mercoledì 24 ottobre 2012




C'E' FAMIGLIA E FAMIGLIA

(da “Il Foglio”)


Un tale - non ne farò il nome - si era rivolto al Tribunale civile di Roma avanzando la richiesta di disconoscimento di paternità rispetto ad una bambina che lui aveva riconosciuto, alla nascita, come figlia propria, per adottarla poi all'atto del matrimonio con la madre. “No, non è mia figlia - ha sostenuto nella richiesta - quando l'ho riconosciuta ho dichiarato il falso”. Contro le sue aspettative, il tribunale ha sentenziato che “l'autore del riconoscimento effettuato in mala fede non è legittimato a impugnarlo successivamente per difetto di veridicità”. Quel riconoscimento, pur così inficiato, non può essere revocato, anche dopo aver acquisito “la piena consapevolezza della sua falsità”. E' una sentenza di enorme significato, anche - se non soprattutto - per le motivazioni. I giudici osservano che nella nostra società “sempre meno rilievo assume il dato formale del rapporto familiare legato sul legame meramente biologico”. La sentenza non intende affatto negare o sminuire il ruolo centrale della famiglia nella società, non è una sentenza - per dire - “progressista”, prona ad uno sfrenato individualismo. Anzi: “La famiglia assume sempre di più la connotazione della prima comunità nella quale effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità del singolo e si fonda la sua identità”, il che “impone di considerare irretrattabile il riconoscimento”, anche se questo era un falso. Vi saranno molti che si stracceranno le vesti per questa sentenza che prende posizione, senza troppe disquisizioni filosofiche o antropologiche, a proposito del dilemma natura-cultura. Per molti dei temi cosiddetti “etici”, notoriamente, è proprio sul primato della natura che si fonda gran parte delle resistenze all'adeguamento dei valori della società. Tesi centrale di queste resistenze è - per restare nell'ambito della nostra questione - che fondamento della società è la “famiglia naturale”, con enfasi sullo strettissimo, indissolubile legame che va mantenuto tra i due termini. La sentenza invece li separa, pone tra di essi un vero e proprio fossato: da una parte vi è la consanguineità biologica fondata sull'accoppiamento sessuale, dall'altra vi è la comunità dei conviventi. Questa si costruisce sul consenso e sui sentimenti e in tale modalità diventa “famiglia” e può/deve essere riconosciuta come pilastro della società su cui poggia e si realizza “la personalità del singolo” e, addirittura, “si fonda la sua identità”.

L'avvocato della difesa insiste: “Il nostro ordinamento è stato per anni centrato sul privilegio della verità, questa sentenza dice che c'è altro: l'identità, la famiglia...”. Come dire, oggi si riconosce forza e dignità di verità anche a quanto può contraddire la verità “fattuale”: secondo la sentenza di cui sto parlando, la verità si fonda sulla consapevolezza della verità come viene accertata dall'istituzione. E l'avvocato arriva a concludere che il riconoscimento di questa verità basata sul consenso comprende “tutte le famiglie, visto che oggi ce ne sono tante legalmente riconosciute che non hanno nulla di naturale”. Naturalmente, l'avvocato del ricorrente non è d'accordo. Sostiene infatti, con “rispettosa perplessità”, che “nella sentenza non c'è traccia di quello che è avvenuto né delle prove del Dna, ma quando la verità emerge non la si può insabbiare. Il contrasto tra 'favor veritatis' e 'favor legitimitatis' si trascina da diversi anni”. Farà dunque ricorso in appello.

Non sono un esperto di diritto, ma a me pare che l'argomentazione dell'avvocato del ricorrente non stia in piedi: nel caso in questione non si tratta di smascherare (anche, se necessario, attraverso l'analisi del Dna) la contraffazione di una prova fattuale compiuta al fine di trarre vantaggi da una paternità mai veramente esistita; qui si tratta di una persona che per motivi suoi ha inteso, anche affermando il falso, riconoscere una sua paternità ed oggi - per motivi suoi - vuole invece annullarla. Non è un padre “legale” che scopre di non essere quello “naturale”, come succede in un caso di adulterio quando la donna afferma che il figlio lo ha avuto dal marito e non dall'amante e ad un certo punto il marito si rende conto dell'imbroglio e vuole sottrarvisi.

Il problema non è il rapporto o il legame con la natura, che nessuno - neanche in questo caso - vuole negare, ma è l'uso che si fa del termine “natura”. In questo ambito concettuale, appare un autentico strappo l'intervento di monsignor Gmürr, nel recente Sinodo dei vescovi, a favore dei divorziati: “Conosco una coppia: sono sposati da 50 anni e tutti e due hanno alle spalle brevi esperienze matrimoniali. Questi 50 anni non contano nulla? E' solo una realtà peccatrice?”. Il giovane vescovo (46 anni) ammonisce: ”Bisogna ripensare le relazioni del corpo della famiglia, del corpo della Chiesa e anche del corpo umano, della sessualità”. Parlava dall'interno di un Sinodo, sperabilmente senza sentirsi un Lutero: non so quanto monsignor Gmürr sia ferrato in teologia, ma non può certo ignorare che le sue parole erano un colpo mortale ad una tradizione teologica che si vuole consolidata e senza incrinature.   

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