lunedì 7 marzo 2016




UNA STRANA COPPIA, UN NORMALE BAMBINO.

L’ultima (per ora) delle “narrazioni” di Nichi Vendola è stato l’annuncio della adozione, sostanziale se non ancora formale, da parte della coppia gay formata da lui e dal suo compagno, di un bambino nato, all’estero, da madre surrogata. La notizia ha dato la stura a dibattiti à gogo per i quali non vedremo, temo, vinti o vincitori. Abbiamo letto accese reazioni, diverse e contrastanti, ma tra tutte a me è particolarmente piaciuto il commento di Giuliano Ferrara (“Dove porta la fabbrica dei bambini”, “Il Foglio”, 1° marzo). Ferrara è ovviamente contrario alla pratica adottata dai due per far nascere quel Tobia Antonio cui il giornalista ha rivolto un umanissimo e affettuoso “auguri”. Ma la sua opposizione è splendidamente nutrita di considerazioni che comunque dovrebbero essere tenute presenti, quando si affronta una materia così - quanto meno - controversa. Non accetterei, dal suo articolo, quel richiamo all’”utero in affitto” che è argomento frusto, invelenito, parrocchiale o subparrocchiale (mi perdoni Ferrara),  ma mi soffermo attentamente lì dove Ferrara dice che “le parti in commercio (“e dàlli!”) fanno uso di sé, per evocare la proibizione etica di Kant, come strumenti, come mezzi e non come un fine”... oppure che ”l’amore disincarnato e sentimentale che non discrimina e rende tutto possibile sorveglia alla dovuta distanza il procedimento, e in apparenza lo legittima senza riserve, ma ne risulta, Tobia Antonio a parte (ancora, bellissima, l’umana attenzione per il piccolo...), una minaccia alla legittimità dell’umano”. O, infine: “Il fatto che due maschi o due femmine decidano la filiazione per maternità o paternità surrogate, il che è altro rispetto all’amore e ai suoi codici tradizionali, ed entrino in azione e si procurino i mezzi per essere creatori di se stessi, e li usino senza tentennamenti, non è cosa da niente, non è scontato, ormai è facile da fare ma tuttora difficile da pensare, da giustificare. La generazione artificiale di esser umani e la fine della differenza parentale è il più radicale sradicamento immaginabile della trascendenza, della storia e dei codici dell’umano come li abbiamo conosciuti per millenni...”. C’è un grido di angoscia, in queste parole, che – pur nella diversità di convinzioni – posso fare mio, e faccio mio. Ha ragione, Ferrara: non solo per questo evento, siamo sulla soglia di una trasformazione profonda del senso antropologico dell’umano (io non amo parlare di “trascendenza”...) che non può non mettere un briciolo almeno di paura. Come accadde - lo ricordiamo tutti - quando in Inghilterra venne fatta nascere Dolly, la pecora clonata. In quell’iniziativa c’era già tutto quello che poi è successo in fatto di biotecniche e affini. Dolly non ebbe una vita fortunata, fu una pecora infelice  (oggettivamente, non soggettivamente) e il sogno faustiano evocato da quella nascita non si è realizzato: non ci sono nel mondo - mi pare - i milioni di pecore perfette o di cavalli-monstre che la tecnica della clonazione sembrava prometterci.
Direi che le perplessità maggiori nascono non sul piano, diciamo così, biologico-genetico, ma su quello dei sentimenti, delle emozioni. Il gesto di Vendola e del suo compagno ha, ce ne perdonino i due, un sapore, un gusto, di artificioso, se non di artificiale. Non si avverte in loro un minimo di quei “tentennamenti” che Ferrara pone come segnali di un sentire umano, comunque cauto e perplesso, nel momento in cui affronta un passo sicuramente grave, difficile e costoso, non solo per loro. L’annuncio di Vendola ha avuto il senso fumoso di un “coming out” bisognoso della presenza di un terzo, innocente e non sappiamo se consenziente: il piccolo Tobia (“auguri”, anche da me).
Alle belle, sentite, considerazioni di Ferrara io, nella mia “diversa” laicità, posso solo contrapporre una frase di Marco Pannella su cui non cesso di riflettere, perché anche essa dà un senso, un significato, a questa nostra straordinaria, precaria epoca: “Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana che è a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il colpevole, lo colpisce a morte”. Secondo un detto cinese si eviti di vivere (credo dica più o meno così) in un’epoca “interessante”.
Post scriptum un po’ ironico: il dibattito parlamentare sulle unioni civili ha fatto emergere qualcosa su ci fino ad ora non avevamo posto attenzione: e cioè che nella formula del matrimonio (quello “vero”, tra uomo e donna) c’è ancora un comma che impone alla coppia il “dovere” di fedeltà. Mio dio! All’ipermodernismo vendoliano qui si contrappone un mostruoso tradizionalismo, possessivo e materialista.

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