sabato 9 novembre 2013



Ô mort, vieux capitaine, il est temps! levons l’ancre ! »
(«Le Voyage », Ch. Baudelaire)

Parlare del dopo (1). Scusate, non c’è nulla di più piacevole, o anche di più urgente, su cui intrattenerci? Parlare della morte, del dopo! Un domani tanto lontano… Che? Oddio!… Mi chiedete addirittura di parlare del “mio” dopo? Così su due piedi? Facciamo le debite scaramanzie! E metterlo in piazza, suvvia … Io sono molto sensibile, fragile di stomaco. E poi, il mio dopo… Io mi farò cremare, punto e basta.

Parlare del dopo (2). Cosa volete che venga fuori, ormai. Se ne è parlato e straparlato per secoli, peraltro spudoratamente, senza saperne proprio niente! Un mio amico, affiliato ai “Bimbi di Satana”, mi assicura che sulla morte e sul dopo loro ne sanno molto di più di quel che possano vantare i preti. Va bene, balle qui, balle là. Oggi, grazie alla sobrietà della moderna cultura scientifica, quel che viene richiesto nel merito è un referto, non più di cinque, dieci righe su moduli prestampati. Di ciò che non conosciamo cosa di più potremmo dire? Sogni, vaneggiamenti, incubi, cattiva digestione serale, flatulenze da meteoropatici. Sì, la scienza moderna è un grande disinfettante del pensiero: senza preti, filosofi e poeti, la morte è una faccenda semplicissima. Adesso, addirittura, l’attimo e le modalità del suo arrivo sono divenuti un dato convenzionale. Senza rimpianti, abbiamo sbaraccato via l’antichissimo detto secondo cui l’uomo muore quando “il suo cuore cessa di battere”. Era un modo di dire carico di significati extrascientifici, non verificabili, piuttosto sul patetico. Adesso la morte avviene - anzi, viene fissata - al momento in cui cessa l’attività cerebrale. La definizione è del tutto arbitraria, però consente di poter tempestivamente strappare al morto - chiamiamolo così, per approssimazione - utilissimi brandelli da utilizzare per allungare altre vite. Perfino la chiesa concede dilazioni convenzionate - una mezz’ora, un’oretta - per l’estrema unzione. Chi ci rimette è il dopo: senza un orario biologico preciso, senza certezze naturali, mette l’angoscia. Non possiamo più inginocchiarci in raccoglimento dinanzi al letto dell’agonizzante: vorremmo poterlo dichiarare morto per esplicita volontà di Dio, e quindi attaccare serenamente con le preghiere e i rimpianti. L’anima sta lì, impaziente, con le valigie a terra, bussa alla porta del dopo ma questo si apre a orari sindacali. E’ solo con l’avvento delle questioni etiche e sensibili, tipo il testamento biologico, l’accanimento terapeutico, l’eutanasia, o con l’ingresso in campo terapeutico di sofisticate macchine capaci di allungarti la vita persino oltre la sopportazione - come la ventilazione artificiale, la nutrizione per sonda gastrica, eccetera - che il momento della morte è tornato a offrire un qualche brivido, dando adito perfino a eccitanti dispute tra spirito e materia.
Shakespeare, la “Tempesta”. Alla fine del IV atto, Prospero saluta gli spettatori: “La nostra baldoria è finita… Come l’edificio privo di sostanza che è questa visione:…tutto quello che ha in retaggio svanirà, senza lasciare traccia. Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita è circondata dal sonno”. Il tragico inglese raccoglie, e trasmette a noi posteri, l’immagine della vita come rappresentazione, spettacolo senza realtà e sostanza: vana materia di cui sono fatti i sogni. Ma se la vita è una “baseless fabric”, apparenza, spettacolo rappresentato su fondali di cartapesta, quale potrà mai essere, che consistenza potrà avere, il dopo di questa messa in scena? Pare che Augusto, morendo, abbia chiesto a quanti lo assistevano: “Ho rappresentato bene la mia parte?” Per i romani la “persona” era la maschera indossata dall’attore, il quale recitava col volto celato da quella. L’anima esprimerà l’identità della maschera - la “persona” - oppure quella dell’attore che le si nasconde dietro?
Alla morte si addice l’aforisma. Come l’epitaffio inciso sulla lapide della tomba canoviana sulla quale si abbandona, reclinata, la fanciulla “rorida” di lacrime (sembra uscita da un bel verso foscoliano o leopardiano) l’aforisma è marmoreo, immutabile e definitivo, senza tempo e spettrale: ha il timbro perfetto per introdurci al dopo.
Ho dimenticato in quale sequenza vadano disposte le due icone, il “Trionfo della morte” e il “Trionfo del tempo”. Mi chiedo, ansiosamente: è la morte che trionfa sul tempo o, invece, è il tempo che trionfa sulla morte?
Pare accertato: l’uomo non è più una belva, o bestia, da quando ha cominciato a seppellire i suoi morti invece di abbandonarli lungo le piste delle savane. Il seppellimento è cerimonia, innalzamento della morte nella sfera simbolica, linguaggio. Con la sepoltura, il morire significa. Significa, anzi, qualcosa di inquietante. Il vivente sente il morto come “altro”, e questo “altro” lo allarma. Allora pone accanto al suo corpo doni gratificanti che lo accompagnino, lo intrattengano. Il vivente si è fissato che quello là possa riapparire, chiedergli qualcosa, forse ricattarlo, minacciarlo di prenderselo con sé, di portarlo via nel suo mondo, che è un mondo alla rovescia, il negativo del mondo dei viventi. Bisogna assolutamente impedirgli di tornare, di rifarsi - come dire - vivo. Ma questo temutissimo tornare è già di per sé - chi lo avrebbe detto? - uno scacco al dopo. Il possibile ritorno dal mondo dei morti a quello dei viventi demistifica, svalorizza il dopo, quel luogo vagheggiato che immaginiamo nobilmente abitato da spiriti, ombre, anime. Queste sono infelici, senza pace, si annoiano, il loro trasparente pallore non può dare, né ricevere, amore. Non stupisce se sono sempre prontissime a ritornare sulla terra. A rifletterci bene, loro stesse negano il dopo. Dicono, anzi gridano che ciò che conta non è il dopo, è la vita fatta di carne e ossa, e dunque esse aspirano a ritornarvi. In Virgilio le ombre, all’imboccatura dell’Averno, fanno a spintoni per poter bere il sangue, sugo e calore vitale, che Enea gli offre perché parlino. Mi pare che anche nella concezione cristiana del Giudizio Universale si insinui l’aspirazione all’annullamento del dopo, al ritorno a questa vita, addirittura svincolata dal tempo e dai suoi limiti. Si prega Dio, “dona loro la vita eterna”: mica una morte eterna.

Adesso ci si mettono anche le diavolerie (?) telematiche. I siti, google, “You Tube” e finalmente “Second Life”: una “seconda vita” fantastica, molto meglio, più “handy” delta logora triade di inferno, purgatorio e paradiso. Sta lì, distante da noi solo di una cliccata, e soddisfa tutti i desideri e le fantasie, un gioco di “Monopoli” mobile, interattivo e reversibile. E’ una “second life” che ti puoi godere durante la prima vita. C’è il sospetto che tra non molto l’intera umanità si trasferirà nel villaggione telematico riproducendo a puntino il mondo dei viventi, un po’ come già adesso ci capita, senza che lo sappiamo, con “google earth”. Divenuti pura energia inconsumabile, saremo finalmente immortali.
Sono molto arrabbiato per la liquidazione per decreto del limbo. Un vero errore. Togliere ai bimbi il limbo, è come togliere loro “Biancaneve e i sette nani”, quella di Disney (il limbo, un fanciulletto se lo immaginava così). Da piccolo, soffrii parecchio sulla sorte di un infante, figlio di vicini di casa, morto poco dopo esser nato. “E’ andato nel limbo degli innocenti”, commentò mia madre, e mi fece piangere. Sentii attorno a me, al mio piccolo cuore infantile, aleggiare il profumo dei gigli che adornavano quel corpicino. Invidiai una morte così pura, ero consapevole che essa era ormai impossibile per me: la mia innocenza cominciava precocemente a incrinarsi. Che dolci lacrime furono quelle! E ora, bruscamente, apprendo che la patria dell’innocenza non c’è più, anzi non è mai esistita. Voglio essere risarcito di questo scippo. Non c’è però solo la perdita del limbo. L’affabulazione cristiana si impiglia nella sempre più diffusa difficoltà, se non impossibilità, di concepire (e fare accettare) il dopo come il tempo deputato al giudizio riparatore, alla restaurazione della giustizia offesa e disattesa nella vita, come ci viene raffigurato dall’Orcagna o da Dante, per capirci. Il riscatto ultraterreno, il paradiso offerto a colui che ha patito ingiustizia, al povero, al reietto, a chi si è visto spogliare di tutto dalla violenza e crudeltà degli uomini e si affida alla promessa di non essere costretto, come il ricco, a passare per la cruna dell’ago per essere risarcito, il paradiso intravisto come giardino di delizie che soddisfi in compiuta abbondanza i desideri ingiustamente inappagati e repressi (“perché mi sono negati? perché solo a me?”); e d’altra parte l’inferno, quale esatto rovescio del paradiso nel quale ficcare tutti quelli che odi, che invidi perché più belli, buoni e bravi… Tutta una mitologia che ha perduto ogni credito. Il pareggio dei conti con la giustizia lo vogliamo in questa vita, nessuno ha tempo di aspettare, competition is competition. Il dio che siede come giudice buono sullo scranno nella basilica luminosa ed eterna non ha appeal. Mi pare che ormai il cristianesimo tenda a superare questa concezione, a liquidarne le difficoltà ed incongruenze, parlando sempre più, invece, del dopo come il tempo del trionfo dell’amore, dell’amore luminoso in cui l’anima si dissolve per fondersi in Dio. Qualche teologo insiste - secondo l’etica capitalista - sul concetto di retribuzione secondo i meriti e non secondo i bisogni, come vorrebbero certi attardati socialisti, ma resta inascoltato. Non fosse per quell’aggettivo - misericordioso - che viene attribuito, come sua essenziale parte, all’amore divino, questa forma del dopo paradisiaco sembrerebbe una vittoria, o vendetta, del neoplatonismo.
Nel dopo, non c’è più bisogno della privacy: diciamocelo, la privacy, come il pudore, ci serve - e comunque ci è utile - per nascondere i nostri peccati, le nostre vergogne. Le anime vanno in giro nude, meno che nella Cappella Sistina.
La morte è un racconto raccontato da altri. L’atto supremo e conclusivo del vivere non appartiene al suo protagonista. Chi muore, diventa dominio di altri. Sono loro a raccontarne la morte, a raccontarla come loro la vedono, la soffrono, addirittura come la vivono. Quello che noi sappiamo della morte è in questi racconti, i racconti degli spettatori dello spettacolo.
Ho avuto esperienze già infantili della morte. Di quella strana, incomprensibile faccenda mi sono raccontato più volte la storia. Cercavo spiegazioni con la pignoleria dell’incoscienza. Ma quelle mi si rifiutavano quando ammazzavo a sassate la lucertola, che agonizzava a lungo con le budella di fuori, la coda tremolante. Il dopo della morte era già lì davanti a me, non richiedeva spiegazioni, non c’era più nulla da dire. Ricordo quando mi morì la biscia che avevo esposto incautamente al sole dentro un contenitore inadeguato. Le bisce le afferravo con le mani tra i canneti e le stoppie, vicino al Tevere, le nascondevo sotto il letto. Quella morì, e ne portai a lungo un atroce rimorso. Ma per quanto ci pensassi, per quanto mi ci arrovellassi, mi veniva alla mente sempre e solo quel momento, il momento del decesso, la cronaca di quegli istanti di orrore. Anche per gli uomini, più tardi, il dopo della morte è stato per me racchiuso nel ripetersi, sempre identico, dei momenti successivi alla morte, quel che vedevo svolgersi lì intorno nella stanza, in quel silenzio strano che incombe, pur se percorso da mille inconfondibili rumori, attutiti e soffocati, perfino nell’odore che ristagna a lungo. Sì, sospettavo che quei momenti nascondessero strani segreti, qualcosa d’altro a me ignoto, adombrato e pronto a dileguare appena percepito. Io però non volevo saperne, e nascondevo la testa quando quei segreti minacciavano di uscire fuori, di rivelarsi. Forse non volevo assumermi responsabilità: forse, ancor peggio, non volevo crescere. Chi non ha provato, almeno una volta, questa straordinaria sensazione, o tentazione?

Morì, non ero ancora un adolescente, mia nonna. Mio padre mi chiamò in disparte, mi sussurrò che era morta sua madre. Viveva con noi da quando era rimasta vedova. La salma venne vestita dalle donne di casa. Pochi, del vicinato, erano venuti a depositare due fiori, a recitare giaculatorie dinanzi al grande letto. Fui finalmente ammesso nella stanza. Vi restai a lungo. Anche solo, nel primo pomeriggio, mentre la stanza si appesantiva sempre più di odori strani, stramortiti, misti di fiori appassiti e di candele sgocciolanti in serpentine, fino a terra. In casa tutti dormivano, e io osservavo con ribrezzo il profilo della defunta, chiuso nei suoi incolmabili pensieri, farsi sempre più grifagno. Mi intimorì, mi riempì di antichi terrori, mi richiamò a quella pratiche religiose che a lei erano usuali e che io a volte avevo tentato di imitare. Raccolsi dal comodino a capo del letto un libro di preghiere, con la copertina nera e l’orlo delle pagine dorato. Lo aprii a caso, aveva bellissimi caratteri e i capolettera rossi, incorniciati da un filetto d’oro. Io pensavo che fosse nell’oro il senso loro più intimo e, almeno per me, inimitabile. Quelle pagine mi attiravano sempre, le scorrevo con attenzione compunta. Cominciai a leggere, a recitare gli inni, le giaculatorie, le orazioni: “Kyrie Eleison - ora pro nobis”, “Sancta Maria, mater gratiae - ora pro nobis”, “Christe, eleison - ora pro nobis”. Sedevo sulla poltrona a fianco del letto. Il letto aveva la testiera metallica patinata di marrone, la coperta color vinaccia con una trina di ghiande che pendeva sfilacciata. Il corpo della nonna era di una immobilità infinita. Mi alzai di scatto, estrassi dalla tasca le palline di resina ambrata che avevo raccolto dagli alberi del giardino. Ne presi un paio, mi avvicinai alla morta. Mi tremavano le mani, la morte era un gelo inspiegabile. Riuscii a sollevare un poco il dito avvolto attorno al rosario con il crocifisso, deposi le due palline di resina. Il dito si richiuse sul dono. Rimasi qualche istante immobile. Mi sentii liberato, innocente di ogni colpa, non solo verso la defunta.
L’errore della modernità, del laicismo postilluminista, è stato di pensare che, con l’avvento della ragione, il progresso delle scienze, l’evoluzione della società, la paura della morte sarebbe scomparsa, assorbita in una razionale comprensione e accettazione dell’evento. I lumi avrebbero scacciato le tenebre dell’ignoranza superstiziosa. Conoscete Goya, quello de “il sonno della ragione genera mostri…”. Cartesio pone al centro delle certezze lo “Io cogito” che mette fine all’irrazionalità di una storia fatta di errori, di menzogne del potere, di mistificazioni operate da preti e ciarlatani. Tutto vero, ma anche tutto reversibile: anche la ragione, e i suoi sacerdoti, possono produrre mostri e mistificazioni. Contro il nuovo inganno, si levò subito la grandiosa saggezza storica di Vico, che esaltava “le are e templi” come costitutivi dell’umano fare: l’errore è parte della storia e, se si vuole, pure la menzogna. Dunque, anche la paura della morte, l’immaginario del dopo, ha una sua verità. Consentendo alla modernità, imponendo la fine dell’elaborazione culturale della morte, irrisa come pregiudizio, superstizione, inganno dei preti, abbiamo aperto la strada alla sociologia o alla psichiatria. Ovviamente: non si può mica pretendere da tutti il disincantato pessimismo degli stoici, con la loro lucida teoria del suicidio come porta della libertà.

“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po’ skappare:
guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ‘l farrà male”.
(“Cantico delle Creature”, S. Francesco)







Hieronymus Bosch, olandese, 1450-1510, le punizioni infernali delle anime prave
Adesso, se verrà accolta alle nazioni Unite la moratoria della pena di morte, ci mancherà anche quel formidabile repertorio di immagini, sensazioni e mitologia che erano le riprese, le ricostruzioni delle esecuzioni capitali in USA, con il “dead man walking”, il “braccio della morte”, lo spettacolo attraverso i vetri offerto ai vendicativi, insaziati parenti della vittima. L’industria cinematografica americana perde un bel “topic”…

Pieter Brueghel il Vecchio, il “Trionfo della morte”, 1562, E Dürer, con i suoi scheletri a cavallo che falciano, falciano (simbolo agricolo, oggi forse incomprensibile)

Forse, il primo mio incontro con la morte fu per mia nonna

Spoon river antology



Come a Piazza del popolo, le tricoteuses.
Murat e Ischia,


                        
Siamo legittimati dal tempo,dalla sua durata. Non possiamo fare a meno del tempo, e dunque aspiriamo, conseguentemente, all’eternità, per non essere sottratti al tempo e dunque scomparire. Il nostro io non lo sopporterebbe: ecco perché abbamo scoperto, ci siamo inventati l’eternità, che è semplicemente un dopo infinito.
Il potere e la morte. Il tragico ha come orizzonte la morte, il comico no, solo la vita.
Morire non è, dunque, per la specie umana, un semplice passaggio di stato, come vorrebbe – come ha tentato di convincerci l’illuminismo, il laicismo, il progressismo, cone le loro campogne contro le fole dei credenti. La morte diventa il punto conclusivo di quell’eterno presente in cui siamo immersi, incomprensibile cesura che non è cesura, perché il morto continua a vivere con noi, ecc.
Scomparsa del memento mori

Yorick, sul teschio, canto della vita, ecc. il teschio e lo scheletro, nel medioevo e nella controriforma. Nel rinascimento, lo scheletro diventa un referto di anatomia. Poi, Murat, cimitero dei capuuccini, ecc., fgià appunti esistenti, copmpreso canova.

Che ne so io, dei miei percorsi? I miei percorsi mi attraversano.
L’amore misericordioso: dove solo il misericordioso non è neoplatonico
Accorgersi che la morte è un male collettivo, di massa, scandito da una conta. Oggi, c’è per noi l’acuta percezione di essere anche noi, nel morire, nulla più che un numero.
Perché pensare che la filosofia possa essere consolazione della vita, consolazione dalla morte?
Ci sfugge la sua verità, quella che si esprime nella sua attualità, nel suo presente, nel suo presentarsi a noi. C’è un detto, attribuito non so se a uno stoico, a un epicureo o a un cinico: quando sei vivo, la morte non c’è, quando c’è la morte, tu non ci sei più; e dunque, di che preoccuparsi? Ce ne preoccupiamo, invece. Preoccuparsene forse è un male, una esagerazione pagata con disturbi di vario genere: occuparsene, almeno un poco, mi pare invece un bene, una attività non priva di utilità. Persino di segreti, magari inconfessabili, piaceri.

11356
Pannella non pensa al dopo
"Estote parati", lesse.



La morte, ridotta a fatto personale….
Perché il dopo è puro immaginario. E’ sublime creazione, anche essa, dell’uomo. E’ il senso vero del simbolismo di Foscolo, sicuramente più ricco del tetro romanticismo di Thomas Grazìy. Gli inglesi sono maestri nel progettare i cimiteri, lì, tra quel verde e quelle lapidi corrose, mai o rarissimamente pompose, ildopo è proprio a fianco dell’oggi, la morte si fa percorso per i viventi, i viventi passeggiano tra i morti. Dovrebbero non averne paura, ma la letteratura nera, dell’orrore, è anche essa britannica. Il “dopo” delle tombe del canova, delle urne di Thomas Gray o di Keats e Shelley,,,,, L’abisso diventa un retroscena su cui si staglia l’ombra del convitato di pietra, il commendatore di Mozart, deposito di tutte le nostre colpe, ecc.
Non è la vita, forse, ad essere un sogno, ma la morte.




“Appunti per il dopo”: allegria di naufragi... L’anno scorso, il tema propostoci era la concupiscenza. Furbamente, io mi sono aggrappato a Sant’Agostino o a San Tommaso, con qualche spruzzata di roba greca. Ero obbligato, e tutto era facile. Quest’anno, come evitare, ahimè, di impigliarsi nei parati nero e oro della controriforma? Prima della controriforma, c’era un “dopo” disegnato per le plebi, un po’ rozzamente, dagli affreschi dell’Orcagna o del Signorelli, Michelangelo aveva conferito una grandezza classica al tema del Giudizio Universale, che è il “dopo” per eccellenza di ogni credente, ma ancora si era nella sfera della classicità, riservata agli addetti ai lavori, le classi colte, i signori della terra, clero o laici che fossero. Con la controriforma tutto questo pacco di riferimenti viene abbandonato, e le plebi come i signori vengono posti di fronte ad un unico orizzonte di destino, quello cupo ed infero di cui resta traccia in certe tombe barocche romane. I cappuccini infieriscono, inventano l’apoteosi, la rappresentazione sacra delle loro cripte, nelle quali un ossario degno di Pol Pot fissa occhiaie vuote e febbrili su una umanità di peccatori, di orantim, di incappucciati, di flagellanti riemersi dal fondo del medioevo più nero per invadere ogni sentina dell’immaginario.

C’è anche un risvolto classico.
Il salto nel vuoto di Thelma e Louise con l’auto, quello di Jules e Jim con…, sono un suicidio?

E’ più complesso….

Durkheim

L’anoressica

Si può vivere senza la percezione del dopo? Del tempo? Il presente (attimo, sei bello, Goethe) come tempo assoluto. Il futuro è compreso nel presente, come attesa, il passato come memoria, funzione, anche essa, del presente.

Il cimitero dei cappuccini a Roma, la cripta dei cappuccini a Vienna, perché i cappuccini?

Poi: i crani di Pol Pot e delle epurazioni etniche in jugoslavia




L’esistenzialismo. Noi siamo dati alla morte

Fare un pout porri da Shakespeare, la scea dei teschi, ecc., poi la cripta dei cappuccini a Vienna e Ischia, e Via Venetonaturalmente, potrei anche immaginarmi chde uel che faccio, vedo, sono, ecc., è tutto un mio sogno, (Vida es sueno) immaginazione, Shakespeare, ecc. compresa la Storia( !), il reale, ecc.

Non c’è nulla che mi dia il senso dell’offesa quanto il corpo di un morto, abbandonato alla mercé di altri.

La morte ha per me l’aspetto di un’opera canoviana

             C’è un prima, pomposamente detto storia, origine. Un 
adesso, che sarebbe l’ora presente e sfuggente. Un dopo. E’ del dopo 
che vorremmo parlare. Su un giornale quotidiano, ma con 
quattordicimila battute di computer a disposizione. Come sempre, 
scriverne  in modo libero, questo vorremmo. Nella forma di appunti 
personali, se lo si voglia. O in altra forma. Il dopo è semplicemente 
immaginazione, rimozione, prefigurazione, letteratura, filosofia, 
teologia, science fiction (la scienza esatta ne sa nulla). Offre 
inquietudine, che è una buona cosa. Oppure l’idea del riposo, che è 
un’altra buona cosa. Con il dopo la maggior parte della gente convive 
irriflessivamente. E che cosa c’è mai di più irriflessivo, di più 
scaramantico, di più futile e anche edificante della preghiera del 
mattino recitata nella scrittura e lettura di un giornale quotidiano? 
In Aristotele il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e 
il poi”, un numero. In Platone un’immagine, “immagine mobile 
dell’eternità”. Si tratta di scegliere, e di pubblicare e firmare una 
pagina che tutti leggeranno. Perché la gente è curiosa degli appunti 
personali e, nonostante tutto, vorrebbe essere informata su quello 
che sta dopo.

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