venerdì 13 dicembre 2013



                                                    LA NONVIOLENZA DIMENTICATA
                                                                        da "Il Foglio"



"Nelson Mandela, un gigante della storia", ha detto Obama. A metà percorso tra la sua scomparsa e le esequie del prossimo 15 dicembre, mi sia consentito spendere qualche parola sul leader nero. Una grande parte della mia vita è stata coinvolta in questioni attinenti alla teoria e alla prassi della nonviolenza, mi sorprende che su questi temi la morte di Mandela non abbia sollecitato particolari riflessioni o ricostruzioni. La stampa li ha poco più che sfiorati. Anzi, un quotidiano ha così titolato il ricordo del leader africano: “Quando Mandela prese il fucile. Dopo il massacro di Sharpeville la scelta della lotta armata", aggiungendo nel sottotitolo: "L'uomo che amava la pace senza essere un pacifista". L'articolo rievocava la tragedia avvenuta in quella località del Sudafrica il 21 marzo 1960, quando la polizia sudafricana aprì il fuoco su una pacifica manifestazione indetta contro la politica dell'apartheid messa in atto dal National Party. Morirono 69 persone. Il giovane Mandela, già influente leader antisegregazionista, si gettò nella lotta armata, ritenendo ormai vano il ricorso alla nonviolenza. Eppure, il lascito più grande di Mandela è proprio nella tenacia con la quale successivamente mise in opera, con dedizione e sacrificio, quel drammatico strumento di lotta politica e civile di cui Gandhi è stato il massimo banditore. Certamente Mandela non era Gandhi, di cui pure subì l'influenza. Diversamente da lui, Gandhi fece della nonviolenza un metodo, oltreché efficace, affilatissimo sul piano della teoria. Aveva cominciato ad apprezzare i valori della nonviolenza non in India, dal suo coté religioso, ma a Londra, dove studiava legge, negli ambienti intellettuali da lui frequentati e presso i quali la nonviolenza, come il vegetarianesimo o la parità e libertà sessuale, erano idee che circolavano e venivano discusse in ambiti di un fervido socialismo umanitario.

Insieme - come non è stato molto ricordato - a Martin Luther King, Gandhi e Mandela formano una triade di politici che della nonviolenza fecero – in tempi e modi che si inanellano l'uno con l'altro – il loro principale strumento e metodo di lotta. Cosa li univa? Una questione che – non paia strano – evocheremo dal titolo di un libro che sembra parlare di altro: "La nazionalizzazione delle masse”, di G. L. Mosse. La questione dell'ingresso nelle istituzioni politiche di enormi masse popolari fino ad allora escluse per ragioni sociali, ma anche etniche o religiose, non riguarda solo la Germania del XIX-XX secolo. In forme parallele, molti altri paesi dovettero affrontare il problema: il comunismo come il fascismo sono versioni diverse di questo processo. Volendo poi guardare panoramicamente le sole vicende del secondo dopoguerra, scopriremmo che l'epicentro di un analogo movimento di rivendicazione furono gli Stati Uniti, l'America delle grandi battaglie per i diritti civili che ebbero tra i loro protagonisti il Martin Luther King dell'integrazione dei neri, saldata e integrata a sua volta con le campagne per la questione femminile, degli omosessuali e comunque dei "diversi" ed "esclusi", in un mix di lotte libertarie che ha trasformato la cultura e la vita sociale della nazione americana. Fu un periodo di grandi attese e speranze, di successi incredibili, ottenuti evitando i rischi della scelta rivoluzionaria violenta - che poteva essere lo strumento e la scelta più ovvia, secondo gli insegnamenti leninisti e marxisti che pure si ponevano obiettivi analoghi - o, all'opposto, della rozza, sterile  jacquerie. Il libertarismo nonviolento è stato, a mio avviso, la rivoluzione culturale-politica più interessante dell'ultimo mezzo secolo. Rinnovava a fondo, reimpostandola, la logica del liberalismo ottocentesco. Questo poneva al centro le istituzioni, a partire dal Parlamento, cui si poteva accedere con la mediazione rappresemtativo/elettorale; il libertarismo nonviolento poneva l'individuo, con addirittura tutta la sua corporeità, a confronto diretto con le istituzioni, Parlamento e Governo. Il militante nonviolento interloquiva direttamente con l'istituzione, ma non la delegittimava né la combatteva; anzi, per certi aspetti, la rafforzava, depotenziando il dato elitario che la cultura democratica poteva rimproverarle, e anzi le rimproverò, in un dibattito teorico durato assai a lungo.

Senza il metodo della nonviolenza libertaria molte grandi lotte di liberazione, a partire da quella per l'integrazione razziale nel Sud Africa, avrebbero avuto esiti molto diversi, come ammoniva proprio il tragico episodio di Sharpeville. Nel 1963 partecipai con Marco Pannella a un convegno  tenutosi a Oxford per la fondazione della "Conferenza Internazionale per il Disarmo e la Pace" al cui centro erano, tra gli altri, l'inglese Canon Collins, il deputato greco Georgis Lambrakis, Claude Bourdet, direttore di France Observateur, gli americani Bayard Rustin e  A. J. Muste, leader del movimento nero prima di Martin Luther King. Nel confronto-scontro con il pacifismo di osservanza sovietica quelle figure e quelle forze espressero la forma contemporanea della cultura liberale.

Nessun commento:

Posta un commento