C'E'
FAMIGLIA E FAMIGLIA
(da
“Il Foglio”)
Un tale
- non ne farò il nome - si era rivolto al Tribunale civile di Roma
avanzando la richiesta di disconoscimento di paternità rispetto ad
una bambina che lui aveva riconosciuto, alla nascita, come figlia
propria, per adottarla poi all'atto del matrimonio con la madre. “No,
non è mia figlia - ha sostenuto nella richiesta - quando l'ho
riconosciuta ho dichiarato il falso”. Contro le sue aspettative, il
tribunale ha sentenziato che “l'autore del riconoscimento
effettuato in mala fede non è legittimato a impugnarlo
successivamente per difetto di veridicità”. Quel riconoscimento,
pur così inficiato, non può essere revocato, anche dopo aver
acquisito “la piena consapevolezza della sua falsità”. E' una
sentenza di enorme significato, anche - se non soprattutto - per le
motivazioni. I giudici osservano che nella nostra società “sempre
meno rilievo assume il dato formale del
rapporto familiare legato sul legame meramente biologico”. La
sentenza non intende affatto negare o sminuire il ruolo centrale
della famiglia nella società, non è una sentenza - per dire -
“progressista”, prona ad uno sfrenato individualismo. Anzi: “La
famiglia assume sempre di più la connotazione della prima comunità
nella quale effettivamente si svolge e si sviluppa la personalità
del singolo e si fonda la sua identità”, il che “impone di
considerare irretrattabile il riconoscimento”, anche se questo era
un falso. Vi saranno molti che si stracceranno le vesti per questa
sentenza che prende posizione, senza troppe disquisizioni filosofiche
o antropologiche, a proposito del dilemma natura-cultura. Per molti
dei temi cosiddetti “etici”, notoriamente, è proprio sul primato
della natura che si fonda gran parte delle resistenze all'adeguamento
dei valori della società. Tesi centrale di queste resistenze è -
per restare nell'ambito della nostra questione - che fondamento della
società è la “famiglia naturale”, con enfasi sullo
strettissimo, indissolubile legame che va mantenuto tra i due
termini. La sentenza invece li separa, pone tra di essi un vero e
proprio fossato: da una parte vi è la consanguineità biologica
fondata sull'accoppiamento sessuale, dall'altra vi è la comunità
dei conviventi. Questa si costruisce sul consenso e sui sentimenti e
in tale modalità diventa “famiglia” e può/deve essere
riconosciuta come pilastro della società su cui poggia e si realizza
“la personalità del singolo” e, addirittura, “si fonda la sua
identità”.
L'avvocato
della difesa insiste: “Il nostro ordinamento è stato per anni
centrato sul privilegio della verità, questa sentenza dice che c'è
altro: l'identità, la famiglia...”. Come dire, oggi si riconosce
forza e dignità di verità anche a quanto può contraddire la verità
“fattuale”: secondo la sentenza di cui sto parlando, la verità
si fonda sulla consapevolezza della verità come viene accertata
dall'istituzione. E l'avvocato arriva a concludere che il
riconoscimento di questa verità basata sul consenso comprende “tutte
le famiglie, visto che oggi ce ne sono tante legalmente riconosciute
che non hanno nulla di naturale”. Naturalmente, l'avvocato del
ricorrente non è d'accordo. Sostiene infatti, con “rispettosa
perplessità”, che “nella sentenza non c'è traccia di quello che
è avvenuto né delle prove del Dna, ma quando la verità emerge non
la si può insabbiare. Il contrasto tra 'favor veritatis' e 'favor
legitimitatis' si trascina da diversi anni”. Farà dunque ricorso
in appello.
Non
sono un esperto di diritto, ma a me pare che l'argomentazione
dell'avvocato del ricorrente non stia in piedi: nel caso in questione
non si tratta di smascherare (anche, se necessario, attraverso
l'analisi del Dna) la contraffazione di una prova fattuale compiuta
al fine di trarre vantaggi da una paternità mai veramente esistita;
qui si tratta di una persona che per motivi suoi ha inteso, anche
affermando il falso, riconoscere una sua paternità ed oggi - per
motivi suoi - vuole invece annullarla. Non è un padre “legale”
che scopre di non essere quello “naturale”, come succede in un
caso di adulterio quando la donna afferma che il figlio lo ha avuto
dal marito e non dall'amante e ad un certo punto il marito si rende
conto dell'imbroglio e vuole sottrarvisi.
Il
problema non è il rapporto o il legame con la natura, che nessuno -
neanche in questo caso - vuole negare, ma è l'uso che si fa del
termine “natura”. In questo ambito concettuale, appare un
autentico strappo l'intervento di monsignor Gmürr,
nel
recente Sinodo dei vescovi, a favore dei divorziati: “Conosco una
coppia: sono sposati da 50 anni e tutti e due hanno alle spalle brevi
esperienze matrimoniali. Questi 50 anni non contano nulla? E' solo
una realtà peccatrice?”. Il giovane vescovo (46 anni) ammonisce:
”Bisogna ripensare le relazioni del corpo della famiglia, del corpo
della Chiesa e anche del corpo umano, della sessualità”. Parlava
dall'interno di un Sinodo, sperabilmente senza sentirsi un Lutero:
non so quanto monsignor Gmürr
sia
ferrato in teologia, ma non può certo ignorare che le sue parole
erano un colpo mortale ad una tradizione teologica che si vuole
consolidata e senza incrinature.
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