martedì 1 marzo 2016




                        
LA  SARTA


Non ha bisogno di bussare: lei dice, ogni volta, che lo sta aspettando. Vorrà lusingarlo? Il vecchio deposita, sul tavolo in mezzo alla stanza, il qualcosa che ha comperato per lei da mangiare (o da bere) secondo i giorni, scambia con la donna qualche parola sul tempo, si informa sui clienti venuti, infine si cala a sedere davanti alla televisione. Lei, la sarta, fa osservazioni su chi è venuto oggi o sui soldi che mancano,  i prezzi che rincarano. Lui taglia corto: "Va bene, ma parliamone dopo". Si immerge nella televisione. Aspetta, o forse solo lascia che il tempo scorra. Lei finisce un lavoretto, cuce un po' sulla singer, fodere per giacche o pantaloni, un paltò da stringere o da allargare, a seconda (ma le stagioni arrivano nel suo bugigattolo rovesciate, d'inverno i vestiti da sistemare sono leggeri, d'estate sono di lana, pesanti, felpati).

Poi la sera fa stingere le luci di fuori, lei accende la lampadina che pende nuda dal soffitto della stanza dove lavora, va nell'altra dove, dalla porta sempre semiaperta, si intravede un grande letto di metallo con borchie lucide come oro e rivestito di una coperta di raso appena stinta, si chiude la porta alle spalle. Si attarda qualche minuto, ne esce avvolta in una vestaglia scura. E' pettinata. Dice: "Ti faccio il caffè", e va nella cucina.

L'uomo si rigira nel letto, rassetta le coperte che odorano di un odore usato, che lui trova straordinario. La donna sospira e respira leggermente. Il suo corpo pesa, occupando spazio eccessivo. Ma la mano di lui scorre su una pelle delicata, tesa sotto il velo di sudore, una cosa spessa e ricca, sorprendentemente. L'età ha appena scalfito l'ombra della grazia, che su di lei alitava quando era giovane. Il vecchio si lascia andare ad antiche e vertiginose dolcezze. Indugia, cincischia l'emozione che lo assale.

Sono, tutti e due, come bambini alla loro prima volta. Dopo, restano sconcertati, vergognosi. Nel buio, i loro respiri si sommano in modo soffice ed umile. Giacciono torpidamente, talvolta si addormentano per svegliarsi quando la notte è fonda, ed è restata accesa la luce nell'altra stanza, che intanto è divenuta fredda.

Al campo delle bocce, in parrocchia, i pensionati e i giocatori bevono coca cola o birra. Le vespe si inabissano zampettando nei bicchieri, tanto poco quelli bevono e il liquido ristagna e si scalda torbidamente. Nessuno chiede il conto, il denaro cade, seguito da uno sguardo casuale, in larghi vassoi di latta decorati. Nel cortile di fianco al campo di gioco c'è ombra, attraversata lentamente dai due o tre preti arrivati a dire la messa, a confessare, a occuparsi dei circoli giovanili. I giocatori saltellano sulla pista di terra rossa, a maniche rimboccate anche d'inverno, calzando scarpette di tela bianche o blu, l'occhio intento e un grido che scoppia sulla picchiata, accolta dall'ovazione degli astanti: lo schiocco alacre, il rimbalzo sul tavolato fanno parte del paesaggio di rumori consueti e dunque liberatori. Qualcuno segnerà il punto guadagnato facendo ruotare le lancette di un quadrante giallo invaso da una scritta pubblicitaria. Quando la lancetta sale verso lo zenit assomiglia a un lungo dito ammonitore, come ad avvertire che il tempo della grande e definitiva partita sta per scadere. Per questo, al vecchio non piace andare troppo spesso alle bocce della parrocchia, e quando vede la lancetta avvicinarsi minacciosa sul mezzogiorno si alza e precipitosamente se ne va.

Il parco pubblico gli piace di più. E' frequentato da gente variopinta - non solo pensionati giocatori di bocce - che coltiva una sua complicità quotidiana. Il parco è dietro il mercato, e ci sono soprattutto madri e bambini a passeggiare nei viali polverosi o semplicemente a dilapidare, con le borse e i carrelli rigonfi accanto alla panchina, i minuti della sosta tra un acquisto e l'altro, tra i banchi della frutta e dell'usato. Ci sono anche sfaccendati che non si capisce cosa facciano, in quel posto. Pare abbiano un appuntamento importante e imprescrittibile, siedono con la testa piegata da una parte ad afferrare il rumore del passo di chi dovrà giungere a portare il messaggio, la missiva. Anche quando, dopo un po' di tempo, non un'anima si fa viva, attorno a loro aleggia l'atmosfera scostante dell'attesa. Il vecchio guarda quelli addormentati sulle panchine di legno, con meraviglia. Alcuni hanno la sua età, più o meno, e lui è indeciso se appaiano più vecchi o più giovani di lui. Una volta si è portato apposta in tasca uno specchietto da toletta, ha avvicinato la faccia a quella di un vecchio dormiente con la testa grigia sul braccio piegato, ha scrutato le due immagini affratellate. Il volto dello sconosciuto era scavato, la pelle era verrucosa. Non ha fatto in tempo a completare l'ispezione, quello si è svegliato come sotto un presentimento e gli ha aperto addosso l'occhio interrogativo, sibilando tra le gengive: così è dovuto scappare, inseguito dallo sguardo malevolo.

Lei si girò dalla sua parte, aprì la coperta che sfiatò via il calore greve raccolto, si sedette sulla sponda, infilò i piedi nelle pantofole lise, si attorcigliò i lunghi capelli in crocchia.

Da giovani amarono la donna ideale, l'ideale della donna; da vecchi sono capaci di spogliare una donna con il piacere ridondante, e lento, di assaporare, toccare ogni pezzo del suo corpo, e tanto più quanto più impregnato di odori, di effluvi, di acidi e di sapori. Strano, alla sua età, pensa con un po' di risentimento. Ma la carnalità del giovane! Sentita come vizio e colpa, che l'educazione e alcuni chimismi non ancora sviluppati impediscono al giovane di afferrare e godere completamente. Provvede al loro posto la rapidissima fantasia, il gusto del proibito e del morboso, eccetera. Nel vecchio, però, la carne è forse davvero innocente, alla fin fine - sogghignò - con il suo gusto e il suo sapore, il suo odore molteplice: che no, non è più sporco, alla fine, e non c'è più bisogno di profumi, anzi... Anzi, forse quel suo greve odore è ora la spezie necessaria e indispensabile al godimento pieno. La carne non ha più trasparenze e luminosità. Straborda in tutta la sua oscurità: ma che straordinaria, tarda scoperta, che tutta intera l'essenza di amare sia in questo piacere della carne.

La strada è trafficata, di palazzoni rossi con finestre protette da timpani triangolari o ad arco, alternati, e al primo piano balconi trascurati. Al pianterreno, negozi che da trent'anni sono lì, e gli pare di ricordare che, da ragazzo, aveva curiosato in quelle stesse vetrine: ma sì, anche il cinema di allora. I manifesti: un film-varietà, con immagini di donne che si sporgono a provocare il passante da sotto tendine di perline colorate e piume sulla testa; e dietro, ammiccante, il volto glabro del comico, evocatore della mossa. Quel volto sconosciuto del poster  lo mette a disagio: fa un passo o due indietro, per insistervi ancora su con gli occhi flebili. Vuole che il suo sguardo sia critico, critico delle ballerinette esposte all' ammirazione o al desiderio, occhieggianti in quella che appare una hall deserta dallo sfondo di marmo, o finto marmo. Una delle figurette gli provoca un flusso sensuale, come se fosse ancora il ragazzo di allora. Gira lo sguardo a cercare la targa stradale, quasi una lastra cimiteriale. "Non intitoleranno mai strade a un attore comico", pensa dubbioso dopo aver decifrato le lettere stinte.

Eppure, continuò sul filo di pensieri che se ne andavano un po' per conto loro, era costretto, irresistibilmente costretto, a desiderare. Questo era ancora più strano. "Il desiderio - avvertiva con meraviglia - il desiderio della cosa più piccola e semplice, della cosa più ovvia, ora ti mette faccia a faccia con l'impossibile".  Lo aveva scoperto da poco. “Ma è anche la cosa più amara”. Sì, l'impossibile era tutto il risultato che gli fosse riuscito a toccare, da qualche tempo

Il vecchio conosce la sarta da un paio di anni. Due o tre volte al mese si corica accanto a lei, nel letto dal quale lei toglie, piegandola accuratamente, la coltre di raso. Lui le chiede, ogni tanto: “Che pensi?”, e lei gli dice un “niente” sbiadito. Forse nei suoi occhi si è aggricciato un ricordo qualsiasi dell'altro suo uomo, il marito morto che guarda dalle fotografie sul comò; senza che lei se ne curi, di solito, quando va in giro e a volte si stupisce di quel volto di tre quarti e si chiede se davvero quell'uomo sia stato qualcosa, allora, per lei. In questi momenti, un lampo buio scende fin dentro le sue viscere. Le palpita il cuore senza che sappia perché. E perché ha accettato che questo vecchio, tempo fa, le prendesse la mano e la portasse lentamente, turbato, sulla sponda del suo letto? Non lo ama, non desidera certo il suo corpo. Non le piace fare l'amore con quest'uomo. Non le sono piaciuti i piccoli regali che lui le ha portato, volta dietro volta, lasciandoli sul tavolo tondo, una bottiglia di vino rosso che sotto la luce sembrava un velluto sfocato, un grosso dolce lievemente sfatto, ninnoli, perfino una bambola con gli occhi mobili e azzurri. Perché una bambola? Corruga ancora le palpebre, nello sforzo di capire. L'uomo è stato gentile, qualche volta anche caro. Ha preso confidenza di lei, se lo ritrova ora nella casa, quando viene, come se vivesse lì da sempre, con un agio che in lui pare naturale ma che a lei fa ancora senso, la turba.

Lei diceva: “Ora va via”. Lui insisteva per restare, si gingillava. Prendeva in mano la foto del incorniciata del marito, se la girava tra le dita. A lei sembrava che un sorriso soddisfatto sfiorasse allora il volto e le labbra del vecchio mentre di nuovo si allungava sulla poltrona, davanti alla televisione. Questo sospetto la faceva irritare. Lo abbandonava in spirito e si ritirava su una sedia in cucina, o a preparare del cibo: “Allora resti? Vuoi cenare con me?” “No, no. Assolutamente no. Resto un poco, ma non a cena; me ne vado, non dubitare. Non voglio darti fastidio”.
“E' così?” “E' così, assolutamente”. Ogni volta era stupita.

Ma la sarta sospettava che il vecchio non volesse restare per non essere obbligato con lei nelle misure del quotidiano, della familiarità. C'erano gesti che lui non voleva condividere, lei lo aveva notato: il vecchio si sottraeva bruscamente a certi momenti, quando l'uso cominciava a rendere facili, leggeri, i rapporti, e poteva instaurarsi una sottile accattivante atmosfera; come se, con l'accettarli e ripeterli (sopratutto ripeterli) potesse temere di essere catturato e legato a lei, a quella casa.

Borbottò, come solo i vecchi sanno borbottare quando sentono che le cose intorno gli sfuggono e loro non vogliono lasciarle andar via, anche se gli sono inutili e non saprebbero cosa farsene. Perché i vecchi sono prepotenti. Scosse la testa che teneva rasata, la pelle del cranio rosea. Con la sua mimica sembrava cercasse, o meglio dipingesse, un personale interlocutore cui rivolgersi. I vecchi vogliono parlare, promuovere grandi e insospettati progetti, ma sono gelosi e raccontano queste cose solo a se stessi, o ad amici fidati che però non hanno. Intorno c'era un grande silenzio, e il vecchio provò a romperlo: temeva ci fosse una congiura ai suoi danni.

Perché anche questo sono i vecchi: che immaginano sempre congiure a loro danno. Si sentono, e sono, esclusi, e questo li offende. Loro, cui si è fatta palese l'inutilità di certe cose, vengono accantonati da chi ancora dà importanza all'avidità delle incombenze "e dunque alla stupidaggine dei comportamenti, certo", rifletté. I comportamenti; da tempo li aveva dismessi e si lasciava andare alle occasioni, all'occasione come gli si presentava di momento in momento. Qualche volta, così, si sentiva libero, ma per puntiglio non voleva cedere a chi mostrava, nei suoi confronti, noncuranza. "Solo i vecchi sanno davvero decidere", pensò, o forse disse. Siccome non c'era nessuno, vicino, non fu proprio sicuro di aver parlato, anche se soffiava tra le labbra. "Non è vero che sono i giovani ad essere rapidi, ad essere decisi. Loro hanno tante cose da calcolare, e ogni loro decisione è fatta di mille rimuginamenti, di opportunismi. Devono far così, del resto. Ma a volte piangono, quando debbono decidere, quando sono costretti a decidere". Sporse il petto confidenzialmente verso l'interlocutore immaginario, che ora gli si era affiancato, complice: "Noi, invece, non abbiamo paura di niente, vero? E non è nemmeno una cosa triste". Non poté negare, tuttavia, di sentirsi inquieto. Era rientrato da poco in casa, precipitosamente, con un qualche affanno dentro il petto. Non sapeva precisamente cosa gli fosse successo, pur avendoci pensato su abbastanza.

"La vecchiaia tiene la vita raccolta in pugno". Ma chi lo ha detto? Chi lo dice? Dove l'ho letto? Non è così, no. I nonvecchi pensano che la vecchiaia tenga la vita così (e serrò con forza le dita una sull'altra) tutta raccolta - memorie, sensazioni, eccetera - dentro il pugno. Pensano che la vecchiaia, insomma, sia come uno scrigno, un cassetto, o un libro, nel quale sia tutto conservato, raccolto o scritto in bell'ordine, come una biancheria riposta, che basta volerla e la ritrovi lì, magari profumata, piegata e rassettata, comunque. Non è così, proprio, la vecchiaia apre la mano e dentro non c'è nulla, o forse un mucchietto di cenere che si sbriciola sfarinando dal palmo, soffiata via da un baffo di vento. La vecchiaia è un gran vuoto. Il ricordo - che è la sostanza del vivere, la durata, la molla che urge dentro, dolorosamente o gioiosamente, e ti spinge a muoverti, a fare, e ti fa essere quello che sei, te stesso - ecco che si sfalda anche questo, e si annulla. E' labile, se non lo tieni serrato, e tu lo tieni serrato solo quando sei in forze per fare, per utilizzarlo, per vivere e desiderare, per esempio. Quando tutto questo cade, cade anche il ricordo. Uno, il vecchio insomma, non ricorda più; semplicemente, perché non gli serve più.

Dubitava, ma volle reagire. Drizzò la testa con un fiero cipiglio sul volto. Disse:
"No, sono io che ho scacciato via i ricordi, tutti, e l'ho fatto apposta. I ricordi mi sono perfettamente inutili, ormai. Ho imparato che nessuno trova un motivo per compatirti, a una certa età. Per qualche anno ho aspettato che le mie parole suscitassero attenzione, un po' di attenzione. Mi sforzavo di parteciparli con gli altri, i miei ricordi. Pensavo sarebbero stati utili: a qualcuno, se non a me. E invece, una delusione. Nessuno voleva saperne. Anzi. Erano fastidiosi. La gente mi ha sfuggito, finché non ho capito che dovevo smetterla. Da allora, non ho ricordato più nulla. Uno ricorda come un'ossessione. Come - sono sicuro - per vendicarsi. Ma se questo diventa inutile, meglio disfarsene via. Chi vuole vivere ancora, non vuole ricordare.   

La gozzoviglia del sole, che arde le cose, le liquefà e le dissolve definitivamente, lo coglie impreparato. I giorni si sono consumati via. Era rientrato quando la notte era tutta bruciata, ed era restato sveglio, accarezzato da un venticello venuto su a refoli dal cuore dell'alba pallida, percorsa da barbagli luminosi all'orizzonte. Poi la luce aveva sibilato dentro la gola di un merlo, saltellante in ovattati, deserti giardini. Allora era riuscito a fare, a formulare qualche progetto. Bisogna scuotersi, vincere l'inerzia: "Noi vecchi dobbiamo aver fretta, se vogliamo esistere."

Si sforzò a sillabare, nel silenzio: "No, la carne, per il vecchio, non ha piu' trasparenze e luminosità, ma solo grevezza. E sì, il vecchio che ama la carne appare vizioso, e forse si comporta da vizioso. Così lo vedono gli altri. Pare che questo piacere del vecchio per la carne fatta pesante sia inconfessabile. Però, che importa? Appaia pure vizioso, si comporti da vizioso. Come si chiamava il re biblico - non ricordò il nome - al quale le guardie devono cercare e portare una fanciulla morbida e appetitosa (l'aggettivo gli venne spontaneo, e lo stupì perché non ci aveva pensato, ma lo trovò adeguato perché gli rendeva l'episodio, con l'aspetto del mangiare e del suo piacere, che gli riempì il palato di saliva). Bella storia - si compiacque con se stesso - che la dice lunga sul rapporto che c'è tra il vecchio e la carne, questa scoperta tarda e innocente (e quindi, per converso, viziosa, ammise)”.

..."c'è qualcosa di terribile e squassante in questo compimento, che dà il senso vero dell'ultimativo, qualcosa di irrinunciabile, ormai. E' la scoperta che abolisce le metafore, non le tollera più perché tutte sono divenute insufficienti. Ma come ci si arriva?" Avvertiva che deve essere un processo necessario, legato a un percorso non controllabile se non al negativo, nel senso che se ne può impedire lo sviluppo e il completamento ma non indirizzarlo. "Insomma, costui sembra conoscere bene i meccanismi che occorrono per godere, provare piacere, e ha i mezzi per compiacervi; però la loro conoscenza diretta anche per lui è peccato, fonte di dolore, di frustrazione, di orrore. Quel re, un re della Bibbia mi pare (ma come si chiama?), comanda che gli venga portato davanti un corpo che, se non fosse re, non ci arriverebbe mai, se lo sognerebbe. Come me", sospira.

Il viavai incessante dei frequentatori aveva contribuito al degrado dei viali e delle aiole, dimenticate dal Comune e scolorite in uno spento giallo.

Il vecchio si sedeva, quando tutte le panchine erano occupate, sulle recinzioni delle aiole, fatte di tronchi sottili, legati in croce all'altezza del ginocchio. Molti erano stati divelti, ma dove resistevano la corteccia se ne era ugualmente andata lasciando il legno vivo, come un antico e nobile mobilio nel tempo. Gli piaceva sedere su queste sbarre tonde sentendone sotto la mano la pelle fine: una delle poche cose gradevoli e sopportabili mentre tutto, intorno, veniva incessantemente logorato, spostato, cambiato, sostituito con pezzi, con materiale nuovo, volgare e dozzinale. "Purtroppo, questo succede, oggi!" aveva commentato, rivolto a un vicino di panchina. Ma sapeva di aver detto una bugia, e ne restò male tutto il resto del giorno. I vecchi devono sempre fare questa spaccatura del tempo: di là quello scomparso, il tempo buono, di qua il tempo di oggi, brutto e inquinato. Ma, infine, il parco gli piaceva per questi inconvenienti. Lo incuriosivano, e forse lo eccitavano.

Di che cosa chiacchierano? Di che cosa debbono, quasi ineluttabilmente, parlottare? Non sa. Non c'è un argomento fisso. Non c'è attualità così importante, disastro o diluvio, da trattenere per più di un momento l'attenzione determinata, la gravità di un giudizio, la passione di una scelta. Ma le voci con cui percorrono e lacerano le inesistenti questioni, voci maschili e femminili, sono di una qualità che le accomuna e le fa somiglianti: quella di essere, tutte, in eccesso. Eccessive, nel tono e nel ritmo.


 Era vestita in un due pezzi, la gonna bianco-lacca si apriva davanti mostrando la coscia sopra il ginocchio; la camicetta, di un crema sporco, decorata con roselline stampate e un fiocco appeso sul seno sinistro, le maniche corte. Si era seduta alla sua panchina, all'altra estremità. Si mise a sfogliare una rivista femminile che aveva con sé, indugiava sulle fotografie di modelle in costume da bagno a fiori, grandi e vivaci, in pose flessuose.  A un tratto si girò, indicò al vecchio un modello: "Questo mi andrebbe bene per il campeggio", disse, e rise. Si lasciò andare, sembrava naturale, ad esporgli un suo problema. Voleva fare la ballerina, continuando gli studi intrapresi, e insieme aveva paura di tale scelta che non le dava - così almeno lei dubitava - certezze. Non sarebbe mai stata una brava ballerina, lei lo sapeva; niente carriera, solo modeste prospettive di insegnamento: questo destino comunque l'appagava, si contentava, lo preferiva ad altri pur vagheggiati, era disposta ad affrontare i necessari sacrifici. Gli parve che fosse intenta a organizzare un piccolo repertorio di bugie, o meglio di frivolezze, da utilizzare e largheggiare in ogni caso, per rispondere ad ogni domanda indiscreta e vagabonda. "Hai famiglia?”, chiese. “Mio padre”. E che ne pensa, lui?”. “ E' d'accordo”, annuiva a se stessa, pensosa. "E il tuo ragazzo? Perché, certo, tu hai un ragazzo”, chiese con una punta di stizza. “Oh, lui fa un sacco di storie". “E te ne importa?" "No, nulla. Non mi importa nulla di quello che pensa mio padre ma nemmeno delle delusioni  del mio ragazzo". Lo fissa con occhi ironici. " E allora di che ti preoccupi?" " Boh, non lo so”. “La mia domanda è stupida? Forse sono indecente, non so." "Ma che vuoi dire?". Lui insisté. “Non dovrei chiederti cose così”. “Boh, non lo so".

Si stizzì. Ogni volta che toccava, o credeva di toccare, la bellezza, questa gli sfuggiva, gli diventava irraggiungibile. O forse l'egoismo rende anchilosato, intirizzito, un vecchio, come il freddo. Lo punse anche un pizzico di gelosia, perché la ragazza era arrivata già, così giovane, lontano, lì dove lui era appena approdato da vecchio, tardi.

La mattina dopo era stata difficile. Si era svegliato prima dell'alba, e aveva pensato che era un'orribile nuova giornata. Si era fatto forza, voleva convincersi a viverla. Gli era costato uno sforzo grandissimo. Aveva soggiunto, per farsi ancor più coraggio: "Che debolezza! Ma cosa posso farci? I sentimenti ti assalgono all'improvviso, non si comandano, è proprio vero. I sentimenti, la passione...". Poi aveva concluso:" Sciocco, alzati. Che debolezza. Non cascarci più". Rabbrividì. Aveva intravisto il volto di lei nei geroglifici del muro. Non aveva osato immaginare più oltre, se lo era proibito, perché sapeva che da quel momento l'immaginazione lo avrebbe perseguitato. "Aspetterò al varco tutte le immagini di lei - aveva concluso ad alta voce: "Tutte, ad una ad una, con la loro amarezza". Si ripromise di non uscire, per l'intera giornata, e di restare lì, solo: "Non so chi sei, dunque non posso raccontarti. In questa solitudine, e solo in questa solitudine, mi appartieni".

“Arrendersi? Nulla di più naturale, come dell'animale davanti alla morte, finalmente. La medicina non può ottenere questo, ma non vi riesce nemmeno la religione. Come è primitivo, l'uomo, in fondo”. Si inebriò quasi  fosse, la sua, una scoperta inaudita, mentre continuava, piano: “Davvero, tutto è accaduto. E tutto è stato già detto. Ormai si deve, o si può, solo tornare, tornare indietro, a quello che è già accaduto. Però, è sempre difficile riconoscere quanto è successo; riscoprire le cose, una fatica indicibile”. Dopo averci ripensato un po': “Ma sono contento che mi accada questo: non capita a tutti, ne sono sicuro. Ci sono arrivato, io. Dovrò ringraziarne qualcuno?”

Non aveva cambiato qualcosa, stamattina, anche la moglie del vinaio, coi suoi capelli rossi tinti? Anche lei, che solo due mesi fa aveva subito l'operazione di asportazione dell'utero per un fibroma. Isterectomia: aveva appreso l'orribile nome tecnico allora - non lo conosceva, prima, e aveva scoperto che, per le donne, esso significava fine della gioventù, della maturità, della stessa femminilità, e inizio della vecchiaia; ma sì, ogni donna piange la perdita, l'asportazione, anche se i ginecologi cercano di convincerla del contrario. Non ottengono ragione, loro, quanto invece l'antica paura.

Ma certo! Stamattina la moglie del vinaio è cambiata. Ha fatto arricciare e arruffare dal parrucchiere i rossi capelli che adesso stanno dritti, fieri, pieni di vita; e lei sorride in altro modo, da un altro mondo.
"Buongiorno".
"Buongiorno, signora. Che meraviglia!"
"Dio mio, e di che cosa?"
"Del suo splendore, signora, mi permetta. Lei oggi è davvero bellissima".
Dovrebbe vergognarsi, il giorno prima si sarebbe vergognato, oggi no, oggi non si vergogna della fatuità, ha seguito l'impulso e basta. Lei lo guarda imbarazzata, per dieci anni hanno solo scambiato un buongiorno o buonasera distratto, oggi lui se ne esce con un complimento sgargiante. E poco prima non si è trattenuto dal buttare l'occhio sulla commessa del parrucchiere che gli è passata davanti.

Ha avuto un altro impulso irresistibile sfogliando i giornali comprati all'edicola sotto casa, come ogni mattina. Mentre si scaldava il secondo caffè, ha scritto una lettera a un vecchio amico, uno che gli ha fatto anni prima uno sgarbo feroce si cui lui si è arrovellato a lungo. Ha letto dunque sul giornale qualcosa che riguardava costui, o almeno lo richiamava con la suggestione di un cognome stampato, chissà a che proposito e chissà se con riferimento proprio all'odiato. Obbedendo all'impulso (nutrito di sarcasmo grottesco) ha preso una busta da lettera, vi ha inserito il ritaglio, ha aggiunto a matita: “Il tuo cognome. Perché?” ed è subito uscito ad imbucare. Un dispetto, un po' sciocco: ma oggi si perdòna, si compace anzi con se stesso.

“Buon giorno, buongiorno a tutti e a tutto, io ho appetito, un buon appetito vorace. Ho finalmente fame - anzi, sono avido, insaziabile. Ieri sera ha piovuto, ha sgrullato acqua dappertutto, anche in casa è penetrata, e stamattina le foglie della vite americana che fanno pergolato sulla terrazzina sono rosse, d'un cinabro intenso e roco. Come è bella questa stagione. Ma mette paura”... Si prende il volto tra le mani, sgomento. Non sa più cosa farà, che cosa gli succederà. Ha orrore di questa nuova fuga degli impulsi che se ne vanno dove vogliono e come vogliono, senza che lui possa trattenerli, governarli saggiamente. E' questa sensazione di carte mescolate e irridenti che gli fa pensare, oggi, alla morte. La morte è vicina, come non pensarci, non pensarci sempre? La vita è lo sdipanarsi continuo e inflessibile di comandi, prescrizioni, obblighi che tutti, fin da bambino, ti inculcano e ripetono ossessivamente. La morte, quando arriva, sembra chiedere un perdono impacciato, sembra chiedere scusa per aver interrotto lo scandire dei comandi, degli ordini, delle prescrizioni in un punto non predeterminato, non contrattato, disordinando un cammino vitale proteso ad adempiere quotidiani ferrei condizionamenti, millimetriche disposizioni. Ma la morte è anche liberazione. Dopotutto...

Questo vecchio - che mi ossessiona, lo ammetto - vive in una periferia lungo gli strapiombi della città, sotto ai quali passa il traffico della nuova tangenziale, sopraelevata tra macchie di acacie spinose e sambuchi. Il caseggiato è piantato su piloni in cemento armato. "Un giorno o l'altro verrà giù tutto", aveva pensato una volta, battendo col dorso della mano sul giornale con la foto della zona, le palafitte di cemento e un paio di punti esclamativi di sdegno: ma in quel momento lì non c'era nessuno a raccogliere il suo malumore, a replicargli, e il silenzio mise a disagio il vecchio - tra i piloni il vento caracolla, d'estate le vampate di sole si insinuano e si spezzano sui pavimenti del pianoterra (che in verità, rispetto alla strada, è ancora un seminterrato e bisogna scendere cinque o sei gradini per entrare, ma dall'altra parte spalanca le finestre sullo sdirupo vertiginoso). Lì in basso, dietro le siepi, sospettava si svolgessero loschi traffici, di prostitute, forse anche di omosessuali.  Quando il vecchio se ne stava in ozio sul terrazzino, scaldandosi al sole, sentiva salire le voci. Grida violente, schiamazzi scurrili, un dissiparsi di voci alterne, quasi sempre senza volto, almeno dall'alto, da dove stava lui, sul terrazzino.

Al vecchio, questa condizione dà insicurezza, non piace. Vorrebbe abitare in una casa di uno o due piani, al massimo, con un giardino col fico. Legge sul giornale gli annunci economici degli affittasi. Insieme, però, ai necrologi dove spesso gli capita di trovare il nome di un tale che ha conosciuto tanti anni prima, o di cui aveva sentito fare il nome da qualche parte, per qualche fatto importante poi dimenticato; cosicché quando lo legge solleva gli occhi, soprappensiero, e soffia tra le labbra perché un altro pezzo della sua memoria se ne è andato. "Sì, accadde così, ed era un pomeriggio d'estate; no, era autunno, le foglie secche scricchiolavano, e quello lì...certo...proprio lui: o, almeno, mi pare". Ma dubitosamente, lasciandolo un poco più solo.

La sua aspettativa viene ogni volta delusa, non c'è mai un annuncio che possa andar bene: la casa o è troppo lontana o costa troppo, e questo è il caso più frequente naturalmente perché la pensione non gli permette molto e anzi a volte lo lascia a secco già a metà mese. Lui insiste e la ricerca sul giornale è il momento più importante della giornata, che per il resto trascorre in silenziosa nevrastenia. Che fa, il vecchio? "Noi vecchi vegetiamo", dice a se stesso.

In casa, aveva anche il figlio. Faceva la guardia giurata, sorvegliava banche, uffici, per una società specializzata, lavorava spesso di notte, in lunghi turni che però non lo sfinivano, e il vecchio provava segreta invidia per il ragazzo che era capace di rientrare la mattina tardi, sciacquarsi la faccia, bere un caffè in piedi in cucina, cambiarsi la camicia e uscire di nuovo, dicendo :"Torno per pranzo." "Hai bisogno di niente?", lui gli faceva, e si accorgeva di avere una voce supplichevole di cui si doleva senza poterci, però, porre rimedio. Altre volte, il vecchio sentiva, a notte fonda, che il figlio rientrava con qualcuno, o meglio con qualcuna. Passavano nel salotto, poi bussava alla stanza dove lui, il padre, stava ancora a leggere il giornale con la luce bassa accesa, e diceva: "Non venire di là". Nella casa scendeva allora un silenzio assoluto. Il vecchio restava seduto alla poltrona, al buio, guardando fuori della finestra, la strada illuminata dai lampioni. Sospirava, borbottava, poi diceva :"Ma io non voglio morire".

La mattina dopo, quando si alzava, tardi (lo faceva apposta), i due erano già usciti. Lo stupiva che non ridessero mai, che non cantassero, non chiacchierassero. Non parevano giovani. Nella casa aleggiava allora un forte odore, sempre diverso. Il vecchio apriva le finestre, spalancate, poi usciva preso da una leggera nausea e faceva una delle sue passeggiate, al parco o al gioco delle bocce. Si chinava a raccogliere cicche per la strada, le apriva e le mescolava assieme dentro un foglio di giornale. Il figlio lo avrebbe certo rimproverato, ma a lui piaceva quell'idea, che lo isolava dal figlio e dalla gente che non capiva quanto fosse buono il tabacco così recuperato, districato sapientemente e riutilizzato, asciutto e croccante. Raccogliendo quelle cicche, aveva qualcosa da fare: qualcosa di proibito, di misterioso, di importante. Come un bambino. Torna, solo, a passeggiare nel parco. Osserva l'immobilità cui sono ridotte le cose, nell'autunno. Immobilità e decadenza ormai ci sopraffanno, osserva. Tutto è nel suo occhio, il suo è lo sguardo di chi sa. Guarda oltre. E' lo sguardo del bambino.

Il rispetto e la stima cominciano con un'apparenza, pensò: una, rigida, seduta alla panchina di fronte alla sua, come assente da se stessa, si  rassetta continuamente i capelli a chignon: è l'unica grazia che le resta, ma chissà se ne è consapevole oppure è solo il tuo strazio, una tua particolare condizione d'animo a mostrartela, ad offrirtela, anzi. Ma che peccato, per lei, se non vivesse il puro dono che le viene offerto dall'occasione del tuo sguardo. Che però, e lei non lo sa, è per un'altra, ora.

"Voglio essere terribile; terribile come devono essere i vecchi". I vecchi, che annunciano quello che nessuno conosce, la morte: la morte, la cosa che gli altri raccontano ma è già tutta scritta sul volto dei vecchi. "Oggi, purtroppo, i vecchi non sono più terribili. La morte, non interessa più nessuno".

Un paio di ragazzi lo spintonarono, e sghignazzarono. Nel lungo budello dell'ingresso alla metropolitana si era infilata acqua ruscellando sul pavimento e stagnando in pozzanghere. I ragazzi scalciarono passando, schizzarono fango. Sentì il bagnato sulla gamba, sotto il pantalone, come lo scolaticcio dell'orina. Accanto a lui, una voce gracchiò: "Per favore, mi passi il dottore". Il vecchio si appoggiò alla cabina telefonica, una delle nuove cabine di plastica installate in tutta la città. Un cubo di luce gialla chiuso da tutti e quattro i lati, come aveva potuto sentire la voce di quello che parlava là dentro? Ma no, alla cabina mancava la porta: le due ante pendevano dai gangheri come elitre trasparenti, strappate da chissà che furia. Da dentro il cubo di luce, l'uomo proseguì: "Il dottore, per favore". Attese la risposta, paziente. Lui, pensò, non voleva più attendere risposte, mai più, per tutta la crosta di vita che doveva ancora grattare, prima di raggiungere il centro oscuro e finale dell'esistenza.

Si chinò a carezzare il gatto, che rispose con un gemito pieno di dolcezza. Disse: "Io sono come voi. Sono come te, proprio. Non mi credi? Ho imparato tante cose difficili. E ora so starmene, come voi, a occhi chiusi, a scaldarmi al sole. E' stato lungo, arrivarci."

Ama riparare, o far riparare, le cose, gli oggetti, quelli minuti e inutili che ingombrano tutte le case, dopo un po' di anni. Restano lì, nell'esitazione e nel dubbio, avvolte in un vago senso di colpa: ma quando questa sensazione sfuma, alla fine, noi le buttiamo, queste cose, questi oggetti, con fastidio, magari di nascosto (almeno, verso noi stessi). Al vecchio, però, sembra di avere un buon rapporto con questa chincaglieria, gli oggetti che ritrova, sperduti, obliati, in qualche ripostiglio, o sopra un mobile polveroso. Il vecchio osserva, spolvera col dorso della mano l'oggetto riscoperto, lo solleva e lo osserva alla luce, la memoria gli sgomitola piano piano, a sussulti, episodi dei quali l'oggetto è stato parte: e il vecchio, allora, sorride compiaciuto. Se l'oggetto è danneggiato, pensa come ripararlo o farlo riparare. In questo, mette sforzo, un certo puntiglio. Pensa che così egli ha un buon rapporto non solo e non tanto con le cose, gli oggetti, ma proprio col Tempo in sé, e col Mondo, osò affermare una volta, con timidezza: col Mondo. "Riparare le cose dà pregio agli avvenimenti, a quello che è accaduto e che accadrà, e che sembra che nelle cose si incrosti. Mica è vero che le cose sono tutte uguali: ognuna è diversa dall'altra, ha una figura che si è costruita lentamente grazie all'uso che noi ne abbiamo fatto, quando la logoriamo e pensiamo che così invecchi e scivoli verso l'inutilità: ma è proprio il contrario.


Bisogna, assolutissimamente, che ci sia un fine, sospirò. Non puoi farne a meno: quando per caso questo succede e tu finalmente ti senti leggero, pensi di essere leggero e di poter finalmente fare tutto così come ti piace e ti passa per la testa sul momento, allora devi avere paura.

Lei chiedeva: "Com'era, tua moglie?" Non era curiosa, l'immagine di quella donna lontana non la interessava; ma vedeva che lui non gradiva la domanda, e quindi la ripeteva, per pungerlo, per farlo scoprire, in qualche modo. Ma lui si fissava sul televisore, si faceva prendere da una partita, da un film, e sembrava non aver sentito.

Se ne andò via tardi, quando il buio si era fatto un gelido diaspro, e per le strade non c'era nessuno. Lei chiuse la porta dietro l'uomo che si allontanava girando l'angolo, restò appoggiata allo stipite, commiserandosi un poco. Non sapeva quel che era accaduto, lo scacciava dal ricordo, supplicava i fantasmi di sparire via. Non sapeva cosa fosse successo, della sua vita, il filo dei lenti e lunghi fatti le appariva spezzettato e sconvolto, in un disordine ferale, impossibile a rassettare. "Sono sola", pensava. E:" Può la vita sapere se stessa?" Fantasticava di quando, in lontane sere d'estate, aveva visto avanzare nel cielo un temporale, con il cumulo delle nubi avanzanti, ammassate in figure varie e singolari. Aveva cercato di decifrare quelle figure, di capirne le forme fin nei dettagli, ma non vi era riuscita. Così era stata la sua vita, un rincorrersi di fatti la cui successione, dettagliata e scandita, non poteva essere ricostruita.

“Fino ad oggi non sono mai andato oltre tentativi, preludi e promesse di ogni tipo”. E sperò che tutto quel che gli stava accadendo fossero incidenti fittizi, scherzi, da cui poter via via trarre qualche moralità, o qualche ammonimento per il buon fine della sua vita futura: ricordandoli, poi, si sarebbe detto con compiacimento: “Come no!” Da quel momento sono proprio cambiato, sì, sono diventato un altro”.

“No – disse – la grazia non si divide. Non si può dividere. Se in qualcosa compare la grazia, quella cosa ha in sé tutta la grazia, tutt'intera, quella cosa è – misteriosamente – la grazia, la grazia in sé”.

Così erravano i pensieri, e lui li accarezzava. Lasciate ai vecchi la loro solitudine, soprattutto non offendetela: è la loro unica, vera ricchezza e deve essere amata come una ricchezza, delicatissima e fragile”.

“...hai ragione, certe efferatezze, la lussuria dei vecchi, non dovrebbero essere condannati. Solo il vecchio ha potuto capire che le durezze dei giovani, le loro protervie, le alterigie e rifiuti erano sciocchezze, e non valeva la pena difenderle...Ma torniamo a lui. C'è tuttavia tristezza, nel suo cambiamento. Se non altro perché, come è splendido il ripensamento del vecchio, è ugualmente necessaria l'intransigenza dei giovani. E' questa intransigenza che, in definitiva, chiede. Essa impone una scelta, ma già in questo modo esalta colui che vi risponde, vi corrisponde. E' in questo severo e forse anche disumano dialogo che si forgiano moralità, anche quando ci si deve preparare alla grande svolta della maturità; ma non c'è altro percorso - umano - nella storia della morale. Il passaggio alla vecchiaia, e a quella sua ritirata, è duplice; sconfitta da una parte, altissimo dono e saggezza dall'altra. Ma occorre che questo percorso sia compiuto, per il bene di tutti. Poi, il vecchio che allunga le mani verso la donna, che si umilia per averne una carezza sguaiata, magari qualche palpamento e cose così, non dovremmo condannarlo, d'accordo; ma solo se è stato preceduto e innalzato dalla violenza del rigore giovanile (l'erotismo senile è privo dell'accessorio necessario, della violenza, della prevaricazione, della sopraffazione). Però, quello stesso vecchio deve essere stato colui che in gioventù non si è mai abbassato per chiedere nulla; nemmeno alla sua donna: che non ha pagato, non ha mai avuto bisogno di ricompensare alcuno..."

Non riusciva più a commisurare le diverse necessità, man mano che durante la giornata gli si presentavano, e a farle combaciare così che nulla andasse sprecato. Ci rimaneva male: l'esattezza, la puntualità, un bene che da qualche tempo gli era venuto a mancare, lo sapeva ormai. Di notte, quando l'insonnia lo costringeva a lunghi silenzi nel buio e gli saliva incontro l'incubo dei desti, amaro se non insopportabile, si riprometteva di mondarsi della tara. Per il solo fatto di essere consapevole, di averne scorto le radici, era speranzoso di potersene liberare. La promessa si legava in un indissolubile giuramento. Quando poi al mattino cercava di riconnettere le immagini notturne, queste gli si presentavano sfocate, lontane. Non ne discerneva più, alla luce, i contorni. Si chiedeva se fosse ancora valida la promessa strappatagli dal buio, il giuramento fatto volava via con il fruscìo di un'ala di pipistrello. Tutto riprendeva come prima. Era un uomo sregolato e smisurato, e la mancanza di norme e confini certi lo rendeva ingombrante: a se stesso, innanzitutto.

"...ha dovuto pagare troppa gente, per poter ricompensare, davvero, qualcuno". "Ma no. Penso che non si sia mai posto il problema di ricompensare qualcuno. Ha creduto nel rigore degli incontri e del dialogo, nella parità dei rapporti; quelli che, al momento in cui si sciolgono o vengono sciolti o si rompono, lasciano, da una parte e dall'altra, i conti in nero, le partite in pareggio, non in rosso. Per questo, se ha potuto pagare dei servizi non ha mai compensato un dono, quello che egli accettava come dono. Ma è convinto, assolutamente convinto - ne sono certo - che chi ha dato, chi gli ha dato, ha anche ricevuto in misura pari e non ha nulla più da esigere. Non crede nei rimpianti, li aborre: né nei suoi né in quelli degli altri; se dovesse cedervi, consapevolmente cedervi - diciamo - si riterrebbe uno sconfitto della vita. O, almeno, questa sarebbe stata la sua conclusione d'un tempo".
"Perché, oggi è cambiato?"
"Penso di sì. Penso che anche lui abbia dovuto accettare il responso del tramonto; quando cadono almeno le illusioni di poter imporre alla vita i propri rigori. I moralismi sono un lusso dei giovani, non dei vecchi, ai quali si schiude invece, con tutte le sue dolcezze, l'arte del possibile, la accettazione delle sconfitte, come vengono; la moralità autentica, forse. E chissà che proprio lui, proprio lui sconfitto, non abbia rinnovato e sublimato l'antico rigore nell'umiltà del pagamento, del prezzo pagato per un po' di calore, di vicinanza, forse anche di dimenticanza, Gli amori dei vecchi, a pagamento, non li disprezzerei troppo, sai?"

Il vecchio stava, come spesso, sul terrazzino a cincischiare tra le smorte piantine nei vasi di terracotta. Sentiva salire le voci. Grida particolarmente violente, stavolta, anche un”figlio di puttana!”. Si era affacciato sulla figura di una giovane che scappava correndo tra le canne e i sambuchi, a zigzag. Correva a perdifiato.

La repentinità dell'accaduto aveva scosso il vecchio con mille interrogativi, comprensibili emozioni, curiose invidie. Si spenzolò. Sentì che la cosa gli apparteneva. Si vantava di avere una bella esperienza, un gran colpo d'occhio nell'individuare la gente losca, pericolosa, i malfidati sociali, gli sconosciuti di quartiere - ma erano altri tempi, il quartiere era poi stato travolto dal cemento e anzi non c'erano più quartieri nella città, ogni strada era uguale all'altra - sempre quelli, coi noti volti che apparivano e sparivano lasciandosi dietro il sospetto di una occasione furtiva, di una complicità in attesa di segnali.

La giovane era riapparsa, aveva il naso insanguinato. Gridava, rivolta a qualcuno, dietro di lei, nella macchia dei sambuchi: "Lasciami stare, che vuoi da me" e vomitava imprecazioni e oscenità. Gli parve di riconoscerla, di averla già conosciuta, un volto usuale, o forse semplicemente somigliante o identico a lei, la ragazza appena conosciuta al parco.

Si era affacciato, dopo quelle grida, un paio di volte, nei giorni seguenti, dubbioso sulla loro causa. Sempre, il paesaggio desolato della forra, là in basso, gli aveva stretto il cuore. Chissà mai cosa succedeva, laggiù. Donne, uomini, che facevano un amore trasandato. L'abbaiare del cane, uscendo da uno dei muretti rinsecchiti di mattoni traforati e ostili, segnalava che l'estate era proprio agli sgoccioli, dopo quel brutale agosto appena trascorso, e che la vita della città sarebbe ripresa presto, traffico e tutto; forse lo stesso giorno, o il giorno dopo, all'alba. Era infatti un abbaiare forte, però meno doloroso del solito; pareva che perforasse l'aria girando dietro gli spigoli di sparse casette basse, a due piani con terrazze, più che tetti, in coronamento e un'aria trasandata ma anche familiare, coi colori di terre e colla che non usano più.

Raccolsero l'abbaìo poche persone deserte di percezioni e di affetti, che avevano trascorso le ultime ore a spiarsi a vicenda dietro le serrande e le persiane, ciascuna meravigliata della vita altrui e della volontà di partecipare ed essere partecipati, non stremata dalla tenaglia del sole. Il vicino precocemente avvizzito non conosceva l'altro, il corrispondente dell'appartamento più prossimo, come se anche gli affetti, in questo estremo lembo cittadino, si fossero da tempo prosciugati. Percorrevano i vialetti dei giardini, i marciapiedi, i solai, le stanze, in discinte tenute, ciabatte e mutandoni testimoni di scarse letizie. Udirono dunque l'abbaiare dei cani, senza però coglierne l'annunzio di un prossimo cambiamento, che pure ciascuno, in cuor suo e senza mostrarlo ad altri, desiderava da tempo.

Entrò nella stanza del figlio. C'era odore di tabacco rappreso, ma non era una novità. Il letto era rifatto alla meno peggio ma sembrava che non vi avesse dormito nessuno, nelle ultime ore. Tutto era nell'ordine, o nel disordine, usuale.  Ritornò in cucina, si accinse a prepararsi qualcosa da mangiare. Anche la cucina era abbastanza in ordine, aveva sistemato tutto lui stesso, la mattina prima di uscire, e nulla era stato toccato. Riempì una pentola con acqua già calda dallo scaldacqua, la pose sul fuoco. Si sarebbe fatto della pasta, in fretta: era stanco, avrebbe dormito un poco. Sedette al tavolo col piano di marmo, accese la televisione, si attardò un po' su un programma di giochi e quiz.

I cattivi pensieri! Li odiava. Li sentiva arrivare dal disagio che gli montava dentro e lo rendeva neghittoso. Erano un residuo non perfettamente vinto e rimosso della sua vita passata, di quando nutriva a volte rabbie sorde e volontà vendicative nei confronti di quanti gli procuravano, per caso, un intoppo che lo costringesse a pensare, o a darsi da fare. Da tempo se ne era liberato, fiero di potersi finalmente dedicare a un immaginario più importante, persino decisivo, riguardo alla vita e alle cose che le erano essenziali. E dunque, da dove veniva ora questo rigurgito?

Scoprì la ragione dell'inquietudine. Si trattava della ragazza. Era angustiato. Lei aveva rotto, qualunque cosa volesse fare, un equilibrio, rimesso in gioco i suoi rapporti con le cose. Non sapeva nemmeno dove cercarla. Chissà perché, ebbe la sensazione che la faccenda fosse più complicata di quanto appariva nell'immediato.  Cominciò a entrare in un'ansia precipitosa, come gli succedeva un tempo, quando da piccolo tardava da scuola o dalla partita con gli amici. Andò al telefono, fece il numero della sarta.

"Ah! Che c'è?" fece la donna, era ovviamente sorpresa. Non si telefonavano spesso, ciascuno aveva pudore delle sue faccende, non le confidava all'altro: il loro era un rapporto provvisorio, incredulo. Raccontò alla donna, brevemente, delle sue ansie. "E allora?" chiese la donna, con una certa diffidenza nella voce. "Tu che dici? Sarà successo qualcosa?" "Ma che t'importa, a te? E che vuoi che sia successo?", fece la donna. Aveva con lui quasi sempre una pazienza benevola, e anche questa volta assunse un'aria un po' protettiva. Riappese la cornetta, si sedette a riflettere. Ma si alzò subito, per andare a spegnere il fuoco sotto l'acqua che bolliva. Cercò le chiavi di casa, che mise nella tasca dei pantaloni, infilò la giacca, uscì tirandosi dietro con uno scatto la porta. Scese le scale lentamente, fu nell'androne e poi oltre la porta a vetri, per strada. Si incamminò, un po' a caso.

Doveva arrivare giù alla forra: vi aleggiavano ancora le grida, un sordo presentimento lo attirava laggiù, in quel lembo di paesaggio che lui conosceva solo dall'alto, nella luce del sole pomeridiano, o per l'oscuro fogliame che lo copriva. Dopo poco, la strada si fece deserta, isolata, cominciò a scendere mentre gli edifici diradavano. L'asfalto era sconnesso, spariva dopo un'ultima gobba, a un bordo era issato un cartello di lamiera slabbrata con la scritta: "Strada senza uscita". Una serpe, d'improvviso, si srotolò davanti a lui, un dieci metri più in là. "Allora non sono sparite. Non sono sparite – brontolò - come scrivono i giornali". Era la prima volta che vedeva una serpe in città. Ricordò cieli e terre della sua infanzia: "Qualcuno ti ammazzerà, a sassate".

Sapeva che il suo modo di camminare poteva far ridere, provava paura anche della sua ombra (che si contorce, quando il sole la tratteggia sul muro). Decise di andare ugualmente avanti, camminava perché le gambe si muovevano.  Spariti i prospetti pomposi, fiancheggiavano ora la strada palazzine e villette di una foggia antiquata, con gli intonaci scrostati, sui quali pezze di un color calce o rosso mattone si alternavano. Alle finestre vuote molte persiane erano aperte, in stanze in cui non appariva anima viva si scorgevano i lampadari pendenti dal soffitto, i mobili alti di legno scuro abbandonati al loro ordine disusato. Dinanzi ai portoni lumi di vetro colorato pendevano, allineati, fino ai cancelletti socchiusi sulla strada. Le balaustre, i vialetti, le aiole, erano densi di foglie della vite americana, come una sopita e calma festa. Dinanzi ai cancelli, automobili parcheggiate. Sul tettuccio di una di quelle, un gatto accovacciato, con gli occhi semichiusi.

Il vecchio pensò che davvero questa era una strada come ce ne sono poche, in città. Non ricordava di averla mai percorsa, ma gli sembrò di riconoscerla in minuzie, in dettagli infinitesimali. Ah, sì, anche lui aveva vissuto per anni in una via tutta di villette e palazzine come questa, con queste stesse fogge e quest'aria trasandata. Era passato tempo da quando l'aveva lasciata, il ricordo era tornato su come un risucchio sciamannato. Si fermò accanto alla macchina sulla quale il gatto se ne stava accovacciato pigramente. Si appoggiò al cofano, il gatto aprì gli occhi, si sollevò sulle zampe, si sgranchì sbadigliando, saltò giù e venne a strofinarglisi alla gamba.

Una strada proprio vecchia, "antica, anzi", si disse, e capì che proprio l'antico è sparito dalle città; l'antico, non il vecchio, che è differente. Provò uno struggimento ricordando quando da bambino, girando per strade sconosciute, avvertiva nell'aria qualcosa di strano e misterioso, e solo tardi, già grandicello, si era reso conto che quello struggimento gli veniva perché sentiva intorno, scopriva - in modo indefinito ma netto - l'antico: un aleggiare patetico, curioso ma gradevole, che da allora seppe poi sempre riconoscere, e sempre gli solleticava il naso, con ironia e affettuosa complicità. Tutto questo, l'antico, era adesso sparito: e tutto, come per vendetta, appariva invece vecchio, stinto e vile. Fu felice di avere riconosciuto quel gusto amabile, con le sue minuzie, i suoi infinitesimali dettagli. Da una porta si affacciò un volto che curiosò al vecchio.

La strada si interruppe di botto dopo una curva, dove una fila di grossi blocchi di cemento la sbarrava lasciando solo interstizi per passare oltre, però adesso in un sentiero stretto da acacie e robinie lebbrose. Oltre, il canneto frusciante, le sempiterne robinie spinose, i sambuchi; sulla destra, in alto, il paesaggio urbano - tetti, terrazzi, antenne televisive, lo scheletro nudo di un gasometro ritagliato contro il cielo - che vedeva anche dalla sua finestra e che si soffermò a guardare, stupito, da quella angolatura e distanza. Gli apparve immenso e solenne, sconosciuto, così vertiginosamente alto sullo strapiombo. Riprese a camminare nel terriccio, in mezzo a mucchi di rifiuti, scatolette, bottiglie di plastica verdognole. Poiché da tempo non aveva piovuto, la terra era attraversata da sottili cretti come una tela di ragno che si perdeva lì dove l'erba, a ciuffi, mezza gialla, comunque aveva resistito all'arsura. Si chiese cosa dovesse fare, a quel punto. Non era mai venuto, disceso, fin lì e se ne rammaricò.  Di dove potevano essere partite le grida? Si guardò attorno, dubbioso.

Il capannone, di lamiera ondulata, malmesso, con le finestre socchiuse e i vetri sfondati a sassate era separato dalla vegetazione da un muricciolo basso, con intorno ciuffi di verde cui non riuscì a dare un nome. All'angolo estremo del muricciolo un cancelletto di ferro, semiaperto. Il vecchio pensò di entrare per chiedere una indicazione, dove portasse il sentiero tra le robinie. Spalancò il cancelletto silenzioso, attraversò un praticello spampanato, salì i due gradini che conducevano alla porta. C'era un silenzio grande ma teso, non opprimente. Il vecchio si sentì anzi euforico, era solo un bambino che si appresta ad una marachella, che cerca di intrufolarsi in una casa abbandonata, forse per rubare forse solo per una curiosità un po' morbosa, per desiderio di una avventura strana. Suonò un campanello che funzionò una o due volte ma nessuno gli rispose, spinse il battente che si aprì lentamente davanti a lui. Cercò un interruttore della luce. Non lo trovò, la porta si chiuse alle sue spalle. Buio, silenzio, l'acuirsi dei sensi sollecitati. Provò, a tentoni, a cercare la maniglia della porta, dietro di sé. Il pollice sfiorò la fessura tra i battenti, ma la maniglia non c'era, né in alto né in basso, solo borchie e teste di chiodi e viti come se la serratura e la maniglia fossero solo all'esterno. Il legno era rugoso, sconnesso.

Aveva ora i polpastrelli impolverati, meno sensibili. Li leccò per pulirli, e nella bocca entrò un sapore dolciastro di vecchie vernici. Non era cattivo, i denti si legarono e la lingua si impastò, lui provò piacere a succhiarla. Si era distratto dalla sua paura di prima, ammise. Si appoggiò al muro con le mani incrociate dietro la schiena, i polpastrelli sfiorarono ancora la polvere sottile - quasi una cipria - che lo rivestiva.

In mezzo allo stanzone, il corpo della donna giaceva per metà sotto un lungo tavolo, solo la parte superiore del corpo ne sporgeva. Sembrava disarticolata, con braccia e gambe piegate in angoli casuali, un po' buffi, di danza sregolata. Si avvicinò, si chinò per guardare meglio. Sul fianco sinistro sotto il seno, un rigagnolo di sangue macchiava la camicetta di ordinario cotone, ma non si vedeva una ferita (né peraltro sul volto, né sul collo o sulle mani, o sulle parti del corpo scoperte). Sì, la stoffa pareva mangiata, lì, schiumosa del sangue già rappreso, un grumo scuro. Al vecchio, il cuore batteva strepitosamente mentre avvicinava gli occhi alla crosta sanguigna per rendersi conto meglio. Non riuscì a decifrare la situazione, provava ribrezzo all'idea di toccare il corpo, il sangue, la ferita sotto la stoffa impregnata. Una sorpresa  malefica.

Avrebbe voluto fuggire via. O, almeno, doveva chiedere aiuto a qualcuno. Alla sarta, pensò, perché il numero del figlio non lo aveva con sé. Cercò un telefono. Niente. Lo stanzone proseguiva in un lungo corridoio sul quale si aprivano due o tre porte slabbrate. In fondo al corridoio si scorgeva una scala che saliva girando ad angolo a destra. Si alzò, si incamminò sulle gambe legnose ad aprire le porte una dietro l'altra, lasciandole poi socchiuse: una stanza adibita a cucina, di quelle che si mettono su nei cantieri e nelle fabbriche disagiate e lontane, un cesso molto sporco, in un'altra stanza infine un lettino da campo senza materasso, la rete sfondata, giornali e scatolette per terra, cicche di una prevedibile solitudine. Una bicicletta da donna, nel corridoio, scrostata e senza una ruota. Un mazzo di scope. Un quadretto alla parete. Ma niente telefono, per quanto cercasse. Si avviò alla rampa di scale, pensando di salire al piano di sopra, ma non se la sentì, tanto il capannone appariva davvero deserto: e del resto era meglio non chiedere aiuto a nessuno, doveva capire da solo cosa fare. Da una delle finestre dello stanzone, dove si trovava di nuovo ora, guardò fuori. La breve radura era assolata. Uscire a chiedere aiuto. A chi? Tornò a guardare meglio la donna distesa a terra, metà sotto il tavolone.

Era bella, o sembrava tale. Era morta da non molto tempo, ne era sicuro: il corpo, gli abiti, gli oggetti intorno apparivano appena afflosciati. Era accaduto quello che sembra sempre impensabile, la donna era morta e non avrebbe più occupato, con i suoi gesti - che dovevano essere stati eleganti - lo spazio dello stanzone dove forse da viva si era mossa, con le sue grandi o piccole imprese. La borsetta aperta, spalancata, era poco distante dal corpo, e anche un sacchetto di plastica da cui uscivano cianfrusaglie, ninnoli colorati, un pacchetto di sigarette mezzo vuoto. Tutti oggetti che certo lei usava abitualmente e impregnati della sua personalità, del suo capriccio, adesso disponibili, indifesi al primo che volesse usarli e farli suoi. "Le eredità sono solo un vuoto, come questo, da riempire. C'è qualcosa di mostruoso, nell'avidità degli eredi. In un mondo come dico io – mormorò - gli oggetti di un morto dovrebbero essere bruciati, con lui. Tutto, a partire dal denaro”.

"Non ho paura di te", si disse, e guardò ancora alla donna. Gli pareva di avere una sorta di stralunata e mostruosa intimità con quel corpo ormai freddo. Fu fiero di essere lì, avrebbe proprio voluto vedere che qualcuno si avvicinasse: nessuno doveva ficcare il naso in quella faccenda. "No - si disse ancora - non ho paura di te né della tua morte. La tua morte, non molto differente dalla mia: perché qualcuno vorrà la mia morte; e io sono pronto a morire. Come questa donna. Insieme a questa donna, qui". Guardava quel corpo con una dolcezza disperata.

Aveva capito che la morte era una possibilità da quando - non da molto - si era reso conto di essere disponibile a tutto: proprio a tutto. Senza incertezze, residue inquietudini, remore di alcun genere. Era stato una sorta di risveglio (ma sospettò anche che fosse piuttosto un assopimento) come quando ci si accorge che la febbre, o il dolore, è passato e il dito, la mano, ha riacquistato l'articolazione. L'immaginazione della morte non lo aveva spaventato più, ecco tutto: molto semplice! Sapeva adesso che era una prossimità come, prima, l'aveva considerata un evento lontano, difficile e assurdo. Da allora tutto gli si era fatto più semplice. Se ne infischiò dei problemi, delle difficoltà che fino a quel giorno gli avevano inceppato i movimenti, gli avevano fatto supporre, sospettare che tra lui e i suoi propositi, od obiettivi, si frapponessero mille ostacoli, impacci a non finire, una selva di comandi e disposizioni avverse. Da oggi avrebbe fatto - pensò - quel che gli fosse passato per la mente: proprio come gli arrivava sul momento, senza preoccupazioni di sorta.

Scorse la pistola. Estranea, ormai inutile, incongrua, sul pavimento. La raccolse chinandosi a fatica sulle ginocchia improvvisamente tremanti, se la rigirò nella mano. Avrebbe voluto buttarla e nasconderla da qualche parte, per subito dimenticarla. Ma era impossibile, doveva occuparsene come di sé stesso. Si stupì mentre osservava svagatamente che gli uomini hanno bisogno di strumenti per compiere ogni piccola cosa, per realizzare il più insignificante dei desideri. Anche uccidere. Ma uccidere è il compimento di un desiderio enorme, impensabile.

Da giovane aveva letto con predilezione particolare, con gusto e con emozione da congiurato, pagine casuali di chissà quale filosofo antico. Lì per lì gli erano apparse una cabala dissennata; rileggendo ogni tanto nel tempo quelle pagine, conservate superstiziosamente tra i pochi suoi libri, aveva scoperto la profondità di un pensiero lapidario, apodittico, scandito; ma solo da poco poteva dire di avere proprio afferrato la qualità, i significati primi di quella geometria mentale, di quella architettura e universale macchina dell'anima, un edificio nitido e sopratutto necessario, la cui universalità gli appariva fuori discussione, a priori, per l'evidenza stessa del dettato che lo disegnava e, disegnandolo, lo poneva in essere. Dalla mirabile macchina scritta, il mondo degli eventi - che subito diventavano eventi interiori - era ordinato in un reticolo, perfetto, di simboli che tutti assieme si disponevano come il senso stesso dell'universo: proprio come è e deve per forza essere, pensò lui. Una volta, mentre rileggeva quelle pagine, gli erano tornati alla memoria i giorni, i fatidici tre giorni di clausura nella parrocchia, in preparazione alla cresima e alla prima comunione, quando il prete veniva spiegando, a lui e agli ragazzetti, il catechismo. Lui non capiva pressoché nulla delle formule ingessate, fatte di parole al di fuori della sua portata, ma si predispose alla fatale necessità di dover loro obbedire, in quel che significavano e in quello che non ne capiva, per tutto il resto della vita. Fuori della finestra della parrocchia, il cielo era azzurro e il verde dei rami frusciava sonoramente dandogli una acuta nostalgia della fuga, ma il ragazzino fu tristemente sicuro che avrebbe dovuto sempre scegliere, tra quel cielo e le formule del catechismo, queste ultime. Non c'era neppure la possibilità della scelta, anzi, e il prete faceva di tutto per avvertire che il solo pensiero di poter scegliere era e doveva essere considerato un peccato, il peccato imperdonabile. Negli occhi degli altri ragazzetti c'era la stessa atona fatalità. 

Le pagine del filosofo, tanti anni dopo, gli procurarono le stesse tristi emozioni. Era irretito dalla magia di un discorso dell'anima valido per tutti ed ovunque, e dunque anche per lui; che, già fortemente ispirato qual'era, si era premurato di regolamentare con zelo ogni passo della sua vita, per inseguire e rendere palpabili gli imperativi di quel sublime discorso: nei cui meandri potenza ed atto, impulso e conseguimento si seguivano in una erta scala di enti ed essenze disposti così concatenati che nessun gradino, nessun pianerottolo, perdesse mai solidità e tenuta né potesse essere messo in discussione, e tantomeno disordinato, intaccato. Poi, un giorno qualcosa era accaduto - ma che, un'alzata di spalle, un malumore, un respiro più profondo dinanzi alla finestra, una sbirciata al cielo imbronciato, chissà mai - ed era bastato perché dal suo cervello ed anima venisse spazzata via qualsiasi parvenza di ordine, di geometria, di salita o di scalata.  Dentro di sé non avvertì però né vuoto né mancanza né desiderio di sostituire qualcosa all'edificio crollato. Anzi provava, dentro, una nuova e strana pienezza, un calore, un soffocamento di spesso, di pesante, l'umidità densa di una grassa foresta primigenia, di un caos appena destato e sognante mentre la Città sprofondava, senza preavvertimenti inutili e indesiderati e come per capriccio, in un buio senza più nome, inesprimibile. Il nuovo senso di libertà non lo sgomentava che un po'; solo un lieve fastidio, come dell'indizio immanente e incombente che la vita era senza più oggetto e scopo e che il tumulto delle voglie, degli appetiti, delle emozioni lo conduceva ora ad esiti senza rassicurazioni edificanti: da esibire agli altri, all'esterno, nel caso di una delle tante richieste che quotidianamente ne provenivano.

Le ginocchia gli cedettero. Cadde sul gomito. Nell'allungarsi, sfiorò il braccio nudo. Era freddo e antico, chiuso in un tempo lontanissimo. Provò disgusto per la sensazione. Ma non si sgomentò, e si trovò supino a fianco a lei. Aveva cercato una vicinanza.

"E' incredibile, quanto sia difficile descrivere una faccia", pensò. "Tutte le facce ormai sono uguali. Come potrei descrivere questa faccia?" Scrutò il volto immobile al suo fianco, un profilo di gelida ferinità, quasiché la morte avesse scavato e deformato dai tratti l'umanità raccolta nel calore, nel tepore della pelle, delle vene e del sangue, lasciando al suo posto segni ancestrali e mostruosi, non più decifrabili: "Fra un giorno, o già fra un'ora, questa faccia sarà così cambiata che sarà impossibile raccontarla. Bisogna far presto!" Riscrutò il volto, cercò di fissarne nella memoria, ma prima ancora negli occhi, i tratti salienti. Il naso, per esempio, come poteva descriverlo? Era leggermente schiacciato, certo, ma con una grazia sottile e perversa, sopratutto perché incastonato su una faccia anch'essa piatta ed esibita, che non sfuggiva in rotondità, in sinuosità. Era - o meglio, era stata - brutta o bella? Se fosse stata viva, sarebbe stata, forse, bella o certamente attraente, almeno per i suoi gusti. E le labbra, la bocca? Adesso era un po' aperta: sembrava volesse respirare ancora. Certo era stata una bocca tumida - o turgida? - e umida. Infine, per raccontare tutta quella faccia, mancavano gli occhi. Chiusi, invisibili. Avrebbero giustificato, vivi, fattezze singolari che ora apparivano un po' pesanti ma che forse loro avrebbero arricchito con la loro suggestione? "E' proprio così, non è più possibile dirne qualcosa, esprimerla, raccontarla" si rassegnò.

La bellezza è sempre, essenzialmente, oscura.

"Che diamine! Se esistesse il paradiso, o l'inferno, o l'aldilà, quale volto avrebbe questa anima? Quello di quando era viva, o questo, che è lo stesso ma è infinitamente lontano da quello di prima? Che assurdità, l'anima. La sola cosa che si può dire, incontrovertibile, nemmeno più dolorosa ma incontrovertibile, è che questa donna è morta, e sta già dissolvendosi nello sfacelo della morte. Il tempo non parla di lei, ma di questo suo corpo informe, di questa marmorea illusione. Questa è l'unica cosa certa. Che disperazione, la morte. E' una porta chiusa che non si aprirà più, per quanto tu bussi, e non saprai mai cosa c'è lì dietro, dove tutto è buio e silenzioso.

Lo sguardo tornò a cadergli sulla pistola. "Capisco chi pensa che l'uomo disarmato è una nullità", si disse. D'improvviso pensò al figlio, anche lui possedeva un'arma. Come quella, pensò, raggelandosi.

La bellezza è una memoria desiderata, e dunque inappagata. La bellezza imita la memoria: direi la conserva, gelosamente. La bellezza giovanile, insomma la bellezza di questa donna, è una oscura felicità: ha a che fare col destino. Per questo (sospirò) è così fuggevole. Dilegua appena uno ha perduto la speranza di un destino, e si chiude su se stesso. Succede a tutti, più o meno, a un certo punto.

Una morte spogliata, depredata, scarnita.

Una conclusione, una ipotesi del tutto casuale gli spalancò una voragine di angoscia, un flusso di sangue gli salì alla testa. In un lampo, gli venne di pensare che forse la responsabilità del delitto poteva ricadere su suo figlio. Ma vedi un po'. Abbozzò un sorriso che gli uscì sarcastico. E perché no? I figli. cercano di sopraffarti, gli ingrati. Non ti riconoscono più, appena possono. Nascono come una violenza occasionale, sono sempre pronti a pretendere. Ma perdio! Beh!, suo figlio avrebbe ora sopportato di essere accusato del delitto.  Da lui, il padre, magari. Avrebbe fatto in modo che sapesse che questo era ciò che lui voleva, che lui aveva escogitato... E certamente, almeno questa volta, non si sarebbe sottratto al suo desiderio: era, almeno questa volta, un ordine. "Vorrei vedere che si ribellasse, l'ingrato".

...dove avrebbe piazzato la pistola per simulare, per rendere verosimile, la colpa del figlio? Tutto doveva apparire naturale, e la polizia messa nella condizione di seguire per filo e per segno i gesti, i movimenti, perfino le intenzioni dell'assassino, fino a eliminare la macchia della presunzione e sostituirla con una precisa, non scalfibile, certezza. Avrebbe dovuto seguire passo passo i sottili, capziosi ragionamenti, la ricostruzione che lui, insospettabile perché padre, avrebbe sdipanato dinanzi a loro come un rosso tappeto.

L'immaginazione gli lavorava accesa e crudele, nella ricostruzione di un possibile scenario. Conosceva troppo bene suo figlio per non arrivare a indovinare, prefigurare, ricostruire nei minimi particolari l'accaduto, precisamente come si era svolto o avrebbe dovuto svolgersi sulle tracce del suo racconto. L'immaginario si sarebbe saldato in una realtà spessa, indiscutibile e indistruttibile, avallata dalle parole e forse più dai silenzi di lui, il vecchio, il padre. Che così non faceva che riprendersi, dal figlio, tutto quello che gli aveva, in tanti anni, donato.

"Ma no, ti perdòno", borbottò e sentì che le labbra gli si arricciavano nel sorriso, amaro. Provò anche un effetto ristoratore, nella certezza che lo aveva finalmente in pugno, senza più resistenze.

Fece una smorfia. Quelle sue fantasticherie erano orribili, ma non riuscì a fermarle. Che orrore. Una parte di lui era intenta alla realtà fredda e tenace che lo assediava, un'altra parte si abbandonava tutta, ossessiva. Il gioco continuò a svolgere il gomitolo mostruoso. Accanto a lui c'era una terza figura, senza nome o volto, con cui parlava, cercandone l'attenzione: ma forse era lui stesso, sdoppiato, che osservava, dettava i pensieri, le mosse.

Quando si calmò, era tutto sudato. Era passato molto tempo. Uscì dal capannone, dirigendosi verso il ritaglio flebile di luce della porta. La notte era uno scudo astrale, poggiato sul cavo della forra: lontano, in alto, uscendo dal capannone, vedeva il profilo delle case, di casa sua, alto sulla collina. L'aria sbuffava portando riccioli di odori difficili a penetrare: il sambuco, la polvere, il sego rattrappito degli spurghi di animali, le infiorescenze secche, le foglie triturate: e il frinire di grilli, il tossicchiare di un roditore, un indistinto strisciare insidioso. Questa era la notte stellata, che di qui vedeva per la prima volta, senza il riverbero dei lampioni. E la donna, morta, dietro di lui, da cercare nel labirinto del capannone, buio anche esso, tranne che le toppe fosforescenti delle finestre. Provò un brivido di paura: non voleva più vederla, quella cosa là in terra.

“Nessuno saprà mai - non può saperlo, né capirlo, finché non lo prova lui stesso - quale è forse l'unica ragione d'essere di noi vecchi, cosa è che ci dà ancora forza, e forse è la nostra unica forza, quotidiana, segreta e terribile: batterci ogni giorno, ad ogni ora, contro la morte: anzi, meglio, contro il morire. Noi cominciamo a conoscerla a un certo momento, la vediamo salire, avvolgerci, e diventare essenziale, dominante.

“Invece è toccato a te, ragazza che nulla sapevi di questo, morire. La tua morte è immotivata, come si legge in quel tuo corpo che giace in disordine per terra: che ti è successo? Sei caduta? Rialzati, vieni a dirmi che è tutto un sogno”...

Tornare indietro, risalire la strada tortuosa e deserta, rivedere le facciate screpolate e stinte. Non era proprio possibile, si sentiva risoluto a non farlo: "Non torno indietro, no di certo. Chissà cosa mi aspetterebbe, lassù. Ho visto tutto, so tutto. Non sono mai tornato indietro, del resto, nella vita. Perché ora?"

“Giocherò con la mia forza. Con l'astuzia, proverò a mascherarla da debolezza. So come si fa, è stata sempre la mia migliore risorsa. Perché? Perché voglio sfidare gli altri, metterli alla prova, sollecitarli, sollecitarne il giudizio. Quando avrò accuratamente imparato a fingere che la mia forza sia, nelle manifestazioni, nei tratti visibili, nei segni lasciati e sparpagliati per ogni dove, null'altro che debolezza, una deplorevole debolezza, allora sarò pronto per la sfida.

O, più semplicemente (ma io solo debbo saperlo, a nessun altro sarà concesso di accorgersene) l'ironia, ironia portata al suo massimo prima che ricada nel grottesco, che odio. Virtuosismo, certo. Ed ho anche il premio per colui, o colei, che riuscirà a scoprire, a svelare, la verità della mia forza nascosta sotto il trucco, il mascheramento. Sì, il premio è pronto. Anche se temo, purtroppo, che nessuno si presenterà a ritirarlo”.

                        Roma, 2 novembre 1994, ore 4.30









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