lunedì 28 marzo 2016



PERCHE’, TRA DUBBI E PERPLESSITA’, STO PER RENZI
(da “L’Opinione”, 25 marzo 2016)

Si sa, Matteo Renzi, l’attuale “premier”, è personalità controversa. Forse lui, da buon toscano, è rissaiolo di natura, la controversia la provoca e lo provoca. I suoi avversari, soprattutto quelli interni, le minoranze del suo partito che lui bellamente ignora, un po’ lo invidiano un po’ lo temono, non accettano comunque di non contare nulla nei disegni del loro segretario, fanno di tutto (e di più) per disarcionarlo. Penso che questi rigurgiti di rivolta interna costringano Renzi a forzare un po’, ad esagerare i suoi atteggiamenti, già istintivamente - appunto - rissaioli. Alla fine, potrebbe esserne fatalmente logorato, lui stesso non sa quale sia oggi il consenso popolare che lo circonda e può sostenerlo nella corsa elettorale che dovrebbe definitivamente legittimarlo, visto che la sua scalata al potere è stata, indubbiamente, anomala, persino un pizzico malandrina. Magari, per questo avrà bisogno di una coorte di sodali, di fedeli pronti a farsi in quattro per lui, isolandolo e proteggendolo, ma anche rendendolo abbastanza antipatico: non se ne faccia scandalo, ci sta tutto, nell’identikit di un personaggio di tal fatta. Non si può tuttavia non riconoscere che la sua interpretazione del ruolo che, un po’ casualmente, ricopre, è una interpretazione positiva. Il suo comportamento da “premier” è ineccepibile, gli si attaglia con eleganza sartoriale. 
Magari ci si potrebbe ricordare, e non sarebbe male, che il titolo di “premier” non gli spetta in nessun modo, come non spettò al suo inventore, Berlusconi. E’ un titolo usurpato da una tradizione politica, quella inglese, che non ha nulla a che fare con quella italiana. L’immagine del “premier” evoca un sistema elettorale lontano anni luce dal nostro: un sistema che ha a suo fondamento la norma per la quale “winner takes all”, il vincitore si prende tutto. E’ il prodotto, la conseguenza del sistema uninominale secco. Poche ore dopo le elezioni, una rapida conta fornisce immediatamente il nome del vincitore e questi, appunto, si prende tutte le carte in tavola. Il mazzo è suo. In Italia il vincitore non è mai certo, dovrà sottoporsi al controllo partititico, magari anche alla combutta dei clan interni, le “correnti” del  suo partito. In Italia il potere è sempre sotto condizione, sempre circondato da pesi e contrappesi che ne minano le fondamenta. Quando Berlusconi arrivò al governo disse chiaramente che occorreva dare a lui, in quanto governo, più poteri, più libertà da legacci partitici e anche parlamentari, di un parlamento espressione di una pluralità di partiti, attentissimi al rispetto “cencelliano” di questo “pluralismo” considerato fondamento - invece che mina vagante - della democrazia.
Il pluralismo, la frammentazione dei partiti, il sistema proporzionale, esprimono e difendono accanitamente il mito della “rappresentanza”. Non c’è teorico o politologo che abbia il coraggio di ricordare, e condannare, quanto esso sia fasullo e pericoloso. Il frazionismo che insidia l’attuale centrodestra, come anche il partito stesso di Renzi, può nascondere le sue miserie, rivalità ed anche appetiti, rivestendole sotto il mantello del rispetto della “rappresentanza”, la rappresentanza “identitaria”. Illustri teorici della politica, tanto laici quanto cattolici, si ergono a difensori di un sistema fondato sulla salvaguardia dei ”valori” della “rappresentanza”. Per costoro anche Renzi è preda del virus più pericoloso, secondo loro, per la democrazia: il virus del “decisionismo”, il male oscuro che insidia il “premier” più o meno all’italiana: cioè, oggi, Renzi. Che poi questo inseguimento pertinace della rappresentanza garantita dalla pluralità dei soggetti possa indebolire o comunque imbrigliare la governabilità, a loro non importa nulla.
Il premier decisionista – raccontano convintamente - ha un solo obiettivo: quello di scardinare i valori e la forza dei cosidetti “corpi Intermedi”, costituiti dalle più varie forme di associazionismo, diverse anni luce l’una dall’altra, ma tutte protese nella difesa di quelli che vengono ritenuti diritti “naturali”, sui quali il diritto, la “legge uguale per tutti”, non fa presa.  Si potrebbe fare un lungo elenco dei mali di cui questa concezione del pluralismo è responsabile, ma con molta disinvoltura (e senza farsi carico delle conseguenze) gli stessi illustri teorici li definiscono appendici scontate della “partitocrazia”.
Ovviamente, nessuno nega a nessuno il diritto di aggregarsi, di associarsi, nei modi e gli obiettivi che più gli convengano, e di operare al meglio per raggiungerli. Ma nessuno dovrà ugualmente dimenticare che in definitiva, ogni gesto è responsabilità di colui che lo compie. La responsabilità soggettiva, non corporativa, è grande conquista della modernità. La quale magari, nel difenderla, fa troppo appello ai diritti dell’individuo, dimenticando che colui che si muove sul terreno dell’agire in politica è, secondo – credo – Hannah Harendt, ben più che un individuo: è un “soggetto”.

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