IL
GATTO
Il
gatto era da qualche tempo scomparso: non appariva più, la mattina,
attraversando a balzelloni in diagonale il prato; non lo scorgeva
più, da dietro i vetri della porta-finestra, mentre con l’occhio
fisso e attento lo seguiva nel suo aggirarsi nella cucina
sorseggiando il caffè - per esigere subito dopo, con pazienza
intollerante e inflessibile, la quotidiana razione di avanzi o
l'apertura di una nuova scatoletta. Eppure si faceva notare, quel
micione - era a suo modo maestoso, nero con una placca bianca sul
petto, quasi un'apertura sul vuoto senz’anima della bestia.
In
vestaglia, in piedi davanti alla vetrata, preparò come il solito il
caffè e lo sorseggiò lentamente. Il cielo era quello di una mattina
amarognola e senza promessa di sole, i cipressi disegnavano le
nuvole, le colline erano appena rivestite di verde, le roverelle
avevano foglie di fiamma, qualche rosa generosa ancora fioriva,
spampanata. Un paesaggio autunnale, però simpatico, dopotutto. Ma
lui avvertiva un vuoto fastidioso, estraneo alle sue consuetudini,
dunque a quella meditazione sulla vita che egli conduceva, con la
memoria degli avvenimenti - lontani o vicini però sempre vivi, anche
i più insignificanti - coltivati assiduamente durante l'intera
giornata, appena gli riusciva di tralasciare le consuete faccende e
chiudersi in se stesso. Decise di uscire, subito appena possibile,
per una passeggiata. Senza mèta, un vagabondaggio nei dintorni, tra
stradine, prati e dossi coperti di ginepro spinoso. Non se lo
confessò apertamente, ma forse sperò di incontrarlo, il suo gatto
preferito.
Nella
zona, i gatti abbondavano. Ti ci imbattevi anche lontano dal paese,
mentre si aggiravano con il loro passo felpato e ondulato, solitari.
Erano gli stessi che ogni mattina lo attendevano, fin dall’alba,
sul breve terrazzino, finché lui non gli aveva buttato una manciata
di cibo, una mezza scatoletta, l’avanzo della cena del giorno
prima. A volte si stringevano in un gruppetto, a volte - come sempre
diffidenti e ostili l’uno all’altro - si presentavano da soli.
Lui si divertiva a quella presenza selvatica e accanita, amava la
impaziente mobilità delle bestiole in caccia di cibo, loro che poi,
appena soddisfatte e saziate, si allungavano pigramente tra sole e
ombra e lì sonnecchiavano per ore con le orecchie vive e mobili come
radar, attente al più sottile movimento, fosse anche quello di una
lucertola minuscola, quasi una neonata!, in esplorazione sul mondo,
testimonianza di una vita sempre rinnovantesi ma che il gatto avrebbe
spietatamente messo in forse, aggredendola d'un balzo, appena appena
avesse colto il fruscio della sottile coda contro una
fogliolina secca...
Camminò
abbastanza a lungo, si spinse un po' più lontano del solito, buttò
gli occhi nelle pieghe più oscure delle siepi, dietro ogni
anfratto e ciuffo verde attendendosi di vederlo saltellare e
zampettare, scuffiando e sogguardandolo di sotto in su, di sicuro
riconoscendolo ma sempre tenendosi lontano, con la diffidenza propria
di quelle bestiole solitarie. Niente. Scorse altri gatti, piccoli o
grandi, ma non quello, il suo preferito.
I
giorni passarono, il gatto non si presentò più sul terrazzino, a
riscuotere il suo obolo. Dovette convincersi che qualcosa era
successo, forse l'irreparabile.
*
Finché,
un pomeriggio, nel fossatello asciutto di una delle stradine che
portavano fuori del villaggio scorse un mucchietto di pelliccia
stazzonata e sporca. Era quanto restava del gatto. La morte lo aveva
rattrappito, immiserito: l'occhio era aperto ma vitreo, i denti, tra
esangui gengive scarnite, erano sporchi di terra, le zampe irrigidite
in una posa senza grazia.
Dunque,
la bestiola era morta. Non sarebbe mai più tornata, trafelata,
a mendicare dolcemente il cibo che gli era dovuto in virtù della sua
esigente consuetudine. Un'altra vita si era spenta, di quelle in cui
specchiava la sua e che confortavano lo scorrere dei suoi giorni in
una attesa - serena, industriosa, fitta di imprescindibili piccole
cose quotidiane - di quella fine che non poteva essere lontana, con
la quale si poteva solo giocare in un pacato rimpiattino perché di
essa nulla sapevano, né lui né gli altri, né tantomeno il gatto
stesso. Sarebbe vissuto, ora, senza quell'apparizione sempre troppo
sollecita. Gli parve un amaro sacrificio, anche se si ripromise di
non doverne parlare con alcuno, per non essere frainteso o preso in
giro, perfino.
Ma
come poteva esaurirsi e scomparire, una vita? Come poteva, lui, fare
a meno di una vita così significativa come era, per lui, quella del
gatto? Per lui e forse lui solo, ma già questo doveva pur pesare
qualcosa, doveva pur voler dire qualcosa. Una vita che significhi per
qualcuno non può scomparire così nella voragine dell'annullamento.
Il fatto che un essere significhi, che divenga un soggetto per
qualcuno, per qualcun altro, non può esser completamente una beffa
di inutilità. Quella vita aveva significato, aveva espresso modi e
sfumature che ne avevano fatto (sia pure per lui, per lui solo) una
identità precisa, divenendo perfino delicatissimo contenitore di
speranze, di memorie, di allusioni, di intenzioni impalpabili ma non
meno (per lui) vere. Non poteva dunque sparire nel nulla. Un mondo
che contemplasse un tale annullamento cieco, un così brutale colpo
di spugna, non poteva che essere un mondo inutile.
La
morte del gatto gli fu insopportabile, gli divenne fonte di
tormentose introspezioni, perché essa palesemente finiva col
condannare lui all'inutilità, mostrandogli quanto caduco fosse ogni
suo pensiero e persino ogni suo affetto, ogni sua intenzione e
attenzione. Che spreco di energia era stato l'affezionarsi,
l'attendere, il dialogare, il giocare, il nutrire la bestiola. Per
tante mattine, tanti giorni, tanto tempo aveva dedicato una parte
infinitesima ma non del tutto infima di sé e del suo fare, del suo
tempo e del suo pensare indirizzandolo verso una entità, un soggetto
che ora era sparito, annullato, e annullandosi si portava con sé,
ingoiandoli nel nulla, tutti quei suoi movimenti dell'animo,
quegli impalpabili accadimenti interiori. Impossibile. Si ribellò
come ci si ribella dinanzi ad un furto che subiamo, quando rientrando
in casa troviamo le stanze disselciate rispetto all'ordine in cui le
avevamo lasciate. Un furto ferisce terribilmente, per questo
sconvolgimento, che annulla la parte di noi che è rannicchiata
nell'ordine che diamo alle nostre cose. La morte del gatto lo pose
dinanzi, per la prima volta, al furto irrimediabile, definitivo, di
tanta parte di sé. Vi si ribellò furiosamente.
E
allora pensò, per la prima volta, che in qualche parte, in qualche
modo, doveva pur esservi un mondo perfettamente identico al nostro,
nel quale tutte le essenze, le vite, le entità di questo siano
conservate e ripetute nel nel loro preciso e indistruttibile
significato. Un mondo in cui le identità non sono annullate e dal
quale esse non possono essere cancellate. Ecco, questa sola può
essere, pensò, la giustificazione, la forma possibile (e
necessaria) dell'eternità, che giustifichi, col suo esserci, la
stessa possibilità, comprensibilità e accettabilità del nostro
mondo, della sua inguaribile, inaccettabile, futilità.
*
Ho letto questo suo piccolo, bellissimo racconto prima con curiosità, perchè mi piacciono i gatti, poi come se l'avessi scritto io (o meglio come avrei voluto poterlo scrivere io), avendo vissuto le stesse emozioni e, di fronte alla rabbia e alla ribellione contro l'ineluttabile, avendo anch'io caparbiamente preteso un mondo dove le "essenze, le vite, le entità" anche dei "nostri" animali si perpetuassero. Confesso, nel leggerlo mi sono un pò commosso
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