giovedì 21 novembre 2013


                                                                           B.L.

Mi rigiro nel letto, assediato da nomi e immagini: Constance Dowling, chissà perché, l'attrice americana per la quale si suicidò, dicono, Cesare Pavese. Altri tempi, nuovi ricordi, tumultuosi. Più o meno a quell’epoca una sera, o una notte, fui chiamato da un amico, al telefono che mia madre aveva appena fatto installare, così anche i vicini di casa potevano venire ad usare il nostro telefono, appeso al muro su una mensoletta, a metà della scala che portava al piano superiore. Siccome la scala non era riscaldata, per andare a telefonare, d’inverno, bisognava infilare il cappotto.

Io me ne stavo in camera mia a leggere Hegel, o Kant, non ricordo. Mi disse che stava male, che andassi a raggiungerlo, aveva bisogno di me. Mi diede anche un numero di telefono per rintracciarlo, all’occorrenza. Uscii di casa, presi uno  o due tram, non ricordo. Traversai Ponte Garibaldi e il Tevere. Non doveva essere una notte fredda, anzi. Mi incamminai per le strada che mi era stata indicata dall’amico, ma non scorsi niente, silenzio e deserto. Trovai una cabina telefonica, mi ci chiusi dentro, la voce che mi rispose era femminile, mi sembrò americana, comunque non italiana. Venne anche l’amico, al telefono, mi spiegò l’equivoco: in zona c’erano due strade dal nome simile, Via della Lungaretta e Via della Lungarina, ci si sbagliava facilmente. Sarebbe sceso lui, immediatamente, per dirmi dove andare. E difatti, esco dalla cabina telefonica e mi avvio nella direzione indicatami dall’amico. La nebbia stava salendo dalle rive del Tevere, forse resa più spessa e lutulenta dai fumi e dai vapori dei detersivi che allora pagavano lo scotto della fretta e dell'avidità e inquinavano parecchio. Infine scorsi l’amico ce avanzava verso di me. Sembrava Orson Welles quando appare, di notte, nella Vienna disastrata e incantata de “Il terzo uomo”: poteva esserlo, eccome no.

Mi strinse familiarmente il braccio, mi ringraziò di essere andato, dopo pochi passi mi spinse verso un uscio stretto, all'estremità arrotondata di un edificio tipico della zona, lievemente rococo. Salimmo non so quante rampe di scale, non molte peraltro, mi fece entrare in un portoncino dipinto di verde e oro, con figurine tipo una scenetta d’amore contadino, villereccio, con veneziane e veneziani nei loro costumi lascivi, ecc., ma dipinta, mi parve, di recente. Erano appartamenti decorati e ammobiliati per attori, attrici e attricette che allora calavano a Roma fin da Hollywood, in cerca di esotico, forse di un decantata ingenuità e freschezza di sentimenti, ecc., di cui l'Italia era ritenuta, non so quanto credibilmente, depositaria. Constance Dowling, per dire, doveva essere di quella pasta. Entrai comunque, e mi si fece davanti la padrona di casa, una attricetta inglese che conoscevo più di fama che per averla vista in qualche film del tipo peplum, che allora andavano. Non era Constance Dowling, forse era di un gradino più sotto. Ricordo il nome, ma scrivo qui solo le iniziali, B.L. Era avvolta in un chimono che suppongo originale, di un bel rosso bandiera, adornato di draghi ed altre figure di quel pantheon, d’argento o d’oro, intrecciati.  Immaginai, e forse era nel vero, che sotto fosse nuda.

L’amico era di casa ma anche servizievole. Mi mise in mano un bicchiere di bourbon, alle sue prime apparizioni sulle sponde del Tevere. Vedevo, oltre il parapetto del fiume, la casa di Milton Gendel che allora a Roma contava parecchio, era come il guru della colonia artistIca americana. Lei si distese su un sottile sofà - o una chiase-longue - io mi sedetti di fronte, accanto l’amico, mi pare su un puff. Allora usavano. Lei parlava discretamente italiano, il mio inglese faceva schifo, l’amico traduceva, quando necessario.

Mi chiese, con garbo, cosa facessi, io  le spiegai che il suo amico mi aveva chiamato al telefono, nella notte, e aveva osato spacciarsi come infelice e depresso, quindi bisognoso d’aiuto, e poiché io credevo di essere il suo unico amico  gli avevo creduto, ed eccomi ora lì, sicuro però che, tra i due, ero io l’infelice, bisognoso di soccorso spirituale e morale, e proprio non capivo cosa il mio amico potesse pretendere da me, che più che il sesso conoscevo la “Metafisica dei costumi” kantiana. Chiacchierammo a lungo, anche amabilmente, trovai in me l’energia della fatuità che è incredibilmente dispendiosa: tanto che, dopo un’oretta o poco più, tra l'emozione per l'ambiente e l'incontro, ma soprattutto per il bourbon, ero sbronzo. Mi accomiatai, non ricordo se mi offrirono un tassì. Forse arrivai a prendere il tram, magari era l’ultima corsa. Mi ricordo che quando scesi barcollavo e dovetti farmi forza per trascinarmi fino a casa. A casa dormivano tutti. Dovetti battere i pugni sul portone perché qualcuno venisse ad aprirmi.  Non avevo la chiave, mio padre non voleva che ce ne fosse in giro più di una copia, aveva il terrore dei ladri, come delle tasse e delle assicurazioni. Aprirono, finalmente, dovettero vedermi malconcio, mi spogliarono e mi misero a letto. Avevo le estremità, le mani e i piedi, atrofici dal freddo e dai liquori; suppongo che il sangue vi si fosse arrestato. La sgualdrina che allora frequentava casa come donna delle pulizie mise sul fuoco pentole e pentolone, in quell’acqua bollente gettò a scaldare stracci e panni e con questi vennero avvoltolate le mie estremità, del tutto ormai inerti... Intorno a me scorgevo appena i volti ansiosi di tutta la famiglia. Mi parvero grotteschi, più che miserabili. Ma io scorsi allora, in quelle facce, tutta la merdosa miseria del mondo, scoprii le loro illusioni, misi a nudo, scorticai, tutta la loro umana infelicità e tutta glie le scaricai addosso, balbettando e piangendo: lo feci non per cattiveria, ma perché ne avevo il cuore gonfio, e non reggevo più, da solo, a tenerle dentro, certe cose. Fu una notte spaventosa, quella, davvero...

Anni dopo la rividi, l'attricetta. Stavo pranzando a un ristorante nella piazzetta sotto la casa di lei, ma di sicuro non pensavo a lei. Ero in compagnia di quella che poi è diventata mia moglie. L'attrice ci passò accanto, ovviamente non mi riconobbe. Aveva al guinzaglio un cagnolino nero. Era molto ingrassata.



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