ATTUALITA ‘ RADICALE
(da "L'Opinione delle Libertà", 7 aprile 2016)
L’articolo di Domenico Letizia apparso su “L’Opinione” il 5
aprile mette perfettamente a fuoco lo stato dei temi che si dibattono
all’interno della galassia radicale, nel suo soggetto principale - il Partito
Radicale Nonviolento Transnazionale Trasnpartito – e in quei Radicali Italiani
che sempre più vengono accentuando una loro autonomia deliberativa e di
iniziativa, nella persuasione di poter affrontare (e risolvere) i complessi
problemi della crisi globale delle democrazie muovendo dall’interno delle
istituzioni nazionali, a partire dalle Amministrazioni di alcune realtà locali,
nelle quali hanno presentato liste per le prossime amministrative. Anche se non
ne condivide idee e obiettivi, Letizia
augura a questi compagni ogni possibile successo, avvertendo peraltro che nello
Statuto e nella prassi radicale “ognuno può fare ciò che vuole”, perché “ognuno
liberamente sceglie la visione politica da concepire e concretizzare”.
E’ vero che nel gergo interno dei radicali, nella
conversazione informale, ecc., espressioni come queste o assai simili vengono
largamente usate. Ma dal punto di vista del rigore formale e statutario non è
esattamente così: mi consenta l’amico Letizia questa puntualizzazione, che io
posso fare solo perché nutrito dell’esperienza di un vissuto di quello statuto
– al quale ho anche messo abbondantemente mano - durata oltre mezzo secolo, durante il quale ho
dedicato parecchio tempo per interpretarne l’esatto significato e la
straordinaria profondità ideale e politica.
Lo statuto radicale non dice che “ognuno può fare ciò che
vuole”, ecc. Dice ben altro: dice che il radicale è tale in quanto, dopo aver
pagato la sua tessera (annuale) è tenuto a seguire, sul piano politico, le
indicazioni, il programma o progetto votato con la mozione approvata a maggioraza
qualificata al congresso d’inizio d’anno. Per tutto il resto, di ciò che
l’iscritto radicale pensa o vuole o progetta, lo statuto semplicemente si disinteressa.
E’ stato in molte occasioni chiarito e ribadito che il partito in quanto tale
non è per nulla interessato se un suo iscritto è marxiano, liberale, cattolico,
ateo, buddista o quant’altro. Basta che - socialista, marxiano, liberale, cattolico, miscredente
o buddista qual’è - collabori a promuovere il dettato della mozione votata congressualmente.
Questa formulazione/teorizzazione era, quando nacque, profondamente
rivoluzionaria, perché tutti i partiti chiedevano allora all’iscritto una
adesione completa e organica alla visione complessiva della politica, e perfino
della morale, dettata dalla storia, dai documenti (e dalla interpretazione del
gruppo dirigente) del partito stesso. Non a caso la nostra polemica era,
all’epoca, contro i “partiti-chiesa”, a cominciare dal laico (anzi laicista)
PCI. La formulazione statutaria radicale
già prefigurava e metteva in atto quella indicazione che esplicitamente venne
data pochi anni dopo con la splendida invenzione della “doppia tessera”. La
richiesta, l’offerta anzi, della”doppia tessera” andava esattamente nella
direzione della precedente formula statutaria: a noi non importa chi sei, da
dove vieni e quali sono le tue convinzioni, ecc., a noi interessa che,
nell’arco politico tra due congressi tu faccia proprio e promuova il nostro
programma. Era un arricchimento profondo della concezione della democrazia, era
l’avvio del discorso sul grande tema della nascita del partito di “opinione”,
non legato a formule ideologiche ma alla prassi quotidiana del ben programmare,
del ben progettare, del ben governare.
Coerentemente, nelle intenzioni (e nella prassi) di quei
radicali, la mozione congressuale conteneva solo una o due disposizioni, una o
due indicazioni politiche di tipo esecutivo. Quel che si voleva era appunto far
sì che ciascun iscritto e militante fosse “tenuto” a seguire uno o due progetti
o iniziative, restando poi libero poi di pensare, essere e fare quel che lui
volesse, senza che il partito radicale avesse modo o interesse ad interferire nelle
sue scelte.
Era, come sempre nella storia radicale, una “invenzione” di
profonda, non superficiale o opportunistica, caratura teorica. Nel tempo, questa
consapevolezza si è però diluita, fino a scomparire quasi completamente negli ultimi
anni. La percezione precisa dalla deriva incombente la ebbi all’epoca della
segreteria Capezzone. Le mozioni congressuali che Capezzone imponeva al partito
erano esattamente l’opposto di quelle che lo statuto e la prassi avevano fino a
quel momento promosso (io ne so qualcosa, perché alcune ne scrissi proprio io):
eranoun coacervo di varie, comunque eterogenee proposte. Capezzone raccoglieva
ogni tema emerso dal dibattito congressuale e lo cuciva in una filza
scompaginata, nella quale ogni tema, punto, o proposta equivaleva ogni altra.
L’intento di Capezzone era evidente: raccogliere l’adesione del maggior numero
di congressisti per arrivare al voto finale col massimo dei consensi. Così
veniva vanificata la stessa essenza del congresso “annuale”. Il congresso fu
stabilito come annuale proprio perché si voleva, dal magma o comunque dalla
diversità delle idee, delle pulsioni o iniziative degli iscritti – tutte, dal
punto di vista statutario, lecite e corrette - trascegliere quella o le due su
cui fare convergere, comunque, gli sforzi e l’attenzione del “corpo” radicale.
Siamo nella concezione pragmatica, “crociana” del fare potica: crociana perché
attenta alla dialettica dei distinti. Distinguere, scegliere, semplificare,
focalizzare l’attenzione e la prassi: qualcosa di estraneo, fino a quel momento
(ma ancor oggi, purtroppo) alla politica italiana, così fortemente
ideologizzata.
Non c’è chi non veda quanto sia moderna e attuale l’
indicazione statutaria radicale, nel momento in cui si discute di come fare
emergere in modo centripeto – tipo rassemblement -dal caos della protesta, un
“soggetto” politico adeguato, per compattezza e per semplicità di programma, a
portare ordine e chiarezza nel mondo globalizzato e disintegrato di oggi.
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