lunedì 15 ottobre 2012



L'UOMO E I SUOI FRATELLI
da “Il Foglio”

Stavolta non si scappa, bisogna arrendersi all'evidenza. Le attese e convincenti prove sono state rese pubbliche nel corso del Congresso Europeo di Scienza planetaria tenutosi nei giorni scorsi a Madrid. In quella autorevolissima sede, un gruppo di astrofisici dell'Università di Princeton, dell'Università dell'Arizona e del Centro spagnolo di Astrobiologia ha dato conferma di quanto si vociferava da tempo: la vita potrebbe non essere nata sulla Terra, nel nostro pianeta sarebbe arrivata per opera di microorganismi che hanno viaggiato nell'interspazio su frammenti di meteoriti provenienti da altri pianeti. Tutto parte dalla scoperta che rocce, o frammenti di rocce, possono viaggiare nel vuoto interstellare - contrariamente a quanto si credeva fino a ieri - a relativamente bassa velocità, e possono quindi essere catturate dalla forza gravitazionale di un pianeta diverso da quello di partenza. Il ragionamento, fondato su complesse teorie matematiche avviate nel 1925 da un ingegnere tedesco. è tortuoso e non sarò io a renderlo più comprensibile. Ma gli scienziati che lo hanno elaborato possono (quasi) garantire che un trecento milioni di anni fa spore di vita sono state trasportate qua e là per l'universo, sono approdate sulla Terra e qui, trovato un ambiente favorevole, hanno iniziato a riprodursi, a moltiplicarsi e ad evolvere. Ci sono ancora, avvertono gli scienziati, dei quesiti irrisolti, non tutto è stato chiarito, ma l'approssimazione alla certezza è buona. La teoria, il cui nome scientifico è “litopanspermia”, è peraltro assai antica, può essere rintracciata fin nella cultura classica greca. Di recente era stata riproposta, anche autorevolmente, ma a partire da congetture e quindi raccogliendo più scetticismo che consensi.

Voi direte: ma perché questa teoria, quando definitivamente accertata, può essere tanto rivoluzionaria? Ma, rispondo io, se è accaduto così come oggi viene non più solo ipotizzato, si può anche ragionevolmente pensare che alcune (o molte) di quelle spore vaganti abbiano raggiunto altri pianeti ancora, nei quali le condizioni ambientali erano analoghe a quelle della Terra, così da permettere loro di sopravvivere e svilupparsi in forme - non potrebbe essere? - analoghe, o addirittura identiche, a quelle presenti sul nostro. Quelle spore, nate da un medesimo ceppo e con identiche caratteristiche “organiche” avrebbero dato così origine - sia pure a distanze enormi le une dalle altre - a strutture vitali identiche o assai simili. E, proseguendo sul filo di un ragionamento non impossibile, avrebbero potuto produrre non solo un “alieno” ma una sorta di gemello dell'uomo. Perché no? Non saprei dire quante possano essere, statisticamente, le possibilità perché questo sia davvero accaduto, escluderlo a priori sarebbe però dogmatico, fideistico. Se invece accettassimo - sia pure in via ipotetica - la tesi, dovremmo concludere che l'uomo non può più essere considerato il centro ideale, spirituale, dell'universo. E', o sarebbe, una delle forme possibili di una vita diffusa, in moduli paralleli a quelli che conosciamo, in svariati punti dello spazio. La scoperta si pone come una ulteriore (definitiva?) conferma a livello sperimentale della formidabile intuizione di Giordano Bruno, quella degli “infiniti mondi”. Non solo sono infiniti i mondi, ma infinite sono anche le possibilità della presenza di esseri dotati di una vita organica, fors'anche psichica, analoga alla nostra.

Può il fideista sfuggire a questo ragionamento, azzardato quanto si vuole ma assolutamente - penso - lecito? Si può continuare a credere nell'atto unico della creazione? Sarebbe come ammettere, se non altro, che dio è uno sprecone colossale, che si muove come un giocatore che affida ai dadi lo sviluppo successivo del suo gesto iniziale. Ma intanto, mentre gli astrofisici intervengono nella disputa sulla creazione dell'uomo, gli antropologi, o i paleoantropologi, continuano ad almanaccare sulle vicende dell'uomo primitivo. Già da parecchio tempo si stava facendo strada la tesi che la linea evolutiva dell'umanità non sia unica ma si apra a ventaglio su rami, specie, sottospecie e varietà più o meno diversificate. La più nota, anche fuori della cerchia scientifica, è la varietà “neandertalense”, assai diversa dall'”homo sapiens” con il quale pure convisse a lungo, non sappiamo se mescolandosi ad esso o no. Adesso, certi fossili scavati nel 2003 nell'isola di Flores, in Indonesia, fanno pensare che siano vissute specie “umane” non solo diverse, ma addirittura non collegate tra loro. Sembra insomma che l'uomo che noi conosciamo, la specie cui apparteniamo, sia solo una variante tra le tante autonomamente comparse e scomparse sullo scenario terrestre. Gli antropologi cui si deve la scoperta dell'”homo floresiensis” sostengono che la nuova specie sarebbe piuttosto ben collegata ai bonobo e agli scimpanzè. Una vertigine di ipotesi... Anche qui, la teoria della creazione unica se non proprio dell'afflato divino sull'argilla di Adamo ed Eva non regge più: dicono di crederci solo i fondamentalisti della “Bible Belt”. Ma è il concetto stesso di creazione che viene profondamente intaccato.


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