PERCHE’, TRA DUBBI E
PERPLESSITA’, STO PER RENZI
(da “L’Opinione”, 25
marzo 2016)
Si sa, Matteo Renzi, l’attuale “premier”, è personalità controversa. Forse lui, da buon toscano, è rissaiolo di natura, la controversia la provoca e lo provoca. I suoi avversari, soprattutto quelli interni, le minoranze del suo partito che lui bellamente ignora, un po’ lo invidiano un po’ lo temono, non accettano comunque di non contare nulla nei disegni del loro segretario, fanno di tutto (e di più) per disarcionarlo. Penso che questi rigurgiti di rivolta interna costringano Renzi a forzare un po’, ad esagerare i suoi atteggiamenti, già istintivamente - appunto - rissaioli. Alla fine, potrebbe esserne fatalmente logorato, lui stesso non sa quale sia oggi il consenso popolare che lo circonda e può sostenerlo nella corsa elettorale che dovrebbe definitivamente legittimarlo, visto che la sua scalata al potere è stata, indubbiamente, anomala, persino un pizzico malandrina. Magari, per questo avrà bisogno di una coorte di sodali, di fedeli pronti a farsi in quattro per lui, isolandolo e proteggendolo, ma anche rendendolo abbastanza antipatico: non se ne faccia scandalo, ci sta tutto, nell’identikit di un personaggio di tal fatta. Non si può tuttavia non riconoscere che la sua interpretazione del ruolo che, un po’ casualmente, ricopre, è una interpretazione positiva. Il suo comportamento da “premier” è ineccepibile, gli si attaglia con eleganza sartoriale.
Magari ci si potrebbe ricordare, e non sarebbe male, che il
titolo di “premier” non gli spetta in nessun modo, come non spettò al suo
inventore, Berlusconi. E’ un titolo usurpato da una tradizione politica, quella
inglese, che non ha nulla a che fare con quella italiana. L’immagine del “premier”
evoca un sistema elettorale lontano anni luce dal nostro: un sistema che ha a
suo fondamento la norma per la quale “winner takes all”, il vincitore si prende
tutto. E’ il prodotto, la conseguenza del sistema uninominale secco. Poche ore
dopo le elezioni, una rapida conta fornisce immediatamente il nome del
vincitore e questi, appunto, si prende tutte le carte in tavola. Il mazzo è
suo. In Italia il vincitore non è mai certo, dovrà sottoporsi al controllo
partititico, magari anche alla combutta dei clan interni, le “correnti” del suo partito. In Italia il potere è sempre
sotto condizione, sempre circondato da pesi e contrappesi che ne minano le
fondamenta. Quando Berlusconi arrivò al governo disse chiaramente che occorreva
dare a lui, in quanto governo, più poteri, più libertà da legacci partitici e
anche parlamentari, di un parlamento espressione di una pluralità di partiti, attentissimi
al rispetto “cencelliano” di questo “pluralismo” considerato fondamento - invece
che mina vagante - della democrazia.
Il pluralismo, la frammentazione dei partiti, il sistema
proporzionale, esprimono e difendono accanitamente il mito della
“rappresentanza”. Non c’è teorico o politologo che abbia il coraggio di
ricordare, e condannare, quanto esso sia fasullo e pericoloso. Il frazionismo
che insidia l’attuale centrodestra, come anche il partito stesso di Renzi, può
nascondere le sue miserie, rivalità ed anche appetiti, rivestendole sotto il
mantello del rispetto della “rappresentanza”, la rappresentanza “identitaria”.
Illustri teorici della politica, tanto laici quanto cattolici, si ergono a
difensori di un sistema fondato sulla salvaguardia dei ”valori” della “rappresentanza”.
Per costoro anche Renzi è preda del virus più pericoloso, secondo loro, per la
democrazia: il virus del “decisionismo”, il male oscuro che insidia il
“premier” più o meno all’italiana: cioè, oggi, Renzi. Che poi questo
inseguimento pertinace della rappresentanza garantita dalla pluralità dei
soggetti possa indebolire o comunque imbrigliare la governabilità, a loro non
importa nulla.
Il premier decisionista – raccontano convintamente - ha un
solo obiettivo: quello di scardinare i valori e la forza dei cosidetti “corpi
Intermedi”, costituiti dalle più varie forme di associazionismo, diverse anni luce
l’una dall’altra, ma tutte protese nella difesa di quelli che vengono ritenuti
diritti “naturali”, sui quali il diritto, la “legge uguale per tutti”, non fa
presa. Si potrebbe fare un lungo elenco
dei mali di cui questa concezione del pluralismo è responsabile, ma con molta
disinvoltura (e senza farsi carico delle conseguenze) gli stessi illustri
teorici li definiscono appendici scontate della “partitocrazia”.
Ovviamente, nessuno nega a nessuno il diritto di aggregarsi,
di associarsi, nei modi e gli obiettivi che più gli convengano, e di operare al
meglio per raggiungerli. Ma nessuno dovrà ugualmente dimenticare che in
definitiva, ogni gesto è responsabilità di colui che lo compie. La
responsabilità soggettiva, non corporativa, è grande conquista della modernità.
La quale magari, nel difenderla, fa troppo appello ai diritti dell’individuo,
dimenticando che colui che si muove sul terreno dell’agire in politica è,
secondo – credo – Hannah Harendt, ben più che un individuo: è un “soggetto”.
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