TRUMP? COME
RADIO PAROLACCIA
da "L'Opinione"
ottobre 2016
Più di 800 ore ininterrotte di bestemmie, insulti, oscenità,
provenienti da ogni angolo del Paese. Fu la trasmissione radiofonica più lunga e
volgare della storia: quasi 50mila minuti di sconcezze trasmesse in 35 giorni da Radio Radicale,
ribattezzata per l’occasione “Radio parolaccia”. Era il 10 luglio del 1986,
Radio Radicale versava in gravi
difficoltà economiche. Di fronte a costi
di gestione sempre più alti, era
arrivata al punto di rischiare la chiusura. I dirigenti decisero di sospendere tutti i programmi, per
lasciare la parola - senza filtri di sorta - agli ascoltatori: installarono 30
segreterie telefoniche, invitando gli italiani a registrare un messaggio di un minuto
con le proprie opinioni sulla radio.
Successe l’imprevedibile.
Attraverso il microfono ininterrottamente aperto, migliaia di sonosciuti
vomitarono scurrilità, bestemmie, insulti, in un crescendo che si nutriva e si
esaltava di se stesso. Ne uscì un’immagine del paese inedita, inaspettata, insospettabile.
Chi ricorda ancora quell’incredibile episodio non dovrebbe
avere molto da meravigliarsi, oggi, per
le scurrilità profferite da Donald Trump durante i dibattiti con Hillary Cinton
o in ogni altra occasione pubblica gli venga offerta. Le sue parolacce, i suoi
insulti, le sue battute sessiste o antifemministe non sono più volgari o grevi
di quelle che uscivano dai microfoni di Radio Radicale. Qualcuno, in quel
lontano 1986, cercò una spiegazionedell’insolito evento (allora non c’era il
web o i “social”, twitter e affini), la Lega di Bossi doveva nascere (nel 1997
o, secondo alcuni, nel 1995), ovviamente Grillo faceva ancora il capocomico,
non il capopolo, e il suo linguaggio sboccato era funzionale al suo lavoro.
Perciò i più dei commentatori misero la
trasmissione sul conto dell’ eccentricità attribuita a Marco Pannella, ai
radicali e alle loro irridenti iniziative. Mi pare che furono in pochi ad
azzardare un giudizio pienamente politico. E invece l’evento radiofonico se non prevedeva, certo precorreva una crisi socioculturale
più profonda e generale di quanto si potesse immaginare. Il fatto che oggi il
candidato alla Presidenza della Repubblica Americana, nata dal pensiero di
gente di raffinata cultura e comportamenti come come Alexander Hamilton, James Madison e John Jay
(per non parlare di Benjamin Franklin) possa raccogliere una audience
vastissima con un linguaggio che fa
inorridire non solo i benpensanti è un fatto
incredibile, che trova un paragone –
appunto - solo nel precedente di Radio Radicale.
O meglio, sembra che
sia così: in realtà anche questa vicenda si colloca in un quadro assai vasto e profondo, quello della crisi del
rapporto tra elites (non solo quelle italiane, evidentemente) e opinione pubblica.
Il rigetto della politica e delle sue
classi dirigenti è un fenomeno di portata epocale, che investe soprattutto le
democrazie (se non altro perché le dittature e i regimi tirannici sono molto
sbrigative nel reprimerlo). E finalmente commentatori, politologi ed esperti cominciano
a sospettare che non sia da prendere
sottogamba, perché potrebbe scivolare lungo
derive assai pericolose: qualcnuno è arrivato finalmente a porsi la
inquietante domanda se non sia a rischio lo stesso concetto di democrazia,quella
che si è plasmata, come la conosciamo,
da secoli.
Per mero promemoria,
vale la pena segnalare che i radicali di Marco Pannella da tempo vanno
denunciando il pericolo. E non solo lo hanno denunciato e lo denunciano, ma cercano quanto meno di individuare i possibili
rimedi. Innanzitutto, occorre comprendere quali siano le radici della
disaffezione dell’opinione pubblica verso le elites e le loro politiche: per i
radicali le ragioni stanno nella inadeguatezza delle Istituzioni statuali in
vigore. Basta tornare indietro di poco nel tempo per ricordare quanto le Istituzioni
“nazionali” fossero sentite come “valori” inattaccabili e creatori di consenso,
di sentimenti popolari e positivi. “Dulce et decorum est pro patria mori”,
scandivano i romani. Oggi, quel sentimento patriottico è scomparso. “Morire per
la patria” può apparire un segno di mera follia, le cerimonie sui morti in
questa o quella guerra vengono seguite sempre più distrattamente. L’uomo di
oggi e di domani si sente molto più apolide, internazionale ecc., che
nazionalista. Il nazionalismo dei partiti di destra estrema è solo un riflesso
di antiche paure o di inconsci pregiudizi e terrori piuttosto che indice di attaccamento positivo alla patria,
alla terra “natia”, ecc. Sul piano corrente, non sono pochi quelli che
osservano come la cosidetta “fuga dei cervelli”, su cui si perdono molte lamentazioni,
è semplicemente la ricerca di una opportunità migliore di vita, resa possibile
dalla caduta di molte barriere tra i popoli: sarebbe dunque un fatto benefico,
positivo, da apprezzare. Il suo interfaccia è nella perdita di “senso” delle
elites nazionali, che ancora guardano al passato, e non capiscono il presente e
le sue profonde pulsioni.
La gente, contro le pretese di queste ormai vuote e inutili
elites si sfoga come può, con con un comportamento riottoso, intollerante, e
magari con lo sfottò, la sguaiataggine. Trump si è semplicemente fatto portavoce
di queste insofferenze: nessuno può
pensare che quest’uomo stia rivendicando i grandi valori del “Federalist”. Il
suo stile è diverso, ma i valori di cui si fa portatore sono – al più - quelli
del Klu-klux-klan.
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