Sul dopo Pannella: risposta a Sofri
Da Il Foglio, 14 giugno
Sottraendosi alle insidie di una polemica centrata
sulle amministrative ancora – per via dei ballottaggi – in corso, una polemica
che vede lacerata e frammentata, tra aspre polemiche, la “galassia” radicale, Adriano
Sofri prova a tracciare il percorso di un futuro possibile per quella galassia
e, in particolare, per il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e
Transpartito. E’ una questione su cui, ovviamente, si arrovellano i radicali, assieme a quanti con i
radicali, o con Pannella, hanno avuto una commistione di intenti più o meno
stretta o intima. Ma è bello - e personalmente lo ringrazio - che a porre la
domanda sia uno istituzionalmente non-radicale, anche se dei radicali e di
Pannella da sempre strettissimo sodale, di lotte e di vita. Credo purtroppo sia
il solo.
Per darci una immagine di cosa sia (o sia stato) il
partito radicale dalle sue origini, Sofri trascrive una bellissima lettera in
cui Pannella fa una sorta di riassunto dello Statuto, il documento fondante approvato
al III° Congresso del Partito (Bologna, 1967) : “L’iscrizione non comporta
alcuna forma di disciplina (...) si compra la tessera, come si compra un
biglietto di treno (...). Un partito nonviolento è il luogo dell’incontro di
gente di buona volontà...”, ecc. Quello Statuto, ricorda opportunamente Sofri,
era per i radicali quel che per altri è “il manifesto o il programma”. E si
chiede “se l’impegno a tenere o rimettere insieme i pezzi della galassia radicale
potrebbe partire da ‘Tornare allo Statuto’”.
Sarebbe bello, se non fosse impossibile. Sofri non ricorda (non può,
evidentemente) quel che Marco nella sua lettera sottace, e cioè che quella
“gente di buona volontà”, cui non era chiesto di “sacrificare la propria
libertà a una identità collettiva”, era poi anche quella che Marco stesso, con
il suo immenso carisma, sapeva compattare e “scagliare” su un obiettivo, un
unico obiettivo, carico di forza esplosiva come di volta in volta furono il divorzio, l’aborto, i referendum,
l’amnistia, ecc. “La gente di buona volontà”, gli iscritti o militanti del
partito, di anno in anno, nei congressi, sceglievano tra le tante iniziative
possibili, e perseguivano solo quella che veniva approvata a maggioranza
qualificata. E di volta in volta, anno dopo anno, c’era chi “comperava” il
biglietto del treno radicale ma anche chi ne scendeva, non condividendo la
scelta congressuale. Così sono state via via costruite tutte le iniziative,
vincenti o perdenti, per le quali
Pannella spese la sua carica carismatica.
Da qualche anno, questa caratteristica
dell’obiettivo “unico si era perduta: in tanti degli ultimi congressi, la
mozione era diventata un centone che raccattava ogni minimo suggerimento, idea,
proposta avanzata nella sede congressuale da questo o quello dei presenti. Questo
sistema serviva a vincere i congressi, e si è via via istituzionalizzato diventando
la molla effettiva della nascita di “Radicali Italiani”, convinti di poter
recuperare attraverso la moltiplicazione degli obiettivi quel consenso
(elettorale) che la prassi monotematica sembrava aver fatto perdere. Non ci si
accorgeva di stare imitando e perfino precedendo, per questa via, il movimento
grillino e rinfocolando tutte le infinite rabbie anticasta che stanno
dissolvendo ogni possibilità di una politica ancora definbile come razionale.
Il monotematismo pannelliano aveva la sua fonte profonda
nella rigorosa e testarda analisi del sistema politico italiano, con la sua
partitocrazia, la sua ingovernabilità. Pannella introdusse nel lessico il
termine di “alternativa”, in un paese nel quale neppure il termine di
“alternanza”” aveva un suo legittimo status, stretto come era nella morsa del
consociativismo, dell’unità nazionale, ecc. Al di là dell’obiettivo del momento
(il divorzio, l’aborto, ecc.) le campagne pannelliane ponevano al centro
l’obiettivo di scardinare il sistema, favorendo la nascita e la crescita,
appunto, di una “alternativa” di classi dirigenti (anche sul piano sociologico),
nonché - evidentemente - di istituzioni (sistema elettorale uninominale, effettivo
bipartitismo, niente finanziamento ai partiti...). In qualche modo, somigliava
a quell’intransigente moralismo con cui Giuliano Ferrara combatte l’ammorbante
“pensiero unico”, del dilagante “politically correct”. E non per caso Pannella
dimostrò attenzione verso la “brava gente” grillina. Con un distinguo: lui
aveva come bandiera e punto di riferimento il diritto, la legge, Grillo ha un
sistema valoriale di tipo contenutistico, identico o parallelo a quello delle
forze che combatte.
Il lascito di Pannella è molto complesso, ma quasi
sempre misconosciuto. Un notissimo studioso della politica, Sergio Romano, ha osservato che l’indicazione
gandhiana di Pannella era fuori luogo, perché l’Italia non è un paese
paragonabile a quell’India che Gandhi portò, con le sue campagne nonviolente,
all’indipendenza dall’Inghilterrra colonialista. Non si è mai avvertito che,
grazie alla scelta nonviolenta gandhiana Pannella ha potuto, all’epoca della
guerra fredda, mettere in piedi un movimento antimilitarista che si poneva in
diretto confronto politico con il pacifismo di scuola comunista, caldeggiato
dall’URSS e dilagante in Italia e in Europa. L’antimilitarismo pannelliano era
di pretto stampo occidentale, era nato nel dialogo costante con i movimenti di
liberazione americani, dichiaratamente anticomunisti. La non-violenza
pannelliana fu, successivamente, un efficace antidoto alla violenza rivoluzionaria
predicata (e perseguita) dai movimenti sessantottino e successivi, quelli della
“rivoluzione sulla canna del fucile” (Mao).
Durante la guerra nel Vietnam , i radicali poterono invocare la pace guardando
alla nonviolenza dei monaci buddisti e non agli eserciti di Ho-Chi Min. La
nonviolenza pannelliana fu dunque un preciso discrimine politico, e di grande
efficacia. E’ una eredità pannelliana che rischia di essere vanificata. Non è
la sola. Con molta precisione, Sofri individua altri punti sempre validi del
lascito pannelliano (distanziandosi da Bordin, per il quale ‘dell’eredità di Pannella
è inutile parlare”): per esempio auspica che “il desiderio di riaffrontare con una
ambizione ‘sproporzionata’ lo stato del mondo sia la chiave di una rinnovata
iniziativa radicale” in parallelo con la campagna per”il diritto alla
conoscenza come fonte della transizione
allo stato di diritto in tutto il mondo” (che non è, come dubita Sofri, una
mera “tautologia”, ma un serissimo progetto).
Sono questi i due pilastri che aprono la vista, come avverte Sofri, su un “orizzonte internazionalista” capace di
combattere ”i pescecani dello statalismo nazionalista europeo”.
Proprio perché anche io ritengo essenziali questi
obiettivi e vorrei che non si disperdessero nel nulla, non sono d’accordo con
Sofri sulla necessità di tenere - comunque - un Congresso del Partito Transnazionale.
Ci si dovrà arrivare, ma quando si avrà la fiduciosa prospettiva che possa
essere qualcosa di nuovo e di produttivo, non la fotografia di un esistente che
oggi è in sicuro deficit di possibilità, e di speranze.
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