LA SARTA
Non ha bisogno di bussare: lei dice, ogni volta, che lo sta
aspettando. Vorrà lusingarlo? Il vecchio deposita, sul tavolo in mezzo alla
stanza, il qualcosa che ha comperato per lei da mangiare (o da bere) secondo i
giorni, scambia con la donna qualche parola sul tempo, si informa sui clienti
venuti, infine si cala a sedere davanti alla televisione. Lei, la sarta, fa
osservazioni su chi è venuto oggi o sui soldi che mancano, i prezzi che rincarano. Lui taglia corto:
"Va bene, ma parliamone dopo". Si immerge nella televisione. Aspetta,
o forse solo lascia che il tempo scorra. Lei finisce un lavoretto, cuce un po'
sulla singer, fodere per giacche o pantaloni, un paltò da stringere o da
allargare, a seconda (ma le stagioni arrivano nel suo bugigattolo rovesciate,
d'inverno i vestiti da sistemare sono leggeri, d'estate sono di lana, pesanti,
felpati).
Poi la sera fa stingere le luci di fuori, lei accende la lampadina
che pende nuda dal soffitto della stanza dove lavora, va nell'altra dove, dalla
porta sempre semiaperta, si intravede un grande letto di metallo con borchie
lucide come oro e rivestito di una coperta di raso appena stinta, si chiude la
porta alle spalle. Si attarda qualche minuto, ne esce avvolta in una vestaglia
scura. E' pettinata. Dice: "Ti faccio il caffè", e va nella cucina.
L'uomo si rigira nel letto, rassetta le coperte che odorano di un
odore usato, che lui trova straordinario. La donna sospira e respira
leggermente. Il suo corpo pesa, occupando spazio eccessivo. Ma la mano di lui
scorre su una pelle delicata, tesa sotto il velo di sudore, una cosa spessa e
ricca, sorprendentemente. L'età ha appena scalfito l'ombra della grazia, che su
di lei alitava quando era giovane. Il vecchio si lascia andare ad antiche e
vertiginose dolcezze. Indugia, cincischia l'emozione che lo assale.
Sono, tutti e due, come bambini alla loro prima volta. Dopo,
restano sconcertati, vergognosi. Nel buio, i loro respiri si sommano in modo
soffice ed umile. Giacciono torpidamente, talvolta si addormentano per
svegliarsi quando la notte è fonda, ed è restata accesa la luce nell'altra
stanza, che intanto è divenuta fredda.
Al campo delle bocce, in parrocchia, i pensionati e i giocatori
bevono coca cola o birra. Le vespe si inabissano zampettando nei bicchieri,
tanto poco quelli bevono e il liquido ristagna e si scalda torbidamente.
Nessuno chiede il conto, il denaro cade, seguito da uno sguardo casuale, in
larghi vassoi di latta decorati. Nel cortile di fianco al campo di gioco c'è ombra,
attraversata lentamente dai due o tre preti arrivati a dire la messa, a
confessare, a occuparsi dei circoli giovanili. I giocatori saltellano sulla
pista di terra rossa, a maniche rimboccate anche d'inverno, calzando scarpette
di tela bianche o blu, l'occhio intento e un grido che scoppia sulla picchiata,
accolta dall'ovazione degli astanti: lo schiocco alacre, il rimbalzo sul
tavolato fanno parte del paesaggio di rumori consueti e dunque liberatori.
Qualcuno segnerà il punto guadagnato facendo ruotare le lancette di un
quadrante giallo invaso da una scritta pubblicitaria. Quando la lancetta sale
verso lo zenit assomiglia a un lungo dito ammonitore, come ad avvertire che il
tempo della grande e definitiva partita sta per scadere. Per questo, al vecchio
non piace andare troppo spesso alle bocce della parrocchia, e quando vede la
lancetta avvicinarsi minacciosa sul mezzogiorno si alza e precipitosamente se
ne va.
Il parco pubblico gli piace di più. E' frequentato da gente
variopinta - non solo pensionati giocatori di bocce - che coltiva una sua
complicità quotidiana. Il parco è dietro il mercato, e ci sono soprattutto
madri e bambini a passeggiare nei viali polverosi o semplicemente a dilapidare,
con le borse e i carrelli rigonfi accanto alla panchina, i minuti della sosta
tra un acquisto e l'altro, tra i banchi della frutta e dell'usato. Ci sono
anche sfaccendati che non si capisce cosa facciano, in quel posto. Pare abbiano
un appuntamento importante e imprescrittibile, siedono con la testa piegata da
una parte ad afferrare il rumore del passo di chi dovrà giungere a portare il
messaggio, la missiva. Anche quando, dopo un po' di tempo, non un'anima si fa
viva, attorno a loro aleggia l'atmosfera scostante dell'attesa. Il vecchio
guarda quelli addormentati sulle panchine di legno, con meraviglia. Alcuni
hanno la sua età, più o meno, e lui è indeciso se appaiano più vecchi o più
giovani di lui. Una volta si è portato apposta in tasca uno specchietto da
toletta, ha avvicinato la faccia a quella di un vecchio dormiente con la testa
grigia sul braccio piegato, ha scrutato le due immagini affratellate. Il volto
dello sconosciuto era scavato, la pelle era verrucosa. Non ha fatto in tempo a
completare l'ispezione, quello si è svegliato come sotto un presentimento e gli
ha aperto addosso l'occhio interrogativo, sibilando tra le gengive: così è
dovuto scappare, inseguito dallo sguardo malevolo.
Lei si girò dalla sua parte, aprì la coperta che sfiatò via il
calore greve raccolto, si sedette sulla sponda, infilò i piedi nelle pantofole
lise, si attorcigliò i lunghi capelli in crocchia.
Da giovani amarono la donna ideale, l'ideale della donna; da
vecchi sono capaci di spogliare una donna con il piacere ridondante, e lento,
di assaporare, toccare ogni pezzo del suo corpo, e tanto più quanto più
impregnato di odori, di effluvi, di acidi e di sapori. Strano, alla sua età,
pensa con un po' di risentimento. Ma la carnalità del giovane! Sentita come
vizio e colpa, che l'educazione e alcuni chimismi non ancora sviluppati impediscono
al giovane di afferrare e godere completamente. Provvede al loro posto la
rapidissima fantasia, il gusto del proibito e del morboso, eccetera. Nel
vecchio, però, la carne è forse davvero innocente, alla fin fine - sogghignò -
con il suo gusto e il suo sapore, il suo odore molteplice: che no, non è più
sporco, alla fine, e non c'è più bisogno di profumi, anzi... Anzi, forse quel
suo greve odore è ora la spezie necessaria e indispensabile al godimento pieno.
La carne non ha più trasparenze e luminosità. Straborda in tutta la sua
oscurità: ma che straordinaria, tarda scoperta, che tutta intera l'essenza di
amare sia in questo piacere della carne.
La strada è trafficata, di palazzoni rossi con finestre protette
da timpani triangolari o ad arco, alternati, e al primo piano balconi
trascurati. Al pianterreno, negozi che da trent'anni sono lì, e gli pare di
ricordare che, da ragazzo, aveva curiosato in quelle stesse vetrine: ma sì,
anche il cinema di allora. I manifesti: un film-varietà, con immagini di donne che
si sporgono a provocare il passante da sotto tendine di perline colorate e
piume sulla testa; e dietro, ammiccante, il volto glabro del comico, evocatore
della mossa. Quel volto sconosciuto del poster
lo mette a disagio: fa un passo o due indietro, per insistervi ancora su
con gli occhi flebili. Vuole che il suo sguardo sia critico, critico delle
ballerinette esposte all' ammirazione o al desiderio, occhieggianti in quella
che appare una hall deserta dallo sfondo di marmo, o finto marmo. Una delle
figurette gli provoca un flusso sensuale, come se fosse ancora il ragazzo di
allora. Gira lo sguardo a cercare la targa stradale, quasi una lastra
cimiteriale. "Non intitoleranno mai strade a un attore comico", pensa
dubbioso dopo aver decifrato le lettere stinte.
Eppure, continuò sul filo di pensieri che se ne andavano un po'
per conto loro, era costretto, irresistibilmente costretto, a desiderare.
Questo era ancora più strano. "Il desiderio - avvertiva con meraviglia -
il desiderio della cosa più piccola e semplice, della cosa più ovvia, ora ti
mette faccia a faccia con l'impossibile".
Lo aveva scoperto da poco. “Ma è anche la cosa più amara”. Sì,
l'impossibile era tutto il risultato che gli fosse riuscito a toccare, da
qualche tempo
Il vecchio conosce la sarta da un paio di anni. Due o tre volte al
mese si corica accanto a lei, nel letto dal quale lei toglie, piegandola
accuratamente, la coltre di raso. Lui le chiede, ogni tanto: “Che pensi?”, e
lei gli dice un “niente” sbiadito. Forse nei suoi occhi si è aggricciato un
ricordo qualsiasi dell'altro suo uomo, il marito morto che guarda dalle
fotografie sul comò; senza che lei se ne curi, di solito, quando va in giro e a
volte si stupisce di quel volto di tre quarti e si chiede se davvero quell'uomo
sia stato qualcosa, allora, per lei. In questi momenti, un lampo buio scende
fin dentro le sue viscere. Le palpita il cuore senza che sappia perché. E
perché ha accettato che questo vecchio, tempo fa, le prendesse la mano e la
portasse lentamente, turbato, sulla sponda del suo letto? Non lo ama, non
desidera certo il suo corpo. Non le piace fare l'amore con quest'uomo. Non le
sono piaciuti i piccoli regali che lui le ha portato, volta dietro volta,
lasciandoli sul tavolo tondo, una bottiglia di vino rosso che sotto la luce
sembrava un velluto sfocato, un grosso dolce lievemente sfatto, ninnoli,
perfino una bambola con gli occhi mobili e azzurri. Perché una bambola? Corruga
ancora le palpebre, nello sforzo di capire. L'uomo è stato gentile, qualche
volta anche caro. Ha preso confidenza di lei, se lo ritrova ora nella casa,
quando viene, come se vivesse lì da sempre, con un agio che in lui pare
naturale ma che a lei fa ancora senso, la turba.
Lei diceva: “Ora va via”. Lui insisteva per restare, si
gingillava. Prendeva in mano la foto del incorniciata del marito, se la girava
tra le dita. A lei sembrava che un sorriso soddisfatto sfiorasse allora il
volto e le labbra del vecchio mentre di nuovo si allungava sulla poltrona,
davanti alla televisione. Questo sospetto la faceva irritare. Lo abbandonava in
spirito e si ritirava su una sedia in cucina, o a preparare del cibo: “Allora
resti? Vuoi cenare con me?” “No, no. Assolutamente no. Resto un poco, ma non a
cena; me ne vado, non dubitare. Non voglio darti fastidio”.
“E' così?” “E' così, assolutamente”. Ogni volta era stupita.
Ma la sarta sospettava che il vecchio non volesse restare per non
essere obbligato con lei nelle misure del quotidiano, della familiarità.
C'erano gesti che lui non voleva condividere, lei lo aveva notato: il vecchio
si sottraeva bruscamente a certi momenti, quando l'uso cominciava a rendere
facili, leggeri, i rapporti, e poteva instaurarsi una sottile accattivante
atmosfera; come se, con l'accettarli e ripeterli (sopratutto ripeterli) potesse
temere di essere catturato e legato a lei, a quella casa.
Borbottò, come solo i vecchi sanno borbottare quando sentono che
le cose intorno gli sfuggono e loro non vogliono lasciarle andar via, anche se
gli sono inutili e non saprebbero cosa farsene. Perché i vecchi sono
prepotenti. Scosse la testa che teneva rasata, la pelle del cranio rosea. Con
la sua mimica sembrava cercasse, o meglio dipingesse, un personale
interlocutore cui rivolgersi. I vecchi vogliono parlare, promuovere grandi e
insospettati progetti, ma sono gelosi e raccontano queste cose solo a se
stessi, o ad amici fidati che però non hanno. Intorno c'era un grande silenzio,
e il vecchio provò a romperlo: temeva ci fosse una congiura ai suoi danni.
Perché anche questo sono i vecchi: che immaginano sempre congiure
a loro danno. Si sentono, e sono, esclusi, e questo li offende. Loro, cui si è
fatta palese l'inutilità di certe cose, vengono accantonati da chi ancora dà
importanza all'avidità delle incombenze "e dunque alla stupidaggine dei
comportamenti, certo", rifletté. I comportamenti; da tempo li aveva
dismessi e si lasciava andare alle occasioni, all'occasione come gli si
presentava di momento in momento. Qualche volta, così, si sentiva libero, ma
per puntiglio non voleva cedere a chi mostrava, nei suoi confronti, noncuranza.
"Solo i vecchi sanno davvero decidere", pensò, o forse disse. Siccome
non c'era nessuno, vicino, non fu proprio sicuro di aver parlato, anche se
soffiava tra le labbra. "Non è vero che sono i giovani ad essere rapidi,
ad essere decisi. Loro hanno tante cose da calcolare, e ogni loro decisione è
fatta di mille rimuginamenti, di opportunismi. Devono far così, del resto. Ma a
volte piangono, quando debbono decidere, quando sono costretti a
decidere". Sporse il petto confidenzialmente verso l'interlocutore
immaginario, che ora gli si era affiancato, complice: "Noi, invece, non
abbiamo paura di niente, vero? E non è nemmeno una cosa triste". Non poté
negare, tuttavia, di sentirsi inquieto. Era rientrato da poco in casa, precipitosamente,
con un qualche affanno dentro il petto. Non sapeva precisamente cosa gli fosse
successo, pur avendoci pensato su abbastanza.
"La vecchiaia tiene la vita raccolta in pugno". Ma chi
lo ha detto? Chi lo dice? Dove l'ho letto? Non è così, no. I nonvecchi pensano
che la vecchiaia tenga la vita così (e serrò con forza le dita una sull'altra)
tutta raccolta - memorie, sensazioni, eccetera - dentro il pugno. Pensano che
la vecchiaia, insomma, sia come uno scrigno, un cassetto, o un libro, nel quale
sia tutto conservato, raccolto o scritto in bell'ordine, come una biancheria
riposta, che basta volerla e la ritrovi lì, magari profumata, piegata e
rassettata, comunque. Non è così, proprio, la vecchiaia apre la mano e dentro
non c'è nulla, o forse un mucchietto di cenere che si sbriciola sfarinando dal
palmo, soffiata via da un baffo di vento. La vecchiaia è un gran vuoto. Il
ricordo - che è la sostanza del vivere, la durata, la molla che urge dentro,
dolorosamente o gioiosamente, e ti spinge a muoverti, a fare, e ti fa essere
quello che sei, te stesso - ecco che si sfalda anche questo, e si annulla. E'
labile, se non lo tieni serrato, e tu lo tieni serrato solo quando sei in forze
per fare, per utilizzarlo, per vivere e desiderare, per esempio. Quando tutto
questo cade, cade anche il ricordo. Uno, il vecchio insomma, non ricorda più;
semplicemente, perché non gli serve più.
Dubitava, ma volle reagire. Drizzò la testa con un fiero cipiglio
sul volto. Disse:
"No, sono io che ho scacciato via i ricordi, tutti, e l'ho
fatto apposta. I ricordi mi sono perfettamente inutili, ormai. Ho imparato che
nessuno trova un motivo per compatirti, a una certa età. Per qualche anno ho
aspettato che le mie parole suscitassero attenzione, un po' di attenzione. Mi
sforzavo di parteciparli con gli altri, i miei ricordi. Pensavo sarebbero stati
utili: a qualcuno, se non a me. E invece, una delusione. Nessuno voleva
saperne. Anzi. Erano fastidiosi. La gente mi ha sfuggito, finché non ho capito
che dovevo smetterla. Da allora, non ho ricordato più nulla. Uno ricorda come
un'ossessione. Come - sono sicuro - per vendicarsi. Ma se questo diventa
inutile, meglio disfarsene via. Chi vuole vivere ancora, non vuole
ricordare.
La gozzoviglia del sole, che arde le cose, le liquefà e le
dissolve definitivamente, lo coglie impreparato. I giorni si sono consumati
via. Era rientrato quando la notte era tutta bruciata, ed era restato sveglio,
accarezzato da un venticello venuto su a refoli dal cuore dell'alba pallida,
percorsa da barbagli luminosi all'orizzonte. Poi la luce aveva sibilato dentro
la gola di un merlo, saltellante in ovattati, deserti giardini. Allora era
riuscito a fare, a formulare qualche progetto. Bisogna scuotersi, vincere
l'inerzia: "Noi vecchi dobbiamo aver fretta, se vogliamo esistere."
Si sforzò a sillabare, nel silenzio: "No, la carne, per il
vecchio, non ha piu' trasparenze e luminosità, ma solo grevezza. E sì, il
vecchio che ama la carne appare vizioso, e forse si comporta da vizioso. Così
lo vedono gli altri. Pare che questo piacere del vecchio per la carne fatta
pesante sia inconfessabile. Però, che importa? Appaia pure vizioso, si comporti
da vizioso. Come si chiamava il re biblico - non ricordò il nome - al quale le
guardie devono cercare e portare una fanciulla morbida e appetitosa
(l'aggettivo gli venne spontaneo, e lo stupì perché non ci aveva pensato, ma lo
trovò adeguato perché gli rendeva l'episodio, con l'aspetto del mangiare e del
suo piacere, che gli riempì il palato di saliva). Bella storia - si compiacque
con se stesso - che la dice lunga sul rapporto che c'è tra il vecchio e la
carne, questa scoperta tarda e innocente (e quindi, per converso, viziosa,
ammise)”.
..."c'è
qualcosa di terribile e squassante in questo compimento, che dà il senso vero
dell'ultimativo, qualcosa di irrinunciabile, ormai. E' la scoperta che abolisce
le metafore, non le tollera più perché tutte sono divenute insufficienti. Ma
come ci si arriva?" Avvertiva che deve essere un processo necessario,
legato a un percorso non controllabile se non al negativo, nel senso che se ne
può impedire lo sviluppo e il completamento ma non indirizzarlo. "Insomma,
costui sembra conoscere bene i meccanismi che occorrono per godere, provare
piacere, e ha i mezzi per compiacervi; però la loro conoscenza diretta anche per
lui è peccato, fonte di dolore, di frustrazione, di orrore. Quel re, un re
della Bibbia mi pare (ma come si chiama?), comanda che gli venga portato
davanti un corpo che, se non fosse re, non ci arriverebbe mai, se lo
sognerebbe. Come me", sospira.
Il viavai incessante dei frequentatori aveva contribuito al
degrado dei viali e delle aiole, dimenticate dal Comune e scolorite in uno
spento giallo.
Il vecchio si sedeva, quando tutte le panchine erano occupate,
sulle recinzioni delle aiole, fatte di tronchi sottili, legati in croce
all'altezza del ginocchio. Molti erano stati divelti, ma dove resistevano la
corteccia se ne era ugualmente andata lasciando il legno vivo, come un antico e
nobile mobilio nel tempo. Gli piaceva sedere su queste sbarre tonde sentendone
sotto la mano la pelle fine: una delle poche cose gradevoli e sopportabili
mentre tutto, intorno, veniva incessantemente logorato, spostato, cambiato,
sostituito con pezzi, con materiale nuovo, volgare e dozzinale.
"Purtroppo, questo succede, oggi!" aveva commentato, rivolto a un
vicino di panchina. Ma sapeva di aver detto una bugia, e ne restò male tutto il
resto del giorno. I vecchi devono sempre fare questa spaccatura del tempo: di
là quello scomparso, il tempo buono, di qua il tempo di oggi, brutto e
inquinato. Ma, infine, il parco gli piaceva per questi inconvenienti. Lo
incuriosivano, e forse lo eccitavano.
Di che cosa chiacchierano? Di che cosa debbono, quasi
ineluttabilmente, parlottare? Non sa. Non c'è un argomento fisso. Non c'è
attualità così importante, disastro o diluvio, da trattenere per più di un
momento l'attenzione determinata, la gravità di un giudizio, la passione di una
scelta. Ma le voci con cui percorrono e lacerano le inesistenti questioni, voci
maschili e femminili, sono di una qualità che le accomuna e le fa somiglianti:
quella di essere, tutte, in eccesso. Eccessive, nel tono e nel ritmo.
Era
vestita in un due pezzi, la gonna bianco-lacca si apriva davanti mostrando la
coscia sopra il ginocchio; la camicetta, di un crema sporco, decorata con
roselline stampate e un fiocco appeso sul seno sinistro, le maniche corte. Si
era seduta alla sua panchina, all'altra estremità. Si mise a sfogliare una
rivista femminile che aveva con sé, indugiava sulle fotografie di modelle in
costume da bagno a fiori, grandi e vivaci, in pose flessuose. A un tratto si girò, indicò al vecchio un
modello: "Questo mi andrebbe bene per il campeggio", disse, e rise.
Si lasciò andare, sembrava naturale, ad esporgli un suo problema. Voleva fare
la ballerina, continuando gli studi intrapresi, e insieme aveva paura di tale
scelta che non le dava - così almeno lei dubitava - certezze. Non sarebbe mai
stata una brava ballerina, lei lo sapeva; niente carriera, solo modeste
prospettive di insegnamento: questo destino comunque l'appagava, si contentava,
lo preferiva ad altri pur vagheggiati, era disposta ad affrontare i necessari
sacrifici. Gli parve che fosse intenta a organizzare un piccolo repertorio di
bugie, o meglio di frivolezze, da utilizzare e largheggiare in ogni caso, per
rispondere ad ogni domanda indiscreta e vagabonda. "Hai famiglia?”,
chiese. “Mio padre”. E che ne pensa, lui?”. “ E' d'accordo”, annuiva a se
stessa, pensosa. "E il tuo ragazzo? Perché, certo, tu hai un ragazzo”,
chiese con una punta di stizza. “Oh, lui fa un sacco di storie". “E te ne
importa?" "No, nulla. Non mi importa nulla di quello che pensa mio
padre ma nemmeno delle delusioni del mio
ragazzo". Lo fissa con occhi ironici. " E allora di che ti
preoccupi?" " Boh, non lo so”. “La mia domanda è stupida? Forse sono
indecente, non so." "Ma che vuoi dire?". Lui insisté. “Non
dovrei chiederti cose così”. “Boh, non lo so".
Si stizzì. Ogni volta che toccava, o credeva di
toccare, la bellezza, questa gli sfuggiva, gli diventava irraggiungibile. O
forse l'egoismo rende anchilosato, intirizzito, un vecchio, come il freddo. Lo
punse anche un pizzico di gelosia, perché la ragazza era arrivata già, così
giovane, lontano, lì dove lui era appena approdato da vecchio, tardi.
La mattina dopo era stata difficile. Si era
svegliato prima dell'alba, e aveva pensato che era un'orribile nuova giornata.
Si era fatto forza, voleva convincersi a viverla. Gli era costato uno sforzo
grandissimo. Aveva soggiunto, per farsi ancor più coraggio: "Che debolezza!
Ma cosa posso farci? I sentimenti ti assalgono all'improvviso, non si
comandano, è proprio vero. I sentimenti, la passione...". Poi aveva
concluso:" Sciocco, alzati. Che debolezza. Non cascarci più".
Rabbrividì. Aveva intravisto il volto di lei nei geroglifici del muro. Non
aveva osato immaginare più oltre, se lo era proibito, perché sapeva che da quel
momento l'immaginazione lo avrebbe perseguitato. "Aspetterò al varco tutte
le immagini di lei - aveva concluso ad alta voce: "Tutte, ad una ad una,
con la loro amarezza". Si ripromise di non uscire, per l'intera giornata,
e di restare lì, solo: "Non so chi sei, dunque non posso raccontarti. In
questa solitudine, e solo in questa solitudine, mi appartieni".
“Arrendersi? Nulla di più naturale, come
dell'animale davanti alla morte, finalmente. La medicina non può ottenere
questo, ma non vi riesce nemmeno la religione. Come è primitivo, l'uomo, in
fondo”. Si inebriò quasi fosse, la sua,
una scoperta inaudita, mentre continuava, piano: “Davvero, tutto è accaduto. E tutto
è stato già detto. Ormai si deve, o si può, solo tornare, tornare indietro, a
quello che è già accaduto. Però, è sempre difficile riconoscere quanto è
successo; riscoprire le cose, una fatica indicibile”. Dopo averci ripensato un
po': “Ma sono contento che mi accada questo: non capita a tutti, ne sono
sicuro. Ci sono arrivato, io. Dovrò ringraziarne qualcuno?”
Non aveva cambiato qualcosa, stamattina, anche la moglie del
vinaio, coi suoi capelli rossi tinti? Anche lei, che solo due mesi fa aveva
subito l'operazione di asportazione dell'utero per un fibroma. Isterectomia:
aveva appreso l'orribile nome tecnico allora - non lo conosceva, prima, e aveva
scoperto che, per le donne, esso significava fine della gioventù, della
maturità, della stessa femminilità, e inizio della vecchiaia; ma sì, ogni donna
piange la perdita, l'asportazione, anche se i ginecologi cercano di convincerla
del contrario. Non ottengono ragione, loro, quanto invece l'antica paura.
Ma certo! Stamattina la moglie del vinaio è cambiata. Ha fatto
arricciare e arruffare dal parrucchiere i rossi capelli che adesso stanno
dritti, fieri, pieni di vita; e lei sorride in altro modo, da un altro mondo.
"Buongiorno".
"Buongiorno, signora. Che meraviglia!"
"Dio mio, e di che cosa?"
"Del suo splendore, signora, mi permetta. Lei oggi è davvero
bellissima".
Dovrebbe vergognarsi, il giorno prima si sarebbe vergognato, oggi
no, oggi non si vergogna della fatuità, ha seguito l'impulso e basta. Lei lo
guarda imbarazzata, per dieci anni hanno solo scambiato un buongiorno o
buonasera distratto, oggi lui se ne esce con un complimento sgargiante. E poco
prima non si è trattenuto dal buttare l'occhio sulla commessa del parrucchiere
che gli è passata davanti.
Ha avuto un altro impulso irresistibile sfogliando i giornali
comprati all'edicola sotto casa, come ogni mattina. Mentre si scaldava il
secondo caffè, ha scritto una lettera a un vecchio amico, uno che gli ha fatto
anni prima uno sgarbo feroce si cui lui si è arrovellato a lungo. Ha letto
dunque sul giornale qualcosa che riguardava costui, o almeno lo richiamava con
la suggestione di un cognome stampato, chissà a che proposito e chissà se con
riferimento proprio all'odiato. Obbedendo all'impulso (nutrito di sarcasmo
grottesco) ha preso una busta da lettera, vi ha inserito il ritaglio, ha
aggiunto a matita: “Il tuo cognome. Perché?” ed è subito uscito ad imbucare. Un
dispetto, un po' sciocco: ma oggi si perdòna, si compace anzi con se stesso.
“Buon giorno, buongiorno a tutti e a tutto, io ho appetito, un buon
appetito vorace. Ho finalmente fame - anzi, sono avido, insaziabile. Ieri sera
ha piovuto, ha sgrullato acqua dappertutto, anche in casa è penetrata, e
stamattina le foglie della vite americana che fanno pergolato sulla terrazzina
sono rosse, d'un cinabro intenso e roco. Come è bella questa stagione. Ma mette
paura”... Si prende il volto tra le mani, sgomento. Non sa più cosa farà, che
cosa gli succederà. Ha orrore di questa nuova fuga degli impulsi che se ne
vanno dove vogliono e come vogliono, senza che lui possa trattenerli,
governarli saggiamente. E' questa sensazione di carte mescolate e irridenti che
gli fa pensare, oggi, alla morte. La morte è vicina, come non pensarci, non
pensarci sempre? La vita è lo sdipanarsi continuo e inflessibile di comandi,
prescrizioni, obblighi che tutti, fin da bambino, ti inculcano e ripetono
ossessivamente. La morte, quando arriva, sembra chiedere un perdono impacciato,
sembra chiedere scusa per aver interrotto lo scandire dei comandi, degli
ordini, delle prescrizioni in un punto non predeterminato, non contrattato,
disordinando un cammino vitale proteso ad adempiere quotidiani ferrei
condizionamenti, millimetriche disposizioni. Ma la morte è anche liberazione.
Dopotutto...
Questo vecchio - che mi ossessiona, lo ammetto - vive in una
periferia lungo gli strapiombi della città, sotto ai quali passa il traffico
della nuova tangenziale, sopraelevata tra macchie di acacie spinose e sambuchi.
Il caseggiato è piantato su piloni in cemento armato. "Un giorno o l'altro
verrà giù tutto", aveva pensato una volta, battendo col dorso della mano
sul giornale con la foto della zona, le palafitte di cemento e un paio di punti
esclamativi di sdegno: ma in quel momento lì non c'era nessuno a raccogliere il
suo malumore, a replicargli, e il silenzio mise a disagio il vecchio - tra i
piloni il vento caracolla, d'estate le vampate di sole si insinuano e si
spezzano sui pavimenti del pianoterra (che in verità, rispetto alla strada, è
ancora un seminterrato e bisogna scendere cinque o sei gradini per entrare, ma
dall'altra parte spalanca le finestre sullo sdirupo vertiginoso). Lì in basso,
dietro le siepi, sospettava si svolgessero loschi traffici, di prostitute,
forse anche di omosessuali. Quando il
vecchio se ne stava in ozio sul terrazzino, scaldandosi al sole, sentiva salire
le voci. Grida violente, schiamazzi scurrili, un
dissiparsi di voci alterne, quasi sempre senza volto, almeno dall'alto, da dove
stava lui, sul terrazzino.
Al vecchio, questa condizione dà insicurezza, non
piace. Vorrebbe abitare in una casa di uno o due piani, al massimo, con un
giardino col fico. Legge sul giornale gli annunci economici degli affittasi.
Insieme, però, ai necrologi dove spesso gli capita di trovare il nome di un
tale che ha conosciuto tanti anni prima, o di cui aveva sentito fare il nome da
qualche parte, per qualche fatto importante poi dimenticato; cosicché quando lo
legge solleva gli occhi, soprappensiero, e soffia tra le labbra perché un altro
pezzo della sua memoria se ne è andato. "Sì, accadde così, ed era un
pomeriggio d'estate; no, era autunno, le foglie secche scricchiolavano, e
quello lì...certo...proprio lui: o, almeno, mi pare". Ma dubitosamente,
lasciandolo un poco più solo.
La sua aspettativa viene ogni volta delusa, non
c'è mai un annuncio che possa andar bene: la casa o è troppo lontana o costa
troppo, e questo è il caso più frequente naturalmente perché la pensione non
gli permette molto e anzi a volte lo lascia a secco già a metà mese. Lui
insiste e la ricerca sul giornale è il momento più importante della giornata,
che per il resto trascorre in silenziosa nevrastenia. Che fa, il vecchio?
"Noi vecchi vegetiamo", dice a se stesso.
In casa, aveva anche il figlio. Faceva la guardia
giurata, sorvegliava banche, uffici, per una società specializzata, lavorava
spesso di notte, in lunghi turni che però non lo sfinivano, e il vecchio
provava segreta invidia per il ragazzo che era capace di rientrare la mattina
tardi, sciacquarsi la faccia, bere un caffè in piedi in cucina, cambiarsi la
camicia e uscire di nuovo, dicendo :"Torno per pranzo." "Hai
bisogno di niente?", lui gli faceva, e si accorgeva di avere una voce
supplichevole di cui si doleva senza poterci, però, porre rimedio. Altre volte,
il vecchio sentiva, a notte fonda, che il figlio rientrava con qualcuno, o
meglio con qualcuna. Passavano nel salotto, poi bussava alla stanza dove lui,
il padre, stava ancora a leggere il giornale con la luce bassa accesa, e
diceva: "Non venire di là". Nella casa scendeva allora un silenzio
assoluto. Il vecchio restava seduto alla poltrona, al buio, guardando fuori
della finestra, la strada illuminata dai lampioni. Sospirava, borbottava, poi
diceva :"Ma io non voglio morire".
La mattina dopo,
quando si alzava, tardi (lo faceva apposta), i due erano già usciti. Lo stupiva
che non ridessero mai, che non cantassero, non chiacchierassero. Non parevano
giovani. Nella casa aleggiava allora un forte odore, sempre diverso. Il vecchio
apriva le finestre, spalancate, poi usciva preso da una leggera nausea e faceva
una delle sue passeggiate, al parco o al gioco delle bocce. Si chinava a
raccogliere cicche per la strada, le apriva e le mescolava assieme dentro un
foglio di giornale. Il figlio lo avrebbe certo rimproverato, ma a lui piaceva
quell'idea, che lo isolava dal figlio e dalla gente che non capiva quanto fosse
buono il tabacco così recuperato, districato sapientemente e riutilizzato,
asciutto e croccante. Raccogliendo quelle cicche, aveva qualcosa da fare:
qualcosa di proibito, di misterioso, di importante. Come un bambino. Torna,
solo, a passeggiare nel parco. Osserva l'immobilità cui sono ridotte le cose,
nell'autunno. Immobilità e decadenza ormai ci sopraffanno, osserva. Tutto è nel
suo occhio, il suo è lo sguardo di chi sa. Guarda oltre. E' lo sguardo del bambino.
Il rispetto e la stima cominciano con un'apparenza, pensò: una,
rigida, seduta alla panchina di fronte alla sua, come assente da se stessa,
si rassetta continuamente i capelli a
chignon: è l'unica grazia che le resta, ma chissà se ne è consapevole oppure è
solo il tuo strazio, una tua particolare condizione d'animo a mostrartela, ad
offrirtela, anzi. Ma che peccato, per lei, se non vivesse il puro dono che le
viene offerto dall'occasione del tuo sguardo. Che però, e lei non lo sa, è per
un'altra, ora.
"Voglio essere terribile; terribile come devono essere i
vecchi". I vecchi, che annunciano quello che nessuno conosce, la morte: la
morte, la cosa che gli altri raccontano ma è già tutta scritta sul volto dei
vecchi. "Oggi, purtroppo, i vecchi non sono più terribili. La morte, non
interessa più nessuno".
Un paio di ragazzi lo spintonarono, e
sghignazzarono. Nel
lungo budello dell'ingresso alla metropolitana si era infilata acqua
ruscellando sul pavimento e stagnando in pozzanghere. I ragazzi scalciarono
passando, schizzarono fango. Sentì il bagnato sulla gamba, sotto il pantalone,
come lo scolaticcio dell'orina. Accanto a lui, una voce gracchiò: "Per
favore, mi passi il dottore". Il vecchio si appoggiò alla cabina
telefonica, una delle nuove cabine di plastica installate in tutta la città. Un
cubo di luce gialla chiuso da tutti e quattro i lati, come aveva potuto sentire
la voce di quello che parlava là dentro? Ma no, alla cabina mancava la porta:
le due ante pendevano dai gangheri come elitre trasparenti, strappate da chissà
che furia. Da dentro il cubo di luce, l'uomo proseguì: "Il dottore, per
favore". Attese la risposta, paziente. Lui, pensò, non voleva più
attendere risposte, mai più, per tutta la crosta di vita che doveva ancora
grattare, prima di raggiungere il centro oscuro e finale dell'esistenza.
Si chinò a carezzare il gatto, che rispose con un gemito pieno di
dolcezza. Disse: "Io sono come voi. Sono come te, proprio. Non mi credi?
Ho imparato tante cose difficili. E ora so starmene, come voi, a occhi chiusi,
a scaldarmi al sole. E' stato lungo, arrivarci."
Ama riparare, o far riparare, le cose, gli oggetti, quelli minuti
e inutili che ingombrano tutte le case, dopo un po' di anni. Restano lì,
nell'esitazione e nel dubbio, avvolte in un vago senso di colpa: ma quando
questa sensazione sfuma, alla fine, noi le buttiamo, queste cose, questi
oggetti, con fastidio, magari di nascosto (almeno, verso noi stessi). Al
vecchio, però, sembra di avere un buon rapporto con questa chincaglieria, gli
oggetti che ritrova, sperduti, obliati, in qualche ripostiglio, o sopra un
mobile polveroso. Il vecchio osserva, spolvera col dorso della mano l'oggetto
riscoperto, lo solleva e lo osserva alla luce, la memoria gli sgomitola piano
piano, a sussulti, episodi dei quali l'oggetto è stato parte: e il vecchio,
allora, sorride compiaciuto. Se l'oggetto è danneggiato, pensa come ripararlo o
farlo riparare. In questo, mette sforzo, un certo puntiglio. Pensa che così
egli ha un buon rapporto non solo e non tanto con le cose, gli oggetti, ma
proprio col Tempo in sé, e col Mondo, osò affermare una volta, con timidezza:
col Mondo. "Riparare le cose dà pregio agli avvenimenti, a quello che è
accaduto e che accadrà, e che sembra che nelle cose si incrosti. Mica è vero
che le cose sono tutte uguali: ognuna è diversa dall'altra, ha una figura che
si è costruita lentamente grazie all'uso che noi ne abbiamo fatto, quando la
logoriamo e pensiamo che così invecchi e scivoli verso l'inutilità: ma è
proprio il contrario.
Bisogna, assolutissimamente, che ci sia un fine,
sospirò. Non puoi farne a meno: quando per caso questo succede e tu finalmente
ti senti leggero, pensi di essere leggero e di poter finalmente fare tutto così
come ti piace e ti passa per la testa sul momento, allora devi avere paura.
Lei chiedeva: "Com'era, tua moglie?" Non era curiosa,
l'immagine di quella donna lontana non la interessava; ma vedeva che lui non
gradiva la domanda, e quindi la ripeteva, per pungerlo, per farlo scoprire, in
qualche modo. Ma lui si fissava sul televisore, si faceva prendere da una
partita, da un film, e sembrava non aver sentito.
Se ne andò via tardi, quando il buio si era fatto un gelido
diaspro, e per le strade non c'era nessuno. Lei chiuse la porta dietro l'uomo
che si allontanava girando l'angolo, restò appoggiata allo stipite,
commiserandosi un poco. Non sapeva quel che era accaduto, lo scacciava dal
ricordo, supplicava i fantasmi di sparire via. Non sapeva cosa fosse successo,
della sua vita, il filo dei lenti e lunghi fatti le appariva spezzettato e
sconvolto, in un disordine ferale, impossibile a rassettare. "Sono
sola", pensava. E:" Può la vita sapere se stessa?" Fantasticava
di quando, in lontane sere d'estate, aveva visto avanzare nel cielo un
temporale, con il cumulo delle nubi avanzanti, ammassate in figure varie e
singolari. Aveva cercato di decifrare quelle figure, di capirne le forme fin
nei dettagli, ma non vi era riuscita. Così era stata la sua vita, un
rincorrersi di fatti la cui successione, dettagliata e scandita, non poteva
essere ricostruita.
“Fino ad oggi non sono mai andato oltre
tentativi, preludi e promesse di ogni tipo”. E sperò che tutto quel che gli
stava accadendo fossero incidenti fittizi, scherzi, da cui poter via via trarre
qualche moralità, o qualche ammonimento per il buon fine della sua vita futura:
ricordandoli, poi, si sarebbe detto con compiacimento: “Come no!” Da quel
momento sono proprio cambiato, sì, sono diventato un altro”.
“No – disse – la grazia non si divide. Non si può
dividere. Se in qualcosa compare la grazia, quella cosa ha in sé tutta la
grazia, tutt'intera, quella cosa è – misteriosamente – la grazia, la grazia in
sé”.
Così erravano i
pensieri, e lui li accarezzava. Lasciate ai vecchi la loro solitudine,
soprattutto non offendetela: è la loro unica, vera ricchezza e deve essere
amata come una ricchezza, delicatissima e fragile”.
“...hai ragione, certe efferatezze, la lussuria
dei vecchi, non dovrebbero essere condannati. Solo il vecchio ha potuto capire
che le durezze dei giovani, le loro protervie, le alterigie e rifiuti erano
sciocchezze, e non valeva la pena difenderle...Ma torniamo a lui. C'è tuttavia
tristezza, nel suo cambiamento. Se non altro perché, come è splendido il
ripensamento del vecchio, è ugualmente necessaria l'intransigenza dei giovani.
E' questa intransigenza che, in definitiva, chiede. Essa impone una scelta, ma
già in questo modo esalta colui che vi risponde, vi corrisponde. E' in questo
severo e forse anche disumano dialogo che si forgiano moralità, anche quando ci
si deve preparare alla grande svolta della maturità; ma non c'è altro percorso
- umano - nella storia della morale. Il passaggio alla vecchiaia, e a quella
sua ritirata, è duplice; sconfitta da una parte, altissimo dono e saggezza
dall'altra. Ma occorre che questo percorso sia compiuto, per il bene di tutti.
Poi, il vecchio che allunga le mani verso la donna, che si umilia per averne
una carezza sguaiata, magari qualche palpamento e cose così, non dovremmo
condannarlo, d'accordo; ma solo se è stato preceduto e innalzato dalla violenza
del rigore giovanile (l'erotismo senile è privo dell'accessorio necessario,
della violenza, della prevaricazione, della sopraffazione). Però, quello stesso
vecchio deve essere stato colui che in gioventù non si è mai abbassato per chiedere
nulla; nemmeno alla sua donna: che non ha pagato, non ha mai avuto bisogno di
ricompensare alcuno..."
Non riusciva più a commisurare le diverse
necessità, man mano che durante la giornata gli si presentavano, e a farle
combaciare così che nulla andasse sprecato. Ci rimaneva male: l'esattezza, la
puntualità, un bene che da qualche tempo gli era venuto a mancare, lo sapeva
ormai. Di notte, quando l'insonnia lo costringeva a lunghi silenzi nel buio e
gli saliva incontro l'incubo dei desti, amaro se non insopportabile, si
riprometteva di mondarsi della tara. Per il solo fatto di essere consapevole,
di averne scorto le radici, era speranzoso di potersene liberare. La promessa
si legava in un indissolubile giuramento. Quando poi al mattino cercava di riconnettere
le immagini notturne, queste gli si presentavano sfocate, lontane. Non ne
discerneva più, alla luce, i contorni. Si chiedeva se fosse ancora valida la
promessa strappatagli dal buio, il giuramento fatto volava via con il fruscìo
di un'ala di pipistrello. Tutto riprendeva come prima. Era un uomo sregolato e
smisurato, e la mancanza di norme e confini certi lo rendeva ingombrante: a se
stesso, innanzitutto.
"...ha dovuto pagare troppa gente, per poter ricompensare,
davvero, qualcuno". "Ma no. Penso che non si sia mai posto il
problema di ricompensare qualcuno. Ha creduto nel rigore degli incontri e del
dialogo, nella parità dei rapporti; quelli che, al momento in cui si sciolgono
o vengono sciolti o si rompono, lasciano, da una parte e dall'altra, i conti in
nero, le partite in pareggio, non in rosso. Per questo, se ha potuto pagare dei
servizi non ha mai compensato un dono, quello che egli accettava come dono. Ma
è convinto, assolutamente convinto - ne sono certo - che chi ha dato, chi gli
ha dato, ha anche ricevuto in misura pari e non ha nulla più da esigere. Non
crede nei rimpianti, li aborre: né nei suoi né in quelli degli altri; se
dovesse cedervi, consapevolmente cedervi - diciamo - si riterrebbe uno
sconfitto della vita. O, almeno, questa sarebbe stata la sua conclusione d'un
tempo".
"Perché, oggi è cambiato?"
"Penso di
sì. Penso che anche lui abbia dovuto accettare il responso del tramonto; quando
cadono almeno le illusioni di poter imporre alla vita i propri rigori. I
moralismi sono un lusso dei giovani, non dei vecchi, ai quali si schiude
invece, con tutte le sue dolcezze, l'arte del possibile, la accettazione delle
sconfitte, come vengono; la moralità autentica, forse. E chissà che proprio
lui, proprio lui sconfitto, non abbia rinnovato e sublimato l'antico rigore
nell'umiltà del pagamento, del prezzo pagato per un po' di calore, di
vicinanza, forse anche di dimenticanza, Gli amori dei vecchi, a pagamento, non
li disprezzerei troppo, sai?"
Il vecchio stava,
come spesso, sul terrazzino a cincischiare tra le smorte piantine nei vasi di
terracotta. Sentiva salire le voci. Grida particolarmente violente, stavolta,
anche un”figlio di puttana!”. Si era affacciato sulla figura di una giovane che
scappava correndo tra le canne e i sambuchi, a zigzag. Correva a perdifiato.
La repentinità dell'accaduto aveva scosso il vecchio con mille
interrogativi, comprensibili emozioni, curiose invidie. Si spenzolò. Sentì che
la cosa gli apparteneva. Si vantava di avere una bella esperienza, un gran
colpo d'occhio nell'individuare la gente losca, pericolosa, i malfidati
sociali, gli sconosciuti di quartiere - ma erano altri tempi, il quartiere era
poi stato travolto dal cemento e anzi non c'erano più quartieri nella città,
ogni strada era uguale all'altra - sempre quelli, coi noti volti che apparivano
e sparivano lasciandosi dietro il sospetto di una occasione furtiva, di una
complicità in attesa di segnali.
La giovane era riapparsa, aveva il naso insanguinato. Gridava,
rivolta a qualcuno, dietro di lei, nella macchia dei sambuchi: "Lasciami
stare, che vuoi da me" e vomitava imprecazioni e oscenità. Gli parve di
riconoscerla, di averla già conosciuta, un volto usuale, o forse semplicemente
somigliante o identico a lei, la ragazza appena conosciuta al parco.
Si era affacciato, dopo quelle grida, un paio di volte, nei giorni
seguenti, dubbioso sulla loro causa. Sempre, il paesaggio desolato della forra,
là in basso, gli aveva stretto il cuore. Chissà mai cosa succedeva, laggiù.
Donne, uomini, che facevano un amore trasandato. L'abbaiare del cane, uscendo
da uno dei muretti rinsecchiti di mattoni traforati e ostili, segnalava che
l'estate era proprio agli sgoccioli, dopo quel brutale agosto appena trascorso,
e che la vita della città sarebbe ripresa presto, traffico e tutto; forse lo
stesso giorno, o il giorno dopo, all'alba. Era infatti un abbaiare forte, però
meno doloroso del solito; pareva che perforasse l'aria girando dietro gli
spigoli di sparse casette basse, a due piani con terrazze, più che tetti, in
coronamento e un'aria trasandata ma anche familiare, coi colori di terre e
colla che non usano più.
Raccolsero l'abbaìo poche persone deserte di percezioni e di
affetti, che avevano trascorso le ultime ore a spiarsi a vicenda dietro le
serrande e le persiane, ciascuna meravigliata della vita altrui e della volontà
di partecipare ed essere partecipati, non stremata dalla tenaglia del sole. Il
vicino precocemente avvizzito non conosceva l'altro, il corrispondente
dell'appartamento più prossimo, come se anche gli affetti, in questo estremo
lembo cittadino, si fossero da tempo prosciugati. Percorrevano i vialetti dei
giardini, i marciapiedi, i solai, le stanze, in discinte tenute, ciabatte e
mutandoni testimoni di scarse letizie. Udirono dunque l'abbaiare dei cani,
senza però coglierne l'annunzio di un prossimo cambiamento, che pure ciascuno,
in cuor suo e senza mostrarlo ad altri, desiderava da tempo.
Entrò nella stanza del figlio. C'era odore di
tabacco rappreso, ma non era una novità. Il letto era rifatto alla meno peggio
ma sembrava che non vi avesse dormito nessuno, nelle ultime ore. Tutto era
nell'ordine, o nel disordine, usuale.
Ritornò in cucina, si accinse a prepararsi qualcosa da mangiare. Anche
la cucina era abbastanza in ordine, aveva sistemato tutto lui stesso, la
mattina prima di uscire, e nulla era stato toccato. Riempì una pentola con
acqua già calda dallo scaldacqua, la pose sul fuoco. Si sarebbe fatto della
pasta, in fretta: era stanco, avrebbe dormito un poco. Sedette al tavolo col
piano di marmo, accese la televisione, si attardò un po' su un programma di
giochi e quiz.
I cattivi pensieri! Li odiava. Li sentiva arrivare dal disagio che
gli montava dentro e lo rendeva neghittoso. Erano un residuo non perfettamente
vinto e rimosso della sua vita passata, di quando nutriva a volte rabbie sorde
e volontà vendicative nei confronti di quanti gli procuravano, per caso, un
intoppo che lo costringesse a pensare, o a darsi da fare. Da tempo se ne era
liberato, fiero di potersi finalmente dedicare a un immaginario più importante,
persino decisivo, riguardo alla vita e alle cose che le erano essenziali. E
dunque, da dove veniva ora questo rigurgito?
Scoprì la ragione dell'inquietudine. Si trattava della ragazza.
Era angustiato. Lei aveva rotto, qualunque cosa volesse fare, un equilibrio,
rimesso in gioco i suoi rapporti con le cose. Non sapeva nemmeno dove cercarla.
Chissà perché, ebbe la sensazione che la faccenda fosse più complicata di
quanto appariva nell'immediato. Cominciò
a entrare in un'ansia precipitosa, come gli succedeva un tempo, quando da
piccolo tardava da scuola o dalla partita con gli amici. Andò al telefono, fece
il numero della sarta.
"Ah! Che c'è?" fece la donna, era ovviamente sorpresa.
Non si telefonavano spesso, ciascuno aveva pudore delle sue faccende, non le
confidava all'altro: il loro era un rapporto provvisorio, incredulo. Raccontò
alla donna, brevemente, delle sue ansie. "E allora?" chiese la donna,
con una certa diffidenza nella voce. "Tu che dici? Sarà successo qualcosa?"
"Ma che t'importa, a te? E che vuoi che sia successo?", fece la
donna. Aveva con lui quasi sempre una pazienza benevola, e anche questa volta
assunse un'aria un po' protettiva. Riappese la cornetta, si sedette a
riflettere. Ma si alzò subito, per andare a spegnere il fuoco sotto l'acqua che
bolliva. Cercò le chiavi di casa, che mise nella tasca dei pantaloni, infilò la
giacca, uscì tirandosi dietro con uno scatto la porta. Scese le scale
lentamente, fu nell'androne e poi oltre la porta a vetri, per strada. Si
incamminò, un po' a caso.
Doveva arrivare giù alla forra: vi aleggiavano ancora le grida, un
sordo presentimento lo attirava laggiù, in quel lembo di paesaggio che lui
conosceva solo dall'alto, nella luce del sole pomeridiano, o per l'oscuro
fogliame che lo copriva. Dopo poco, la strada si fece deserta, isolata,
cominciò a scendere mentre gli edifici diradavano. L'asfalto era sconnesso,
spariva dopo un'ultima gobba, a un bordo era issato un cartello di lamiera
slabbrata con la scritta: "Strada senza uscita". Una serpe,
d'improvviso, si srotolò davanti a lui, un dieci metri più in là. "Allora
non sono sparite. Non sono sparite – brontolò - come scrivono i giornali".
Era la prima volta che vedeva una serpe in città. Ricordò cieli e terre della
sua infanzia: "Qualcuno ti ammazzerà, a sassate".
Sapeva che il suo modo di camminare poteva far ridere, provava
paura anche della sua ombra (che si contorce, quando il sole la tratteggia sul
muro). Decise di andare ugualmente avanti, camminava perché le gambe si
muovevano. Spariti i prospetti pomposi,
fiancheggiavano ora la strada palazzine e villette di una foggia antiquata, con
gli intonaci scrostati, sui quali pezze di un color calce o rosso mattone si
alternavano. Alle finestre vuote molte persiane erano aperte, in stanze in cui
non appariva anima viva si scorgevano i lampadari pendenti dal soffitto, i
mobili alti di legno scuro abbandonati al loro ordine disusato. Dinanzi ai
portoni lumi di vetro colorato pendevano, allineati, fino ai cancelletti
socchiusi sulla strada. Le balaustre, i vialetti, le aiole, erano densi di
foglie della vite americana, come una sopita e calma festa. Dinanzi ai
cancelli, automobili parcheggiate. Sul tettuccio di una di quelle, un gatto
accovacciato, con gli occhi semichiusi.
Il vecchio pensò che davvero questa era una strada come ce ne sono
poche, in città. Non ricordava di averla mai percorsa, ma gli sembrò di
riconoscerla in minuzie, in dettagli infinitesimali. Ah, sì, anche lui aveva
vissuto per anni in una via tutta di villette e palazzine come questa, con
queste stesse fogge e quest'aria trasandata. Era passato tempo da quando
l'aveva lasciata, il ricordo era tornato su come un risucchio sciamannato. Si
fermò accanto alla macchina sulla quale il gatto se ne stava accovacciato
pigramente. Si appoggiò al cofano, il gatto aprì gli occhi, si sollevò sulle
zampe, si sgranchì sbadigliando, saltò giù e venne a strofinarglisi alla gamba.
Una strada proprio vecchia, "antica, anzi", si disse, e
capì che proprio l'antico è sparito dalle città; l'antico, non il vecchio, che
è differente. Provò uno struggimento ricordando quando da bambino, girando per
strade sconosciute, avvertiva nell'aria qualcosa di strano e misterioso, e solo
tardi, già grandicello, si era reso conto che quello struggimento gli veniva perché
sentiva intorno, scopriva - in modo indefinito ma netto - l'antico: un
aleggiare patetico, curioso ma gradevole, che da allora seppe poi sempre
riconoscere, e sempre gli solleticava il naso, con ironia e affettuosa
complicità. Tutto questo, l'antico, era adesso sparito: e tutto, come per
vendetta, appariva invece vecchio, stinto e vile. Fu felice di avere
riconosciuto quel gusto amabile, con le sue minuzie, i suoi infinitesimali
dettagli. Da una porta si affacciò un volto che curiosò al vecchio.
La strada si interruppe di botto dopo una curva, dove una fila di
grossi blocchi di cemento la sbarrava lasciando solo interstizi per passare
oltre, però adesso in un sentiero stretto da acacie e robinie lebbrose. Oltre, il canneto frusciante, le sempiterne robinie
spinose, i sambuchi; sulla destra, in alto, il paesaggio urbano - tetti,
terrazzi, antenne televisive, lo scheletro nudo di un gasometro ritagliato
contro il cielo - che vedeva anche dalla sua
finestra e che si soffermò a guardare, stupito, da quella angolatura e
distanza. Gli apparve immenso e solenne, sconosciuto, così vertiginosamente
alto sullo strapiombo. Riprese a camminare nel terriccio, in mezzo a mucchi di
rifiuti, scatolette, bottiglie di plastica verdognole. Poiché da tempo non
aveva piovuto, la terra era attraversata da sottili cretti come una tela di
ragno che si perdeva lì dove l'erba, a ciuffi, mezza gialla, comunque aveva
resistito all'arsura. Si chiese cosa dovesse fare, a quel punto. Non era mai
venuto, disceso, fin lì e se ne rammaricò.
Di dove potevano essere partite le grida? Si guardò attorno, dubbioso.
Il capannone, di lamiera ondulata, malmesso, con le finestre
socchiuse e i vetri sfondati a sassate era separato dalla vegetazione da un
muricciolo basso, con intorno ciuffi di verde cui non riuscì a dare un nome.
All'angolo estremo del muricciolo un cancelletto di ferro, semiaperto. Il
vecchio pensò di entrare per chiedere una indicazione, dove portasse il
sentiero tra le robinie. Spalancò il cancelletto silenzioso, attraversò un
praticello spampanato, salì i due gradini che conducevano alla porta. C'era un
silenzio grande ma teso, non opprimente. Il vecchio si sentì anzi euforico, era
solo un bambino che si appresta ad una marachella, che cerca di intrufolarsi in
una casa abbandonata, forse per rubare forse solo per una curiosità un po'
morbosa, per desiderio di una avventura strana. Suonò un campanello che
funzionò una o due volte ma nessuno gli rispose, spinse il battente che si aprì
lentamente davanti a lui. Cercò un interruttore della luce. Non lo trovò, la
porta si chiuse alle sue spalle. Buio, silenzio, l'acuirsi dei sensi
sollecitati. Provò, a tentoni, a cercare la maniglia della porta, dietro di sé.
Il pollice sfiorò la fessura tra i battenti, ma la maniglia non c'era, né in
alto né in basso, solo borchie e teste di chiodi e viti come se la serratura e
la maniglia fossero solo all'esterno. Il legno era rugoso, sconnesso.
Aveva ora i polpastrelli impolverati, meno sensibili. Li leccò per
pulirli, e nella bocca entrò un sapore dolciastro di vecchie vernici. Non era
cattivo, i denti si legarono e la lingua si impastò, lui provò piacere a
succhiarla. Si era distratto dalla sua paura di prima, ammise. Si appoggiò al
muro con le mani incrociate dietro la schiena, i polpastrelli sfiorarono ancora
la polvere sottile - quasi una cipria - che lo rivestiva.
In mezzo allo stanzone, il corpo
della donna giaceva per metà sotto un lungo tavolo, solo la parte superiore del
corpo ne sporgeva. Sembrava disarticolata, con braccia e gambe piegate in
angoli casuali, un po' buffi, di danza sregolata. Si avvicinò, si chinò per
guardare meglio. Sul fianco sinistro sotto il seno, un rigagnolo di sangue
macchiava la camicetta di ordinario cotone, ma non si vedeva una ferita (né
peraltro sul volto, né sul collo o sulle mani, o sulle parti del corpo
scoperte). Sì, la stoffa pareva mangiata, lì, schiumosa del sangue già
rappreso, un grumo scuro. Al vecchio, il cuore batteva strepitosamente mentre
avvicinava gli occhi alla crosta sanguigna per rendersi conto meglio. Non
riuscì a decifrare la situazione, provava ribrezzo all'idea di toccare il
corpo, il sangue, la ferita sotto la stoffa impregnata. Una sorpresa malefica.
Avrebbe voluto fuggire via. O, almeno, doveva chiedere aiuto a
qualcuno. Alla sarta, pensò, perché il numero del figlio non lo aveva con sé.
Cercò un telefono. Niente. Lo stanzone proseguiva in un lungo corridoio sul
quale si aprivano due o tre porte slabbrate. In fondo al corridoio si scorgeva
una scala che saliva girando ad angolo a destra. Si alzò, si incamminò sulle
gambe legnose ad aprire le porte una dietro l'altra, lasciandole poi socchiuse:
una stanza adibita a cucina, di quelle che si mettono su nei cantieri e nelle
fabbriche disagiate e lontane, un cesso molto sporco, in un'altra stanza infine
un lettino da campo senza materasso, la rete sfondata, giornali e scatolette
per terra, cicche di una prevedibile solitudine. Una bicicletta da donna, nel
corridoio, scrostata e senza una ruota. Un mazzo di scope. Un quadretto alla
parete. Ma niente telefono, per quanto cercasse. Si avviò alla rampa di scale,
pensando di salire al piano di sopra, ma non se la sentì, tanto il capannone
appariva davvero deserto: e del resto era meglio non chiedere aiuto a nessuno,
doveva capire da solo cosa fare. Da una delle finestre dello stanzone, dove si
trovava di nuovo ora, guardò fuori. La breve radura era assolata. Uscire a
chiedere aiuto. A chi? Tornò a guardare meglio la donna distesa a terra, metà
sotto il tavolone.
Era bella, o sembrava tale. Era morta da non molto tempo, ne era
sicuro: il corpo, gli abiti, gli oggetti intorno apparivano appena afflosciati.
Era accaduto quello che sembra sempre impensabile, la donna era morta e non
avrebbe più occupato, con i suoi gesti - che dovevano essere stati eleganti -
lo spazio dello stanzone dove forse da viva si era mossa, con le sue grandi o
piccole imprese. La borsetta aperta, spalancata, era poco distante dal corpo, e
anche un sacchetto di plastica da cui uscivano cianfrusaglie, ninnoli colorati,
un pacchetto di sigarette mezzo vuoto. Tutti oggetti che certo lei usava
abitualmente e impregnati della sua personalità, del suo capriccio, adesso
disponibili, indifesi al primo che volesse usarli e farli suoi. "Le
eredità sono solo un vuoto, come questo, da riempire. C'è qualcosa di
mostruoso, nell'avidità degli eredi. In un mondo come dico io – mormorò - gli
oggetti di un morto dovrebbero essere bruciati, con lui. Tutto, a partire dal
denaro”.
"Non ho paura di te", si disse, e guardò ancora alla
donna. Gli pareva di avere una sorta di stralunata e mostruosa intimità con
quel corpo ormai freddo. Fu fiero di essere lì, avrebbe proprio voluto vedere
che qualcuno si avvicinasse: nessuno doveva ficcare il naso in quella faccenda.
"No - si disse ancora - non ho paura di te né della tua morte. La tua
morte, non molto differente dalla mia: perché qualcuno vorrà la mia morte; e io
sono pronto a morire. Come questa donna. Insieme a questa donna, qui".
Guardava quel corpo con una dolcezza disperata.
Aveva capito che la morte era una possibilità da
quando - non da molto - si era reso conto di essere disponibile a tutto:
proprio a tutto. Senza incertezze, residue inquietudini, remore di alcun
genere. Era stato una sorta di risveglio (ma sospettò anche che fosse piuttosto
un assopimento) come quando ci si accorge che la febbre, o il dolore, è passato
e il dito, la mano, ha riacquistato l'articolazione. L'immaginazione della
morte non lo aveva spaventato più, ecco tutto: molto semplice! Sapeva adesso
che era una prossimità come, prima, l'aveva considerata un evento lontano,
difficile e assurdo. Da allora tutto gli si era fatto più semplice. Se ne
infischiò dei problemi, delle difficoltà che fino a quel giorno gli avevano
inceppato i movimenti, gli avevano fatto supporre, sospettare che tra lui e i
suoi propositi, od obiettivi, si frapponessero mille ostacoli, impacci a non
finire, una selva di comandi e disposizioni avverse. Da oggi avrebbe fatto -
pensò - quel che gli fosse passato per la mente: proprio come gli arrivava sul
momento, senza preoccupazioni di sorta.
Scorse la pistola. Estranea, ormai inutile, incongrua, sul
pavimento. La raccolse chinandosi a fatica sulle ginocchia improvvisamente
tremanti, se la rigirò nella mano. Avrebbe voluto buttarla e nasconderla da
qualche parte, per subito dimenticarla. Ma era impossibile, doveva occuparsene
come di sé stesso. Si stupì mentre osservava svagatamente che gli uomini hanno
bisogno di strumenti per compiere ogni piccola cosa, per realizzare il più
insignificante dei desideri. Anche uccidere. Ma uccidere è il compimento di un
desiderio enorme, impensabile.
Da giovane aveva letto con predilezione particolare, con gusto e
con emozione da congiurato, pagine casuali di chissà quale filosofo antico. Lì
per lì gli erano apparse una cabala dissennata; rileggendo ogni tanto nel tempo
quelle pagine, conservate superstiziosamente tra i pochi suoi libri, aveva
scoperto la profondità di un pensiero lapidario, apodittico, scandito; ma solo
da poco poteva dire di avere proprio afferrato la qualità, i significati primi
di quella geometria mentale, di quella architettura e universale macchina
dell'anima, un edificio nitido e sopratutto necessario, la cui universalità gli
appariva fuori discussione, a priori, per l'evidenza stessa del dettato che lo
disegnava e, disegnandolo, lo poneva in essere. Dalla mirabile macchina
scritta, il mondo degli eventi - che subito diventavano eventi interiori - era
ordinato in un reticolo, perfetto, di simboli che tutti assieme si disponevano
come il senso stesso dell'universo: proprio come è e deve per forza essere,
pensò lui. Una volta, mentre rileggeva quelle pagine, gli erano tornati alla
memoria i giorni, i fatidici tre giorni di clausura nella parrocchia, in
preparazione alla cresima e alla prima comunione, quando il prete veniva
spiegando, a lui e agli ragazzetti, il catechismo. Lui non capiva pressoché
nulla delle formule ingessate, fatte di parole al di fuori della sua portata,
ma si predispose alla fatale necessità di dover loro obbedire, in quel che
significavano e in quello che non ne capiva, per tutto il resto della vita.
Fuori della finestra della parrocchia, il cielo era azzurro e il verde dei rami
frusciava sonoramente dandogli una acuta nostalgia della fuga, ma il ragazzino
fu tristemente sicuro che avrebbe dovuto sempre scegliere, tra quel cielo e le
formule del catechismo, queste ultime. Non c'era neppure la possibilità della
scelta, anzi, e il prete faceva di tutto per avvertire che il solo pensiero di
poter scegliere era e doveva essere considerato un peccato, il peccato
imperdonabile. Negli occhi degli altri ragazzetti c'era la stessa atona
fatalità.
Le pagine del filosofo, tanti anni dopo, gli procurarono le stesse
tristi emozioni. Era irretito dalla magia di un discorso dell'anima valido per
tutti ed ovunque, e dunque anche per lui; che, già fortemente ispirato
qual'era, si era premurato di regolamentare con zelo ogni passo della sua vita,
per inseguire e rendere palpabili gli imperativi di quel sublime discorso: nei
cui meandri potenza ed atto, impulso e conseguimento si seguivano in una erta
scala di enti ed essenze disposti così concatenati che nessun gradino, nessun
pianerottolo, perdesse mai solidità e tenuta né potesse essere messo in
discussione, e tantomeno disordinato, intaccato. Poi, un giorno qualcosa era
accaduto - ma che, un'alzata di spalle, un malumore, un respiro più profondo
dinanzi alla finestra, una sbirciata al cielo imbronciato, chissà mai - ed era
bastato perché dal suo cervello ed anima venisse spazzata via qualsiasi
parvenza di ordine, di geometria, di salita o di scalata. Dentro di sé non avvertì però né vuoto né
mancanza né desiderio di sostituire qualcosa all'edificio crollato. Anzi
provava, dentro, una nuova e strana pienezza, un calore, un soffocamento di
spesso, di pesante, l'umidità densa di una grassa foresta primigenia, di un
caos appena destato e sognante mentre la Città sprofondava, senza
preavvertimenti inutili e indesiderati e come per capriccio, in un buio senza
più nome, inesprimibile. Il nuovo senso di libertà non lo sgomentava che un
po'; solo un lieve fastidio, come dell'indizio immanente e incombente che la
vita era senza più oggetto e scopo e che il tumulto delle voglie, degli
appetiti, delle emozioni lo conduceva ora ad esiti senza rassicurazioni
edificanti: da esibire agli altri, all'esterno, nel caso di una delle tante
richieste che quotidianamente ne provenivano.
Le ginocchia gli cedettero. Cadde sul gomito. Nell'allungarsi,
sfiorò il braccio nudo. Era freddo e antico, chiuso in un tempo lontanissimo.
Provò disgusto per la sensazione. Ma non si sgomentò, e si trovò supino a
fianco a lei. Aveva cercato una vicinanza.
"E' incredibile, quanto sia difficile descrivere una
faccia", pensò. "Tutte le facce ormai sono uguali. Come potrei
descrivere questa faccia?" Scrutò il volto immobile al suo fianco, un
profilo di gelida ferinità, quasiché la morte avesse scavato e deformato dai
tratti l'umanità raccolta nel calore, nel tepore della pelle, delle vene e del
sangue, lasciando al suo posto segni ancestrali e mostruosi, non più
decifrabili: "Fra un giorno, o già fra un'ora, questa faccia sarà così
cambiata che sarà impossibile raccontarla. Bisogna far presto!" Riscrutò
il volto, cercò di fissarne nella memoria, ma prima ancora negli occhi, i
tratti salienti. Il naso, per esempio, come poteva descriverlo? Era leggermente
schiacciato, certo, ma con una grazia sottile e perversa, sopratutto perché
incastonato su una faccia anch'essa piatta ed esibita, che non sfuggiva in
rotondità, in sinuosità. Era - o meglio, era stata - brutta o bella? Se fosse
stata viva, sarebbe stata, forse, bella o certamente attraente, almeno per i
suoi gusti. E le labbra, la bocca? Adesso era un po' aperta: sembrava volesse
respirare ancora. Certo era stata una bocca tumida - o turgida? - e umida.
Infine, per raccontare tutta quella faccia, mancavano gli occhi. Chiusi,
invisibili. Avrebbero giustificato, vivi, fattezze singolari che ora apparivano
un po' pesanti ma che forse loro avrebbero arricchito con la loro suggestione?
"E' proprio così, non è più possibile dirne qualcosa, esprimerla,
raccontarla" si rassegnò.
La bellezza è sempre, essenzialmente, oscura.
"Che diamine! Se esistesse il paradiso, o l'inferno, o
l'aldilà, quale volto avrebbe questa anima? Quello di quando era viva, o
questo, che è lo stesso ma è infinitamente lontano da quello di prima? Che
assurdità, l'anima. La sola cosa che si può dire, incontrovertibile, nemmeno
più dolorosa ma incontrovertibile, è che questa donna è morta, e sta già
dissolvendosi nello sfacelo della morte. Il tempo non parla di lei, ma di
questo suo corpo informe, di questa marmorea illusione. Questa è l'unica cosa
certa. Che disperazione, la morte. E' una porta chiusa che non si aprirà più,
per quanto tu bussi, e non saprai mai cosa c'è lì dietro, dove tutto è buio e
silenzioso.
Lo sguardo tornò a cadergli sulla pistola. "Capisco chi pensa
che l'uomo disarmato è una nullità", si disse. D'improvviso pensò al
figlio, anche lui possedeva un'arma. Come quella, pensò, raggelandosi.
La bellezza è una memoria desiderata, e dunque inappagata. La
bellezza imita la memoria: direi la conserva, gelosamente. La bellezza
giovanile, insomma la bellezza di questa donna, è una oscura felicità: ha a che
fare col destino. Per questo (sospirò) è così fuggevole. Dilegua appena uno ha
perduto la speranza di un destino, e si chiude su se stesso. Succede a tutti,
più o meno, a un certo punto.
Una morte spogliata, depredata, scarnita.
Una conclusione, una ipotesi del tutto casuale gli spalancò una
voragine di angoscia, un flusso di sangue gli salì alla testa. In un lampo, gli
venne di pensare che forse la responsabilità del delitto poteva ricadere su suo
figlio. Ma vedi un po'. Abbozzò un sorriso che gli uscì sarcastico. E perché
no? I figli. cercano di sopraffarti, gli ingrati. Non ti riconoscono più,
appena possono. Nascono come una violenza occasionale, sono sempre pronti a
pretendere. Ma perdio! Beh!, suo figlio avrebbe ora sopportato di essere
accusato del delitto. Da lui, il padre,
magari. Avrebbe fatto in modo che sapesse che questo era ciò che lui voleva,
che lui aveva escogitato... E certamente, almeno questa volta, non si sarebbe
sottratto al suo desiderio: era, almeno questa volta, un ordine. "Vorrei
vedere che si ribellasse, l'ingrato".
...dove avrebbe piazzato la pistola per simulare, per rendere
verosimile, la colpa del figlio? Tutto doveva apparire naturale, e la polizia
messa nella condizione di seguire per filo e per segno i gesti, i movimenti,
perfino le intenzioni dell'assassino, fino a eliminare la macchia della
presunzione e sostituirla con una precisa, non scalfibile, certezza. Avrebbe
dovuto seguire passo passo i sottili, capziosi ragionamenti, la ricostruzione
che lui, insospettabile perché padre, avrebbe sdipanato dinanzi a loro come un
rosso tappeto.
L'immaginazione gli lavorava accesa e crudele, nella ricostruzione
di un possibile scenario. Conosceva troppo bene suo figlio per non arrivare a
indovinare, prefigurare, ricostruire nei minimi particolari l'accaduto,
precisamente come si era svolto o avrebbe dovuto svolgersi sulle tracce del suo
racconto. L'immaginario si sarebbe saldato in una realtà spessa, indiscutibile
e indistruttibile, avallata dalle parole e forse più dai silenzi di lui, il
vecchio, il padre. Che così non faceva che riprendersi, dal figlio, tutto
quello che gli aveva, in tanti anni, donato.
"Ma no, ti perdòno", borbottò e sentì che le labbra gli
si arricciavano nel sorriso, amaro. Provò anche un effetto ristoratore, nella
certezza che lo aveva finalmente in pugno, senza più resistenze.
Fece una smorfia. Quelle sue fantasticherie erano orribili, ma non
riuscì a fermarle. Che orrore. Una parte di lui era intenta alla realtà fredda
e tenace che lo assediava, un'altra parte si abbandonava tutta, ossessiva. Il
gioco continuò a svolgere il gomitolo mostruoso. Accanto a lui c'era una terza
figura, senza nome o volto, con cui parlava, cercandone l'attenzione: ma forse
era lui stesso, sdoppiato, che osservava, dettava i pensieri, le mosse.
Quando si calmò, era tutto sudato. Era passato molto tempo. Uscì
dal capannone, dirigendosi verso il ritaglio flebile di luce della porta. La
notte era uno scudo astrale, poggiato sul cavo della forra: lontano, in alto,
uscendo dal capannone, vedeva il profilo delle case, di casa sua, alto sulla
collina. L'aria sbuffava portando riccioli di odori difficili a penetrare: il
sambuco, la polvere, il sego rattrappito degli spurghi di animali, le
infiorescenze secche, le foglie triturate: e il frinire di grilli, il
tossicchiare di un roditore, un indistinto strisciare insidioso. Questa era la
notte stellata, che di qui vedeva per la prima volta, senza il riverbero dei
lampioni. E la donna, morta, dietro di lui, da cercare nel labirinto del
capannone, buio anche esso, tranne che le toppe fosforescenti delle finestre. Provò
un brivido di paura: non voleva più vederla, quella cosa là in terra.
“Nessuno saprà mai - non può saperlo, né capirlo, finché non lo
prova lui stesso - quale è forse l'unica ragione d'essere di noi vecchi, cosa è
che ci dà ancora forza, e forse è la nostra unica forza, quotidiana, segreta e
terribile: batterci ogni giorno, ad ogni ora, contro la morte: anzi, meglio,
contro il morire. Noi cominciamo a conoscerla a un certo momento, la vediamo
salire, avvolgerci, e diventare essenziale, dominante.
“Invece è toccato a te, ragazza che nulla sapevi di questo,
morire. La tua morte è immotivata, come si legge in quel tuo corpo che giace in
disordine per terra: che ti è successo? Sei caduta? Rialzati, vieni a dirmi che
è tutto un sogno”...
Tornare indietro, risalire la strada tortuosa e deserta, rivedere
le facciate screpolate e stinte. Non era proprio possibile, si sentiva risoluto
a non farlo: "Non torno indietro, no di certo. Chissà cosa mi
aspetterebbe, lassù. Ho visto tutto, so tutto. Non sono mai tornato indietro,
del resto, nella vita. Perché ora?"
“Giocherò con la mia forza. Con l'astuzia, proverò a mascherarla
da debolezza. So come si fa, è stata sempre la mia migliore risorsa. Perché?
Perché voglio sfidare gli altri, metterli alla prova, sollecitarli,
sollecitarne il giudizio. Quando avrò accuratamente imparato a fingere che la
mia forza sia, nelle manifestazioni, nei tratti visibili, nei segni lasciati e
sparpagliati per ogni dove, null'altro che debolezza, una deplorevole
debolezza, allora sarò pronto per la sfida.
O, più semplicemente (ma io solo debbo saperlo, a nessun altro
sarà concesso di accorgersene) l'ironia, ironia portata al suo massimo prima
che ricada nel grottesco, che odio. Virtuosismo, certo. Ed ho anche il premio
per colui, o colei, che riuscirà a scoprire, a svelare, la verità della mia
forza nascosta sotto il trucco, il mascheramento. Sì, il premio è pronto. Anche
se temo, purtroppo, che nessuno si presenterà a ritirarlo”.
Roma,
2 novembre 1994, ore 4.30
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