sabato 16 novembre 2013

                                               IL GATTO


Il gatto era da qualche tempo scomparso: non appariva più, la mattina, attraversando a balzelloni in diagonale il prato; non lo scorgeva più, da dietro i vetri della porta-finestra, mentre con l’occhio fisso e attento lo seguiva nel suo aggirarsi nella cucina sorseggiando il caffè - per esigere subito dopo, con pazienza intollerante e inflessibile, la quotidiana razione di avanzi o l'apertura di una nuova scatoletta. Eppure si faceva notare, quel micione - era a suo modo maestoso, nero con una placca bianca sul petto, quasi un'apertura sul vuoto senz’anima della bestia.

In vestaglia, in piedi davanti alla vetrata, preparò come il solito il caffè e lo sorseggiò lentamente. Il cielo era quello di una mattina amarognola e senza promessa di sole, i cipressi disegnavano le nuvole, le colline erano appena rivestite di verde, le roverelle avevano foglie di fiamma, qualche rosa generosa ancora fioriva, spampanata. Un paesaggio autunnale, però simpatico, dopotutto. Ma lui avvertiva un vuoto fastidioso, estraneo alle sue consuetudini, dunque a quella meditazione sulla vita che egli conduceva, con la memoria degli avvenimenti - lontani o vicini però sempre vivi, anche i più insignificanti  - coltivati assiduamente durante l'intera giornata, appena gli riusciva di tralasciare le consuete faccende e chiudersi in se stesso. Decise di uscire, subito appena possibile, per una passeggiata. Senza mèta, un vagabondaggio nei dintorni, tra stradine, prati e dossi coperti di ginepro spinoso. Non se lo confessò apertamente, ma forse sperò di incontrarlo, il suo gatto preferito.

Nella zona, i gatti abbondavano. Ti ci imbattevi anche lontano dal paese, mentre si aggiravano con il loro passo felpato e ondulato, solitari. Erano gli stessi che ogni mattina lo attendevano, fin dall’alba, sul breve terrazzino, finché lui non gli aveva buttato una manciata di cibo, una mezza scatoletta, l’avanzo della cena del giorno prima. A volte si stringevano in un gruppetto, a volte - come sempre diffidenti e ostili l’uno all’altro - si presentavano da soli. Lui si divertiva a quella presenza selvatica e accanita, amava la impaziente mobilità delle bestiole in caccia di cibo, loro che poi, appena soddisfatte e saziate, si allungavano pigramente tra sole e ombra e lì sonnecchiavano per ore con le orecchie vive e mobili come radar, attente al più sottile movimento, fosse anche quello di una lucertola minuscola, quasi una neonata!, in esplorazione sul mondo, testimonianza di una vita sempre rinnovantesi ma che il gatto avrebbe spietatamente messo in forse, aggredendola d'un balzo, appena appena avesse colto  il fruscio della sottile coda contro una fogliolina secca... 

Camminò abbastanza a lungo, si spinse un po' più lontano del solito, buttò gli occhi  nelle pieghe più oscure delle siepi, dietro ogni anfratto e ciuffo verde attendendosi di vederlo saltellare e zampettare, scuffiando e sogguardandolo di sotto in su, di sicuro riconoscendolo ma sempre tenendosi lontano, con la diffidenza propria di quelle bestiole solitarie. Niente. Scorse altri gatti, piccoli o grandi, ma non quello, il suo preferito.

I giorni passarono, il gatto non si presentò più sul terrazzino, a riscuotere il suo obolo. Dovette convincersi che qualcosa era successo, forse l'irreparabile.

                             *

Finché, un pomeriggio, nel fossatello asciutto di una delle stradine che portavano fuori del villaggio scorse un mucchietto di pelliccia stazzonata e sporca. Era quanto restava del gatto. La morte lo aveva rattrappito, immiserito: l'occhio era aperto ma vitreo, i denti, tra esangui gengive scarnite, erano sporchi di terra, le zampe irrigidite in una posa senza grazia. 

Dunque, la bestiola era morta. Non sarebbe mai più tornata, trafelata,  a mendicare dolcemente il cibo che gli era dovuto in virtù della sua esigente consuetudine. Un'altra vita si era spenta, di quelle in cui specchiava la sua e che confortavano lo scorrere dei suoi giorni in una attesa - serena, industriosa, fitta di imprescindibili piccole cose quotidiane - di quella fine che non poteva essere lontana, con la quale si poteva solo giocare in un pacato rimpiattino perché di essa nulla sapevano, né lui né gli altri, né tantomeno il gatto stesso. Sarebbe vissuto, ora, senza quell'apparizione sempre troppo sollecita. Gli parve un amaro sacrificio, anche se si ripromise di non doverne parlare con alcuno, per non essere frainteso o preso in giro, perfino.
                             
 Ma come poteva esaurirsi e scomparire, una vita? Come poteva, lui, fare a meno di una vita così significativa come era, per lui, quella del gatto? Per lui e forse lui solo, ma già questo doveva pur pesare qualcosa, doveva pur voler dire qualcosa. Una vita che significhi per qualcuno non può scomparire così nella voragine dell'annullamento. Il fatto che un essere significhi, che divenga un soggetto per qualcuno, per qualcun altro, non può esser completamente una beffa di inutilità. Quella vita aveva significato, aveva espresso modi e sfumature che ne avevano fatto (sia pure per lui, per lui solo) una identità precisa, divenendo perfino delicatissimo contenitore di speranze, di memorie, di allusioni, di intenzioni impalpabili ma non meno (per lui) vere. Non poteva dunque sparire nel nulla. Un mondo che contemplasse un tale annullamento cieco, un così brutale colpo di spugna, non poteva che essere un mondo inutile.

La morte del gatto gli fu insopportabile, gli divenne fonte di tormentose introspezioni, perché essa palesemente finiva col condannare lui all'inutilità, mostrandogli quanto caduco fosse ogni suo pensiero e persino ogni suo affetto, ogni sua intenzione e attenzione. Che spreco di energia era stato l'affezionarsi, l'attendere, il dialogare, il giocare, il nutrire la bestiola. Per tante mattine, tanti giorni, tanto tempo aveva dedicato una parte infinitesima ma non del tutto infima di sé e del suo fare, del suo tempo e del suo pensare indirizzandolo verso una entità, un soggetto che ora era sparito, annullato, e annullandosi si portava con sé, ingoiandoli nel nulla,  tutti quei suoi movimenti dell'animo, quegli impalpabili accadimenti interiori. Impossibile. Si ribellò come ci si ribella dinanzi ad un furto che subiamo, quando rientrando in casa troviamo le stanze disselciate rispetto all'ordine in cui le avevamo lasciate. Un furto ferisce terribilmente, per questo sconvolgimento, che annulla la parte di noi che è rannicchiata nell'ordine che diamo alle nostre cose. La morte del gatto lo pose dinanzi, per la prima volta, al furto irrimediabile, definitivo, di tanta parte di sé. Vi si ribellò furiosamente.

E allora pensò, per la prima volta, che in qualche parte, in qualche modo, doveva pur esservi un mondo perfettamente identico al nostro, nel quale tutte le essenze, le vite, le entità di questo siano conservate e ripetute nel nel loro preciso e indistruttibile significato. Un mondo in cui le identità non sono annullate e dal quale esse non possono essere cancellate. Ecco, questa sola può essere, pensò, la giustificazione, la  forma possibile (e necessaria) dell'eternità, che giustifichi, col suo esserci, la stessa possibilità, comprensibilità e accettabilità del nostro mondo, della sua inguaribile, inaccettabile, futilità.
                                                                *


1 commento:

  1. Ho letto questo suo piccolo, bellissimo racconto prima con curiosità, perchè mi piacciono i gatti, poi come se l'avessi scritto io (o meglio come avrei voluto poterlo scrivere io), avendo vissuto le stesse emozioni e, di fronte alla rabbia e alla ribellione contro l'ineluttabile, avendo anch'io caparbiamente preteso un mondo dove le "essenze, le vite, le entità" anche dei "nostri" animali si perpetuassero. Confesso, nel leggerlo mi sono un pò commosso

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