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da "Il dubbio”,
09/12/2016
Che ne faremo della sinistra (non solo italiana)?
Le dimissioni di Matteo Renzi e - in parallelo - il gran
rifiuto di Franҁois Hollande sono vicende molto diverse tra loro, nel testo e nel contesto. Ma qualcosa in comune lo hanno: segnano l’uscita di scena di due esponenti di primo piano di una
sinistra comunque maltrattata e agonizzante, se non morta e cancellata dalla cronaca ma
fors’anche dalla Storia. E si parla non solo della o delle sinistre europee. Secondo
Aldo Cazzullo (“Corriere della Sera”, 3 dicembre scorso), “il crollo della
sinistra mondiale è pressoché completo”, dall’America che boccia il neo-keynesiano Sanders come il
“liberal” Obama (negli USA i “liberal”
sono la malvista sinistra) alla Spagna di Rajoy o alla Turchia stretta nel pugno di ferro di Erdogan. E molto deve dire anche il declino dei
socialisti polacchi alla Kwasniewski o
dei brasiliani Dilma e Lula. Sempre per Cazzullo, persino la morte di Fidel
Castro va intesa come un tassello della
crisi globale delle sinistre (e dei loro miti).
Tutte allo sbando: da
quelle più intransigenti, dogmatiche e
nostalgico/retro a quelle populiste, fino alle socialdemocrazie rese affabili e
duttili dalle varie Bad Godesberg succedutesi
soprattutto nel nord-Europa. Naturalmente, la faccenda è
triste e provoca comprensibili rimpianti.
Non manca però chi si ostina testardamente a prognosticare e progettare un futuro di rinnovamento e ripresa dei grandi
ideali che hanno plasmato la storia per quasi due secoli: i partiti che
li rappresentano o li hanno rappresentati devono risollevare le gloriose bandiere, ritrovare la
loro identità profonda, cioè la difesa e promozione della uguaglianza sociale
fino - secondo la componente comunista -
alla scomparsa totale delle classi. Senza spingersi così lontano e anzi in contrapposizione, per Ezio Mauro
(“La Repubblica”, 5 dicembre scorso), “ci sarebbe bisogno di una sinistra di
governo”, certamente “moderna, occidentale, europea...”. Sul dibattito tra
fautori del progressismo livellatore e quelli che auspicano invece la sana
concorrenza della deregulation globale, è difficile prendere posizione:
economisti e studiosi di ogni calibro e provenienza hanno detto la loro senza mai
trovare un punto d’accordo comune, lasciando ai politici e al loro rude pragmatismo
il compito di individuare una qualche via d’uscita, magari riesumando il vecchio
e disinvolto metodo del dare un colpo
alla botte e uno al cerchio.
Ricordo però qualche pagina del “Manifesto di Ventotene” che
aiuta a spiegare i problemi delle
sinistre. Il “Manifesto” è sicuramente, in molte sue parti, invecchiato e
inutilizzabile, ma ricordo bene l’impressione che mi fece, quando lo lessi la prima volta, l’affermazione
che gli Stati nazionali usciti dalla guerra sarebbero divenuti dominio delle
sinistre “sindacali” (non ho il testo sottomano, ma credo di ricordare con
esattezza questo termine – “sindacali” – per indicare la caratteristica
saliente degli Stati usciti dalla sanguinosa prova). A lungo, in Italia fu al
governo la DC, e la previsione sul predominio delle sinistre “sindacali”mi
parve non rispondente a verità. Invece, la
definizione era azzeccata. Nel secondo
dopoguerra, i sindacati, socialcomunisti o cattolici, hanno goduto di un potere
via via sempre più forte, come mai in precedenza. Divennero i protagonisti
assoluti di una dialettica partecipativa e cogestionale nella quale erano visti
come controparte privilegiata del governo,
qualunque fosse il suo colore. Fu il tempo, nei fatti se non di diritto, del
“consociativismo”, in cui un progetto di legge veniva previamente sottoposto al beneplacito delle parti sociali, vale a dire
i sindacati. Era ovvio che fosse così, il dopoguerra vide l’esplosione, anche in Italia, di una forte classe
operaia legata alle grandi
industrie, che trovava come suo punto di riferimento i partiti di massa, più o meno marxisti che
fossero, e alle loro avanguardie, i sindacati. Cose analoghe accadevano anche in Francia o altrove. Gli Stati vennero “occupati” dalle sinistre
“sindacali”. Una abnorme concezione istituzionale.
Oggi la classe operaia, nel suo complesso, è sparita o ha
perso gran parte del suo antico potere. Non è più la marxiana “classe
generale”, portatrice ed espressione dei valori della Storia. E’ dunque ugualmente ovvio
che i partiti legati alla dialettica social/nazionale siano in forte declino: non
hanno più una funzione specifica da assolvere, né possono vantare
responsabilità e doveri al di là della
difesa degli interessi particolari dei segmenti
sociali che rappresentano (o dicono di
rappresentare). La richiesta di farli
rinascere, di ricostituirli o ricostruirli, è fuori luogo, non ha senso. La vera faglia, il punto
di frattura tra conservazione e innovazione, la nuova frontiera tra passato e
futuro, è quella tra l’isolazionismo
nazionalista, il protezionismo, l’identitarismo (anche razzista) da una
parte e, dall’altra, la flessibilità inevitabile della rivoluzione digitale e
dei nuovi lavori, l’internazionalizzazione dei diritti (e dei doveri) civili e
umani, l’apertura verso l’altro, la
trasversalità. Le migrazioni sono un fenomeno epocale, che deve essere
governato nella sua ricchezza e fecondità, anche con il suo inevitabile meticciato
culturale e antropologico. Dunque, un
socialismo possibile e auspicabile è solo quello transnazionale, il socialismo dei diritti dell’uomo 2.0. Gli
appelli alla “ricostruzione” della o delle sinistre ingabbiate nei confini degli Stati nazione sono retorica, indice
di una incapacità di vedere e analizzare i problemi del nostro tempo.
Purtroppo, un partito, o partiti che li avvertano e si
preparino ad affrontarli non ci sono: tra la rovina delle vecchie élites e classi
dirigenti nazionali, non si sente il vagito di un soggetto politico transnazionale
adeguato alla bisogna. Siamo ancora, quando va bene, al tempo delle analisi.
Speriamo che non sia una perdita di tempo.
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