“Ô
mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre ! »
(«Le Voyage », Ch.
Baudelaire)
Parlare del dopo (1).
Scusate, non c’è nulla di più piacevole, o anche di più urgente,
su cui intrattenerci? Parlare della morte, del dopo! Un domani tanto
lontano… Che? Oddio!… Mi chiedete addirittura di parlare del
“mio” dopo? Così su due piedi? Facciamo le debite scaramanzie! E
metterlo in piazza, suvvia … Io sono molto sensibile, fragile di
stomaco. E poi, il mio dopo… Io mi farò cremare, punto e basta.
Parlare del dopo (2).
Cosa volete che venga fuori, ormai. Se ne è parlato e straparlato
per secoli, peraltro spudoratamente, senza saperne proprio niente! Un
mio amico, affiliato ai “Bimbi di Satana”, mi assicura che sulla
morte e sul dopo loro ne sanno molto di più di quel che possano
vantare i preti. Va bene, balle qui, balle là. Oggi, grazie alla
sobrietà della moderna cultura scientifica, quel che viene richiesto
nel merito è un referto, non più di cinque, dieci righe su moduli
prestampati. Di ciò che non conosciamo cosa di più potremmo dire?
Sogni, vaneggiamenti, incubi, cattiva digestione serale, flatulenze
da meteoropatici. Sì, la scienza moderna è un grande disinfettante
del pensiero: senza preti, filosofi e poeti, la morte è una faccenda
semplicissima. Adesso, addirittura, l’attimo e le modalità del suo
arrivo sono divenuti un dato convenzionale. Senza rimpianti, abbiamo
sbaraccato via l’antichissimo detto secondo cui l’uomo muore
quando “il suo cuore cessa di battere”. Era un modo di dire
carico di significati extrascientifici, non verificabili, piuttosto
sul patetico. Adesso la morte avviene - anzi, viene fissata - al
momento in cui cessa l’attività cerebrale. La definizione è del
tutto arbitraria, però consente di poter tempestivamente strappare
al morto - chiamiamolo così, per approssimazione - utilissimi
brandelli da utilizzare per allungare altre vite. Perfino la chiesa
concede dilazioni convenzionate - una mezz’ora, un’oretta - per
l’estrema unzione. Chi ci rimette è il dopo: senza un orario
biologico preciso, senza certezze naturali, mette l’angoscia. Non
possiamo più inginocchiarci in raccoglimento dinanzi al letto
dell’agonizzante: vorremmo poterlo dichiarare morto per esplicita
volontà di Dio, e quindi attaccare serenamente con le preghiere e i
rimpianti. L’anima sta lì, impaziente, con le valigie a terra,
bussa alla porta del dopo ma questo si apre a orari sindacali. E’
solo con l’avvento delle questioni etiche e sensibili, tipo il
testamento biologico, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia, o
con l’ingresso in campo terapeutico di sofisticate macchine capaci
di allungarti la vita persino oltre la sopportazione - come la
ventilazione artificiale, la nutrizione per sonda gastrica, eccetera
- che il momento della morte è tornato a offrire un qualche brivido,
dando adito perfino a eccitanti dispute tra spirito e materia.
Shakespeare, la
“Tempesta”. Alla fine del IV atto, Prospero saluta gli
spettatori: “La nostra baldoria è finita… Come l’edificio
privo di sostanza che è questa visione:…tutto quello che ha in
retaggio svanirà, senza lasciare traccia. Noi siamo della materia di
cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata dal
sonno”. Il tragico inglese raccoglie, e trasmette a noi posteri,
l’immagine della vita come rappresentazione, spettacolo senza
realtà e sostanza: vana materia di cui sono fatti i sogni. Ma se la
vita è una “baseless fabric”, apparenza, spettacolo
rappresentato su fondali di cartapesta, quale potrà mai essere, che
consistenza potrà avere, il dopo di questa messa in scena? Pare che
Augusto, morendo, abbia chiesto a quanti lo assistevano: “Ho
rappresentato bene la mia parte?” Per i romani la “persona” era
la maschera indossata dall’attore, il quale recitava col volto
celato da quella. L’anima esprimerà l’identità della maschera -
la “persona” - oppure quella dell’attore che le si nasconde
dietro?
Alla morte si addice
l’aforisma. Come l’epitaffio inciso sulla lapide della tomba
canoviana sulla quale si abbandona, reclinata, la fanciulla “rorida”
di lacrime (sembra uscita da un bel verso foscoliano o leopardiano)
l’aforisma è marmoreo, immutabile e definitivo, senza tempo e
spettrale: ha il timbro perfetto per introdurci al dopo.
Ho dimenticato in quale
sequenza vadano disposte le due icone, il “Trionfo della morte” e
il “Trionfo del tempo”. Mi chiedo, ansiosamente: è la morte che
trionfa sul tempo o, invece, è il tempo che trionfa sulla morte?
Pare accertato: l’uomo
non è più una belva, o bestia, da quando ha cominciato a seppellire
i suoi morti invece di abbandonarli lungo le piste delle savane. Il
seppellimento è cerimonia, innalzamento della morte nella sfera
simbolica, linguaggio. Con la sepoltura, il morire significa.
Significa, anzi, qualcosa di inquietante. Il vivente sente il morto
come “altro”, e questo “altro” lo allarma. Allora pone
accanto al suo corpo doni gratificanti che lo accompagnino, lo
intrattengano. Il vivente si è fissato che quello là possa
riapparire, chiedergli qualcosa, forse ricattarlo, minacciarlo di
prenderselo con sé, di portarlo via nel suo mondo, che è un mondo
alla rovescia, il negativo del mondo dei viventi. Bisogna
assolutamente impedirgli di tornare, di rifarsi - come dire - vivo.
Ma questo temutissimo tornare è già di per sé - chi lo avrebbe
detto? - uno scacco al dopo. Il possibile ritorno dal mondo dei
morti a quello dei viventi demistifica, svalorizza il dopo, quel
luogo vagheggiato che immaginiamo nobilmente abitato da spiriti,
ombre, anime. Queste sono infelici, senza pace, si annoiano, il loro
trasparente pallore non può dare, né ricevere, amore. Non stupisce
se sono sempre prontissime a ritornare sulla terra. A rifletterci
bene, loro stesse negano il dopo. Dicono, anzi gridano che ciò che
conta non è il dopo, è la vita fatta di carne e ossa, e dunque esse
aspirano a ritornarvi. In Virgilio le ombre, all’imboccatura
dell’Averno, fanno a spintoni per poter bere il sangue, sugo e
calore vitale, che Enea gli offre perché parlino. Mi pare che anche
nella concezione cristiana del Giudizio Universale si insinui
l’aspirazione all’annullamento del dopo, al ritorno a questa
vita, addirittura svincolata dal tempo e dai suoi limiti. Si prega
Dio, “dona loro la vita eterna”: mica una morte eterna.
Adesso ci si mettono
anche le diavolerie (?) telematiche. I siti, google, “You Tube”
e finalmente “Second Life”: una “seconda vita” fantastica,
molto meglio, più “handy” delta logora triade di inferno,
purgatorio e paradiso. Sta lì, distante da noi solo di una cliccata,
e soddisfa tutti i desideri e le fantasie, un gioco di “Monopoli”
mobile, interattivo e reversibile. E’ una “second life” che ti
puoi godere durante la prima vita. C’è il sospetto che tra non
molto l’intera umanità si trasferirà nel villaggione telematico
riproducendo a puntino il mondo dei viventi, un po’ come già
adesso ci capita, senza che lo sappiamo, con “google earth”.
Divenuti pura energia inconsumabile, saremo finalmente immortali.
Sono molto arrabbiato
per la liquidazione per decreto del limbo. Un vero errore. Togliere
ai bimbi il limbo, è come togliere loro “Biancaneve e i sette
nani”, quella di Disney (il limbo, un fanciulletto se lo immaginava
così). Da piccolo, soffrii parecchio sulla sorte di un infante,
figlio di vicini di casa, morto poco dopo esser nato. “E’ andato
nel limbo degli innocenti”, commentò mia madre, e mi fece
piangere. Sentii attorno a me, al mio piccolo cuore infantile,
aleggiare il profumo dei gigli che adornavano quel corpicino.
Invidiai una morte così pura, ero consapevole che essa era ormai
impossibile per me: la mia innocenza cominciava precocemente a
incrinarsi. Che dolci lacrime furono quelle! E ora, bruscamente,
apprendo che la patria dell’innocenza non c’è più, anzi non è
mai esistita. Voglio essere risarcito di questo scippo. Non c’è
però solo la perdita del limbo. L’affabulazione cristiana si
impiglia nella sempre più diffusa difficoltà, se non impossibilità,
di concepire (e fare accettare) il dopo come il tempo deputato al
giudizio riparatore, alla restaurazione della giustizia offesa e
disattesa nella vita, come ci viene raffigurato dall’Orcagna o da
Dante, per capirci. Il riscatto ultraterreno, il paradiso offerto a
colui che ha patito ingiustizia, al povero, al reietto, a chi si è
visto spogliare di tutto dalla violenza e crudeltà degli uomini e si
affida alla promessa di non essere costretto, come il ricco, a
passare per la cruna dell’ago per essere risarcito, il paradiso
intravisto come giardino di delizie che soddisfi in compiuta
abbondanza i desideri ingiustamente inappagati e repressi (“perché
mi sono negati? perché solo a me?”); e d’altra parte l’inferno,
quale esatto rovescio del paradiso nel quale ficcare tutti quelli che
odi, che invidi perché più belli, buoni e bravi… Tutta una
mitologia che ha perduto ogni credito. Il pareggio dei conti con la
giustizia lo vogliamo in questa vita, nessuno ha tempo di aspettare,
competition is competition. Il dio che siede come giudice buono sullo
scranno nella basilica luminosa ed eterna non ha appeal. Mi pare che
ormai il cristianesimo tenda a superare questa concezione, a
liquidarne le difficoltà ed incongruenze, parlando sempre più,
invece, del dopo come il tempo del trionfo dell’amore, dell’amore
luminoso in cui l’anima si dissolve per fondersi in Dio. Qualche
teologo insiste - secondo l’etica capitalista - sul concetto di
retribuzione secondo i meriti e non secondo i bisogni, come
vorrebbero certi attardati socialisti, ma resta inascoltato. Non
fosse per quell’aggettivo - misericordioso - che viene attribuito,
come sua essenziale parte, all’amore divino, questa forma del dopo
paradisiaco sembrerebbe una vittoria, o vendetta, del neoplatonismo.
Nel dopo, non c’è più
bisogno della privacy: diciamocelo, la privacy, come il pudore, ci
serve - e comunque ci è utile - per nascondere i nostri peccati, le
nostre vergogne. Le anime vanno in giro nude, meno che nella Cappella
Sistina.
La morte è un racconto
raccontato da altri. L’atto supremo e conclusivo del vivere non
appartiene al suo protagonista. Chi muore, diventa dominio di altri.
Sono loro a raccontarne la morte, a raccontarla come loro la vedono,
la soffrono, addirittura come la vivono. Quello che noi sappiamo
della morte è in questi racconti, i racconti degli spettatori dello
spettacolo.
Ho avuto esperienze già
infantili della morte. Di quella strana, incomprensibile faccenda mi
sono raccontato più volte la storia. Cercavo spiegazioni con la
pignoleria dell’incoscienza. Ma quelle mi si rifiutavano quando
ammazzavo a sassate la lucertola, che agonizzava a lungo con le
budella di fuori, la coda tremolante. Il dopo della morte era già lì
davanti a me, non richiedeva spiegazioni, non c’era più nulla da
dire. Ricordo quando mi morì la biscia che avevo esposto
incautamente al sole dentro un contenitore inadeguato. Le bisce le
afferravo con le mani tra i canneti e le stoppie, vicino al Tevere,
le nascondevo sotto il letto. Quella morì, e ne portai a lungo un
atroce rimorso. Ma per quanto ci pensassi, per quanto mi ci
arrovellassi, mi veniva alla mente sempre e solo quel momento, il
momento del decesso, la cronaca di quegli istanti di orrore. Anche
per gli uomini, più tardi, il dopo della morte è stato per me
racchiuso nel ripetersi, sempre identico, dei momenti successivi alla
morte, quel che vedevo svolgersi lì intorno nella stanza, in quel
silenzio strano che incombe, pur se percorso da mille inconfondibili
rumori, attutiti e soffocati, perfino nell’odore che ristagna a
lungo. Sì, sospettavo che quei momenti nascondessero strani segreti,
qualcosa d’altro a me ignoto, adombrato e pronto a dileguare appena
percepito. Io però non volevo saperne, e nascondevo la testa quando
quei segreti minacciavano di uscire fuori, di rivelarsi. Forse non
volevo assumermi responsabilità: forse, ancor peggio, non volevo
crescere. Chi non ha provato, almeno una volta, questa straordinaria
sensazione, o tentazione?
Morì, non ero ancora un
adolescente, mia nonna. Mio padre mi chiamò in disparte, mi sussurrò
che era morta sua madre. Viveva con noi da quando era rimasta vedova.
La salma venne vestita dalle donne di casa. Pochi, del vicinato,
erano venuti a depositare due fiori, a recitare giaculatorie dinanzi
al grande letto. Fui finalmente ammesso nella stanza. Vi restai a
lungo. Anche solo, nel primo pomeriggio, mentre la stanza si
appesantiva sempre più di odori strani, stramortiti, misti di fiori
appassiti e di candele sgocciolanti in serpentine, fino a terra. In
casa tutti dormivano, e io osservavo con ribrezzo il profilo della
defunta, chiuso nei suoi incolmabili pensieri, farsi sempre più
grifagno. Mi intimorì, mi riempì di antichi terrori, mi richiamò a
quella pratiche religiose che a lei erano usuali e che io a volte
avevo tentato di imitare. Raccolsi dal comodino a capo del letto un
libro di preghiere, con la copertina nera e l’orlo delle pagine
dorato. Lo aprii a caso, aveva bellissimi caratteri e i capolettera
rossi, incorniciati da un filetto d’oro. Io pensavo che fosse
nell’oro il senso loro più intimo e, almeno per me, inimitabile.
Quelle pagine mi attiravano sempre, le scorrevo con attenzione
compunta. Cominciai a leggere, a recitare gli inni, le giaculatorie,
le orazioni: “Kyrie Eleison - ora pro nobis”, “Sancta Maria,
mater gratiae - ora pro nobis”, “Christe, eleison - ora pro
nobis”. Sedevo sulla poltrona a fianco del letto. Il letto aveva la
testiera metallica patinata di marrone, la coperta color vinaccia con
una trina di ghiande che pendeva sfilacciata. Il corpo della nonna
era di una immobilità infinita. Mi alzai di scatto, estrassi dalla
tasca le palline di resina ambrata che avevo raccolto dagli alberi
del giardino. Ne presi un paio, mi avvicinai alla morta. Mi tremavano
le mani, la morte era un gelo inspiegabile. Riuscii a sollevare un
poco il dito avvolto attorno al rosario con il crocifisso, deposi le
due palline di resina. Il dito si richiuse sul dono. Rimasi qualche
istante immobile. Mi sentii liberato, innocente di ogni colpa, non
solo verso la defunta.
L’errore della
modernità, del laicismo postilluminista, è stato di pensare che,
con l’avvento della ragione, il progresso delle scienze,
l’evoluzione della società, la paura della morte sarebbe
scomparsa, assorbita in una razionale comprensione e accettazione
dell’evento. I lumi avrebbero scacciato le tenebre dell’ignoranza
superstiziosa. Conoscete Goya, quello de “il sonno della ragione
genera mostri…”. Cartesio pone al centro delle certezze lo “Io
cogito” che mette fine all’irrazionalità di una storia fatta di
errori, di menzogne del potere, di mistificazioni operate da preti e
ciarlatani. Tutto vero, ma anche tutto reversibile: anche la ragione,
e i suoi sacerdoti, possono produrre mostri e mistificazioni. Contro
il nuovo inganno, si levò subito la grandiosa saggezza storica di
Vico, che esaltava “le are e templi” come costitutivi dell’umano
fare: l’errore è parte della storia e, se si vuole, pure la
menzogna. Dunque, anche la paura della morte, l’immaginario del
dopo, ha una sua verità. Consentendo alla modernità, imponendo la
fine dell’elaborazione culturale della morte, irrisa come
pregiudizio, superstizione, inganno dei preti, abbiamo aperto la
strada alla sociologia o alla psichiatria. Ovviamente: non si può
mica pretendere da tutti il disincantato pessimismo degli stoici,
con la loro lucida teoria del suicidio come porta della libertà.
“Laudato si’, mi’
Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo
vivente po’ skappare:
guai a quelli ke
morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà
ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no
‘l farrà male”.
(“Cantico delle Creature”, S. Francesco)
Hieronymus Bosch,
olandese, 1450-1510, le punizioni infernali delle anime prave
Adesso, se verrà
accolta alle nazioni Unite la moratoria della pena di morte, ci
mancherà anche quel formidabile repertorio di immagini, sensazioni e
mitologia che erano le riprese, le ricostruzioni delle esecuzioni
capitali in USA, con il “dead man walking”, il “braccio della
morte”, lo spettacolo attraverso i vetri offerto ai vendicativi,
insaziati parenti della vittima. L’industria cinematografica
americana perde un bel “topic”…
Pieter Brueghel il
Vecchio, il “Trionfo della morte”, 1562, E Dürer, con i suoi
scheletri a cavallo che falciano, falciano (simbolo agricolo, oggi
forse incomprensibile)
Forse, il primo mio
incontro con la morte fu per mia nonna
Spoon river antology
Come a Piazza del
popolo, le tricoteuses.
Murat
e Ischia,
Siamo legittimati dal
tempo,dalla sua durata. Non possiamo fare a meno del tempo, e dunque
aspiriamo, conseguentemente, all’eternità, per non essere
sottratti al tempo e dunque scomparire. Il nostro io non lo
sopporterebbe: ecco perché abbamo scoperto, ci siamo inventati
l’eternità, che è semplicemente un dopo infinito.
Il potere e la morte. Il
tragico ha come orizzonte la morte, il comico no, solo la vita.
Morire non è, dunque,
per la specie umana, un semplice passaggio di stato, come vorrebbe –
come ha tentato di convincerci l’illuminismo, il laicismo, il
progressismo, cone le loro campogne contro le fole dei credenti. La
morte diventa il punto conclusivo di quell’eterno presente in cui
siamo immersi, incomprensibile cesura che non è cesura, perché il
morto continua a vivere con noi, ecc.
Scomparsa del memento
mori
Yorick, sul teschio,
canto della vita, ecc. il teschio e lo scheletro, nel medioevo e
nella controriforma. Nel rinascimento, lo scheletro diventa un
referto di anatomia. Poi, Murat, cimitero dei capuuccini, ecc., fgià
appunti esistenti, copmpreso canova.
Che ne so io, dei miei
percorsi? I miei percorsi mi attraversano.
L’amore
misericordioso: dove solo il misericordioso non è neoplatonico
Accorgersi che la morte
è un male collettivo, di massa, scandito da una conta. Oggi, c’è
per noi l’acuta percezione di essere anche noi, nel morire, nulla
più che un numero.
Perché
pensare che la filosofia possa essere consolazione della vita,
consolazione dalla morte?
Ci sfugge la sua verità,
quella che si esprime nella sua attualità, nel suo presente, nel suo
presentarsi a noi. C’è un detto, attribuito non so se a uno
stoico, a un epicureo o a un cinico: quando sei vivo, la morte non
c’è, quando c’è la morte, tu non ci sei più; e dunque, di che
preoccuparsi? Ce ne preoccupiamo, invece. Preoccuparsene forse è un
male, una esagerazione pagata con disturbi di vario genere:
occuparsene, almeno un poco, mi pare invece un bene, una attività
non priva di utilità. Persino di segreti, magari inconfessabili,
piaceri.
11356
Pannella non pensa al
dopo
"Estote
parati", lesse.
La morte, ridotta a
fatto personale….
Perché il dopo è puro immaginario. E’ sublime
creazione, anche essa, dell’uomo. E’ il senso vero del simbolismo
di Foscolo, sicuramente più ricco del tetro romanticismo di Thomas
Grazìy. Gli inglesi sono maestri nel progettare i cimiteri, lì, tra
quel verde e quelle lapidi corrose, mai o rarissimamente pompose,
ildopo è proprio a fianco dell’oggi, la morte si fa percorso per i
viventi, i viventi passeggiano tra i morti. Dovrebbero non averne
paura, ma la letteratura nera, dell’orrore, è anche essa
britannica. Il “dopo” delle tombe del canova, delle urne di
Thomas Gray o di Keats e Shelley,,,,, L’abisso diventa un
retroscena su cui si staglia l’ombra del convitato di pietra, il
commendatore di Mozart, deposito di tutte le nostre colpe, ecc.
Non è la vita, forse, ad essere un sogno, ma la
morte.
“Appunti per il dopo”: allegria di
naufragi... L’anno scorso, il tema propostoci era la concupiscenza.
Furbamente, io mi sono aggrappato a Sant’Agostino o a San Tommaso,
con qualche spruzzata di roba greca. Ero obbligato, e tutto era
facile. Quest’anno, come evitare, ahimè, di impigliarsi nei
parati nero e oro della controriforma? Prima della controriforma,
c’era un “dopo” disegnato per le plebi, un po’ rozzamente,
dagli affreschi dell’Orcagna o del Signorelli, Michelangelo aveva
conferito una grandezza classica al tema del Giudizio Universale, che
è il “dopo” per eccellenza di ogni credente, ma ancora si era
nella sfera della classicità, riservata agli addetti ai lavori, le
classi colte, i signori della terra, clero o laici che fossero. Con
la controriforma tutto questo pacco di riferimenti viene abbandonato,
e le plebi come i signori vengono posti di fronte ad un unico
orizzonte di destino, quello cupo ed infero di cui resta traccia in
certe tombe barocche romane. I cappuccini infieriscono, inventano
l’apoteosi, la rappresentazione sacra delle loro cripte, nelle
quali un ossario degno di Pol Pot fissa occhiaie vuote e febbrili su
una umanità di peccatori, di orantim, di incappucciati, di
flagellanti riemersi dal fondo del medioevo più nero per invadere
ogni sentina dell’immaginario.
C’è anche un risvolto classico.
Il salto nel vuoto di Thelma e Louise con l’auto,
quello di Jules e Jim con…, sono un suicidio?
E’ più complesso….
Durkheim
L’anoressica
Si può vivere senza la percezione del dopo? Del
tempo? Il presente (attimo, sei bello, Goethe) come tempo assoluto.
Il futuro è compreso nel presente, come attesa, il passato come
memoria, funzione, anche essa, del presente.
Il cimitero dei cappuccini a Roma, la cripta dei
cappuccini a Vienna, perché i cappuccini?
Poi: i crani di Pol Pot e delle epurazioni etniche
in jugoslavia
L’esistenzialismo. Noi siamo dati
alla morte
Fare un pout porri da Shakespeare, la
scea dei teschi, ecc., poi la cripta dei cappuccini a Vienna e
Ischia, e Via Venetonaturalmente, potrei anche immaginarmi chde uel
che faccio, vedo, sono, ecc., è tutto un mio sogno, (Vida es sueno)
immaginazione, Shakespeare, ecc. compresa la Storia( !), il reale,
ecc.
Non c’è nulla che mi dia il senso
dell’offesa quanto il corpo di un morto, abbandonato alla mercé di
altri.
La
morte ha per me l’aspetto di un’opera canoviana
C’è un prima, pomposamente detto storia, origine. Un
adesso, che sarebbe l’ora presente e sfuggente. Un dopo. E’ del dopo
che vorremmo parlare. Su un giornale quotidiano, ma con
quattordicimila battute di computer a disposizione. Come sempre,
scriverne in modo libero, questo vorremmo. Nella forma di appunti
personali, se lo si voglia. O in altra forma. Il dopo è semplicemente
immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia,
teologia, science fiction (la scienza esatta ne sa nulla). Offre
inquietudine, che è una buona cosa. Oppure l’idea del riposo, che è
un’altra buona cosa. Con il dopo la maggior parte della gente convive
irriflessivamente. E che cosa c’è mai di più irriflessivo, di più
scaramantico, di più futile e anche edificante della preghiera del
mattino recitata nella scrittura e lettura di un giornale quotidiano?
In Aristotele il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e
il poi”, un numero. In Platone un’immagine, “immagine mobile
dell’eternità”. Si tratta di scegliere, e di pubblicare e firmare una
pagina che tutti leggeranno. Perché la gente è curiosa degli appunti
personali e, nonostante tutto, vorrebbe essere informata su quello
che sta dopo.
adesso, che sarebbe l’ora presente e sfuggente. Un dopo. E’ del dopo
che vorremmo parlare. Su un giornale quotidiano, ma con
quattordicimila battute di computer a disposizione. Come sempre,
scriverne in modo libero, questo vorremmo. Nella forma di appunti
personali, se lo si voglia. O in altra forma. Il dopo è semplicemente
immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia,
teologia, science fiction (la scienza esatta ne sa nulla). Offre
inquietudine, che è una buona cosa. Oppure l’idea del riposo, che è
un’altra buona cosa. Con il dopo la maggior parte della gente convive
irriflessivamente. E che cosa c’è mai di più irriflessivo, di più
scaramantico, di più futile e anche edificante della preghiera del
mattino recitata nella scrittura e lettura di un giornale quotidiano?
In Aristotele il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e
il poi”, un numero. In Platone un’immagine, “immagine mobile
dell’eternità”. Si tratta di scegliere, e di pubblicare e firmare una
pagina che tutti leggeranno. Perché la gente è curiosa degli appunti
personali e, nonostante tutto, vorrebbe essere informata su quello
che sta dopo.
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