare una possibile risposta ai quesiti
posti dal suo tempo, Carducci arrivò anche a penetrare in un altro risvolto,
più difficile e non sempre affiorante alle coscienze, il risvolto della crisi
del linguaggio che si avverte nella poetica europea del secondo ottocento, una poetica
della dissonanza: è la poetica di D.G. Rossetti (“...watered with the wasteful
warmth of tears...”) come di G.M. Hopkins, per quel che ne conosco. O, poco
dopo, di un Mallarmé , come anche, certamente, di Pascoli. Così, alla fine, Pascoli
e Carducci sono, in Italia le due soluzioni possibili di un attualissimo problema
linguistico e musicale. Nei loro due
differenti esiti - le Myricae come le Odi Barbare - rispondono agli
interrogativi della modernità incalzante . Sarei quindi un po’ diffidente della
usuale risposta che viene data alla questione del rapporto dei due poeti col
loro tempo: Carducci l’ultimo dell’ottocento, Pascoli l’innovatore, colui che
apre le porte della modernità.
Ma, alla fine, potremmo anche accettare la
definizione di Carducci come l’ultimo poeta dell’Ottocento. Perché no? L’Ottocento
è stato, per l’Italia, un gran secolo, un secolo di sperimentazioni e
rivoluzioni culturali e politiche, con scontri di altissimo livello tra classi
dirigenti contrapposte o non compiutamente convergenti, intorno a progetti e
verso obiettivi ignoti, difficili, inaspettati e mai prima incontrati, che si
venivano determinando, chiarendo e affinando, dinanzi ai loro occhi e alle loro
menti solo un secondo prima della loro
realizzazione. “Abile ad inserirsi sulle principali tendenze culturali
nell’arco di vari decenni” (Guido Capovilla, in”Storia della Letteratura
Italiana”, Vol. VIII, 2005), Carducci coglie
la tumultuosa complessità del secolo e tenta di restituirsene - a se stesso,
innanzitutto - il senso, o un senso. Fu una impresa, data la materia, ardua, ma avvincente,
degna di un intellettuale “tormentato” e “inattuale” ma anche, a pieno titolo, poeta “sperimentale”. Benozzo titola l’ultimo capitolo del suo
saggio: “Leggere Carducci al di là del carduccianesimo”. Penso che l’importante
massa di documenti sciorinati e i tesi ragionamenti che li accompagnano e
spiegano sarebbero meglio collocati sotto un titolo un po’ diverso: “Leggere
finalmente Carducci, al di là dell’anticarduccianesimo”.
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n Italia, con il tema peculiare del formarsi
dell’unità politica della nazione piuttosto che con quello dello sviluppo
capitalistico e quindi del rapporto con il denaro, della sua liceità; gli è
ostico anche il tema del sesso. Nello
sviluppo della cultura e dell’etica l’epos nazionale dà frutti di tutto
riguardo, anche con i suoi risvolti di enfasi patriottica.
Una “lettur” carducciana in parallelo con la pittura
a lui coeva daà modo di fare altre interessanti osservazioni. L’ottocento è un
Possiamo ora
tranquillamente tornare al Carducci. E mettere sotto la lente critica
una poesia, tutto sommato, molto bella.
. E’ vero
peraltro che - a ricordarci la
poligenesi di certi vasti fenomeni culturali -
pur senza diretti appigli con
l’esperienza continentale anche la poesia anglosassone ha i suoi archetipi di ricerca
dell’espressione pre-logica, “automatica”: parliamo, per dire, di un D.G. Rossetti
o di G.M. Hopkins in Inghilterra, di Emily Dickinson in America: “Dì tutta la
verità ma dilla obliqua/Il successo sta in un circuito/Troppo brillante per la
nostra malferma delizia/ La superba sorpresa della verità/Come un fulmine ai
bambini chiarito/ Con tenere spiegazioni/La verità deve abbagliare
gradualmente/O tutti sarebbero ciechi”.
Che “toccava” la cosa, il reale. Qui
Baldacci.............................. Venendo dalla maremma toscana, non potè
drogarsi coni tossici della
scapigliatura milanese, che veniva ruminando sullo stesso tormentone. La
scapigliatura si aggrappò ad un Baudelaire manieristico e senza spirito,
superficiale; Carducci si rifece ai suoi amati classici; ikn qualche modo,
tutti e due binari conducevano verso questa o quella forma di “sperimentalismo”
formale, e dunque i pare azzeccata la
definizione che Baldacci dà del poeta marremmano, di essere uno
“sperimentatore”.
“Piemonte” richiama
la piuttra murale di storia del Palazzo Comunale di Siena. Non ha il tempo
o forse la coscienza da dedicare al conflitto interiore che invece assilla il
borghese-capitalista d’oltralpe. Oppure al sesso. Occorre rendersi conto che il
Risorgimento non è stato un episodio “casuale”, un evento scorrevole, un
portato - come si dice - della storia, ecc. Il Risorgimento è stato un mutamento
epocale della storia europea, perché
veniva a sconvolgere una situazione geopolitica millenaria, che vedeva il
papato, la chiesa, Roma, come centro simbolico degli equilibri dlela penisola;
e, d’altra parte, veniva richiedendo uno sforzo intellettuale ed etico enorme
per trasformare un ideale letterario e retorico - l’Italia del Petrarca o di Leopardi - in un
evento politico gestito da una classe politica, tra l’altro, ovviamente, incerta
e divisa tra le soluzioni prefigurate e possibili – Federazione? Repubblica?
Monarchia? Etc. - ma determinata a portare a compimento comunque il progetto
così intravisto.
16381Sonioo le milla italie infase di unificazione
che lo affascinano. E’ oggio, la pittura storia lo circnda e lo sollecita. Si
prenda “”Faida di Comune”, poesia tanto celebre e ammirata quanto assolutamente
lontana dall’idea stessa di poesia che pratichiamo e soprattutto, teorizziamo
in questi giorni: nessun poeta o verseggiatore (almeno, italiano) contemporaneo
la prenderebbe mai come modello, e forse abbia il coraggio, persino, di
confessare di averla lettam, se non proprio riletta.
Cui si oppone una classicità esibite e forzata quasi
a nascondere... intime e virili commozioni. E’ pur vero che un altro decadente
raffinato, Dannunzio, era un erede di carducci, e forse questo potrebbe indurci
a cercare anche in Enotrio Romano,qualche venatura decadete. Che c’è, e c’è nel
molùmento in cui Carducci plana nelal modernità. Alla stazione.... è un
bell’esempio di abbandono alla décadenze alla baudelaire.
L’”Inno a Satana” è un omaggio, di alta qualità, ad
una moda culturale piuttosto diffusa. In Italia, gli scapigliati sono imbevuti
di satanismo, con l’Emilio Praga
di“Penombre”, e l’Arrigo Boito di
“Dualismo”, e poi I.Ugo Tarchetti, ecc. Ma anche fuori d’Italia possimo
cogliere esempi di satanismo in, E.T. a. Hoffmann, come in E.A. Poe. Però
l’esemio più clamoroso di questo gusto particolare è in Baudelaire, con le sue
“Litanies de Satan”, con lo sberleffo irriveretnte dalla contaminaziona tra gli
onori a Satana e la forma della litania delle orazioni. Però val la oena notare
che Carducci in questa sua opera riprende forse anche un modello molto
italiano, più calato sul versante politico che in quello religioso, quello del
Giusti e della sua rima stretta, serrata...
Rileggendo il giorno dopo quei versi, mentre un
caldo sole splendeva sulla colonna sbastigliata, mi accorsi di ammirarli,
sonanti e scultorei come sono. Aderiscono perfettamente alla poetica del loro
tempo, Carducci proprio questo cercò, raccogliere e legare assieme ciò che la
vulgata politica diceva e voleva si dicesse dell’epopea sabauda, collocata nel
cuore dell’ideologia nazionalpopolare nascente. In questa retorica, Carducci è
al passo con l’Europa, dove è in corso lo scontro tra nazioni che si
rafforzano, ma poiché patiscono ancora le resistenze dei vecchi ceti, del clericalismo, ecc.,
hanno bisogno di una innologia laica che sostituisca l’altra, la religiosa e avversaria. Come Hugo, e con
lui Carducci parla al più vasto pubblico possibile, pubblico da cultura popolare,
da educare e guidare sulla via del Progresso. Per far ciò, i due utilizzano
l’oleografia di un banale enciclopedismo popolare, da manualetti Sonzogno (se
ne trovano ancora, all’usato). Il loro sentire la storia è diverso dall’alto
intendimento, morale e religioso, con cui il Manzoni attraversava il passato e
lo interpretava. Carducci non interpreta la storia; la rievoca e la raffigura,
la dipinge e la trasfigura; i personaggi delle sue ballate non sono portatori
di ardue, dialettiche problematiche, sono Prosopopee che si ergono dinanzi ai
nostri occhi. Il vecchio Teodorico potrebbe essere uscito da uno smalto
longobardo di qualche antica abbazia; Dumouriez o la marchesa di Lamballe
giocano, muti e gridanti, l’episodio che li ha fatti eroi eponimi, la gesta che
li ha celebrati sulla bocca del popolo. Manzoni parla del popolo; Carducci
parla al popolo, come Hugo.
Carducci partecipa pienamente, con le sue
sperimentazioni linguistiche e metriche, alla crisi del linguaggio
riscontrabile in varie forme nei linguaggi culturali europei ma anche
anglosassoni, da Hopkins a... Rossetti, ecc...
Per provare a rispondere – sempre seguendo Croce
- alla domanda se quella di Carducci sia
poesia o non poesia dovremo utilizzare
quella semplicistica definizione, che poi Croce stesso abbandnò, o non piuttosto proveremo a scoprire il lato sperimentale e cioè, per definizione, mderno,
contemporaneo, della sua opera?
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