giovedì 5 dicembre 2013

DIALOGHI
da "Il Foglio"

Bei tempi, quando tra laici e cattolici era aperto, con gran viavai di condiscendenti eminenze  e generosi intellettuali, un intenso dibattito - o, per meglio dire, "dialogo" - intorno a questioni somme. Ricordate? Creazionismo o evoluzionismo? Prolife o prochoice? Eutanasia no o eutanasia sì? Famiglia o partouze, separazione tra i sessi o gender unico, matrimonio tradizionale o anche tra omo? Fecondazione naturale oppure assistita, eterologa, magari con utero in affitto e sperma crioconservato? E poi: inevitabile, crudele agonia o morte dolce?  Di sicuro qualche questione l'ho dimenticata (anche intenzionalmente, come per esempio quella, criptica e riservata agli iniziati: Concilio Vaticano II sì o Concilio Vaticano II no?) L'elenco era lungo, ma il confine era tracciato a regola d'arte: si stava di qua oppure di là, se uno prendeva posizione - per dire - tra evoluzionismo e creativismo già sapevi come avrebbe scelto anche sugli altri temi. Poi però tra i dialoganti c'era una sottile intesa, con l'eminenza largo nel riconoscere le virtù di una sana laicità e l'intellettuale pronto a rassicurare che un ateo può essere un po' teista e, insomma, proprio tutto ateo non è (magari, lo è o no a seconda delle opportunità).  Si era cavillosi, sempre con l'argomento pronto sulla punta della lingua, furbastro, eclettico o didattico; ma alla fine il dibattito si diluiva in schermaglia, minuetto, acrobazia mentale, non arrivava mai la stoccata micidiale. Più che alla boxe somigliava al wrestling, quella finta lotta che manda in estasi gli appassionati. Gli uni avevano bisogno degli altri e viceversa, se uno dei due interlocutori fosse venuto a mancare, l'altro si sarebbe sentito abbandonato. Insomma un buon "dialogo" era d'obbligo, ma tutti sapevano che non serviva a nulla. Piaceva soprattutto a quanti volevano che nulla cambiasse. E se uno bonariamente osservava che in definitiva un cattolico "adulto" e con i piedi ben piantati per terra le cose riesce a vederle da laico anche lui, senza forzate elucubrazioni, veniva tacitato, redarguito, escluso dalla comunità.

Oggi quei dibattiti sono appassiti, ma soprattutto i loro argomenti sono o inservibili o non interessano più nessuno, a partire dal fondamentale dilemma sul primato tra ragione e fede: la ragione è un po' depressa dalle vicende della cronaca - non solo l'italiana - la fede è immersa di una caligine profonda, nessuno sa più dove nemmeno cercarla. Quei dibattiti facevano parte del rituale del meraviglioso - un po' barocco -  che allora circonfondeva i temi a carattere religioso. Penso abbiano affievolito il rigore laico nel tener fermi i punti nodali del rapporto tra i due storici interlocutori: si capiva da lontano un miglio che l'interlocutore laico era in realtà un laicista, con in testa tutti i pregiudizi del laicismo. Non sono ovviamente in grado di dare un giudizio sui riflessi di quel dialogare sulla teologia e affini; non credo però di aver sentito o letto voci nuove ed alte, amate persino dai laici, come se ne incontravano in tempi non troppo lontani. Avevo l'impressione che la chiesa dei dialoganti fosse ristretta nei confini dell'ecclesiologia e della liturgia. No, diciamolo chiaramente: quel gran dialogare era una sorta di diversivo, il confronto vero si svolgeva su un puntuale - nemmeno dissimulato -  disegno, per il quale la chiesa rivendicava la necessità di uno "spazio pubblico" per la fede. Ma chi glie lo negava? E' dal tempo della Legge delle Guarentigie che quello spazio pubblico i laici glie lo avevano aperto.

La svolta, la caduta di interesse per il "dialogo"  sembra porsi attribuire all'elezione di papa Francesco. Oddio, forse nel corso di un ultimo esercizio dialogante è stata fatta un po' di confusione terminologica, qualche concetto ha fatto storcere il naso ai puristi della fede: meglio lasciare stare, non si ripeta. Anche l'insegnamento del nuovo papa è fondato sulla fiducia nella parola: ma se dialogo deve essere sia dialogo con tutti, non solo con l'intellettuale disponibile. E oggi la chiesa forse davvero si muove, stiamo forse sventolando i fazzoletti per salutare la partenza di un giro del mondo (in solitario?), magari su un catamarano con attrezzature internettiche satellitari. Comprensibilmente, le critiche al nuovo corso non mancano. Si teme che la perdita di punti di riferimento come la liturgia o la formale riassicurazione dei principi non negoziabili possa fare sgretolare il millenario edificio. Ma perché la chiesa dovrebbe aver paura della parola aperta, carica di senso missionario, propriamente evangelico? Abbia il coraggio di guardare fuori delle mura della parrocchia o del Vaticano, ogni compiacimento o autocompiacimento sia  accantonato. Della parola ha paura, non lo si dimentichi, anche il laicista, aggrappato a feticci immobili. Altrimenti, non resterebbe che inchinarsi a riconoscere la grandezza della vera (non "sana") laicità, che la sfida, il rischio della parola libera, dell'aperto dialogo, non solo l'accetta ma la provoca.

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