NATIVITA'
La
donna si era assopita, non gemeva più, teneva la piccola testa
reclinata sul petto. Giuseppe pensò che poteva lasciarla per un po',
senza rischi. Non aveva sentito, nell'orizzonte del deserto e tra i
bassi tamerischi, il triste singhiozzo dello sciacallo o l'orrido
riso della iena. Uscì dalla grotta, la notte era buia e fredda, ma
tranquilla. In mano teneva l'otre di pelle di capra. Cercava acqua.
La sua donna aveva bisogno d'acqua, molta acqua. Lui, naturalmente,
non era esperto, non aveva mai assistito ad un parto, ma aveva
afferrato qua e là racconti di donne, di quelli che le donne fanno
quando si raccolgono tra loro a chiacchierare e sorseggiare anice
profumato o leggero vino di palma. Le donne hanno sempre qualcosa da
confidarsi, standosene separate dagli uomini. E naturalmente, oltre
che di amore e amori, parlano di cucina e di mariti, di figli e di
parti, di nascite riuscite bene o andate male, per scacciare le quali
si scambiano unguenti e utili consigli. Lui le aveva frequentate poco
e le conosceva anche meno, le donne, aveva sempre pensato al lavoro.
Ed era contento di averlo fatto, perché a forza di gomiti, di
pazienza e di abilità, pian piano era diventato, se non ricco,
benestante, la sua piccola azienda di falegnameria prosperava. Si era
costruito con le sue mani una casa spaziosa adornata con bei mobili,
si era potuto anche comperare rotoli di papiro, o qualche costosa
pergamena, con la parola del Signore, il Libro della speranza del suo
popolo. Discendeva dalla stirpe di Re David, non era uno qualunque,
sapeva leggere e scrivere, come pochi nel villaggio di Nazareth. Ma
oltre alla lettura serale del libro sacro, nessuna distrazione, pochi
amici, una vita frugale. Era così diventato un uomo maturo,
cominciava a sentirsi vecchio. E un po' solo.
Ma
quando, una mattina - quasi un anno prima - aveva visto passare,
nelle viuzze tra le casupole, la bambina, o poco più che bambina,
dallo sguardo dolce e il passo sicuro come se reggesse sulla testa un
vaso di bel vetro fenicio soffiato invece che l'anfora di pesante
terracotta, aveva sentito il suo cuore battere come mai prima gli era
successo. Gli era sembrato che quella fanciulla avesse qualcosa di
non comune nel portamento e nel profilo, insieme dolce e forte. Non
la conosceva, non era di Nazareth, sicuramente era arrivata con la
carovana appena giunta da Gerusalemme. Sì, quella fanciulla gli era
piaciuta. Ne era restato turbato, dovette confessarselo. Ma come
poteva pensare di sposarla? Troppa era la differenza di età. Per
tutta la giornata, comunque, l'aggraziata visione gli passò e
ripassò dinanzi agli occhi della memoria. A un certo momento, spinto
da uno strano impulso, si era avvolto nel mantello, aveva lasciato i
suoi operai sotto la guida del capomastro e si era recato di furia al
caravanserraglio, appena fuori della porta e delle mura. Quando fu
arrivato, chiese chi fossero gli ospiti che vi erano discesi da poco
lasciando i cammelli nello stabbio lì dietro, con i servitori che si
affaccendavano strigliandoli e buttando loro erba fresca. Si trattava
di un ricco gerosolimita di nome Gioacchino, gli fu risposto, era
sceso lì con la moglie e la loro figlia. Giuseppe non ci aveva
pensato due volte, se avesse esitato la timidezza e la vergogna si
sarebbero impadronite di lui, facendolo tornare indietro. Così si
era presentato all'uomo, e senza troppi giri di parole gli aveva
chiesto se gli concedeva di sposare la fanciulla: non era sua figlia?
Quello lo aveva guardato un po' meravigliato, di sicuro non si
aspettava che in un città straniera, uno sconosciuto, per di più in
età avanzata, gli chiedesse in sposa sua figlia, appunto: “Tu mi
parli di Maria” - chiese - che è figlia mia e di mia moglie
Anna?” Giuseppe raccontò come l'avesse vista passare nei pressi
di casa, della sua bella casa, e come se ne fosse invaghito. Non
sapeva come fosse successo, sapeva bene di essere un po' troppo
anziano - non troppo, in fin dei conti - ma si era deciso, sì,
voleva prenderla in moglie. Maria. Lei o nessun'altra, assolutamente.
L'uomo lo ascoltò, si compiacque con lui quando seppe che Giuseppe
era della stirpe di David, lui stesso apparteneva alla tribù di
David e la coincidenza gli sembrò davvero un buon segno. Lo fece
accomodare e fece portare dallo schiavo datteri, fichi e del vino di
palma. Chiacchierarono un po', Gioacchino promise a Giuseppe che ne
avrebbe parlato con la moglie, Anna. Maria, raccontò, era la loro
figlia amatissima, la moglie l'aveva avuta quando già era una donna
anziana e, per la verità, in un modo un po' strano: per venti anni,
il loro matrimonio era stato sterile, poi, d'un tratto, Anna si era
ritrovata incinta: “Ma succedono tante cose, per la volontà del
Signore benedetto” commentò con un sospiro: avere una figlia, se
non proprio un figlio, era stato un suo grande desiderio. E ora
quella sua figlia, quasi una bambina da poco fiorita come donna -
come gli aveva confidato sua moglie, fiera e un po' commossa - veniva
chiesta in moglie e se ne sarebbe andata di casa.
Quando
le disse della strana richiesta dell'uomo – tal Giuseppe di
Nazareth, della stirpe di David - Anna era stata molto decisa.
Chissà perché, non solo non ebbe nulla da obiettare, ma anzi lo
torturò tutto il giorno, finché lui aveva acconsentito. “Devi
ascoltare, devi ascoltarmi”, gli aveva detto, “ho uno strano
presentimento e i miei presentimenti sono sempre veraci”. Così
Gioacchino aveva mandato a chiamare Giuseppe, si era appartato con
lui dinanzi a un paio di boccali di birra, e si erano accordati sul
prezzo. Aveva tirato un po', ma Giuseppe non aveva fatto troppe
obiezioni. Durante la contrattazione Anna, con mille scuse, faceva un
continuo vai e vieni e cercava di capire come andassero le cose,
Maria invece era rimasta reclusa, sola, in un'altra stanza. Accettò
la proposta di Giuseppe in silenzio, con gli occhi bassi. Sembrava
impacciata.
Una
notte, poco dopo quegli eventi, Giuseppe aveva avuto un sogno. Gli
era apparso un angelo che lo esortava a sposare la fanciulla delicata
e sommessa. L'angelo gli aveva fatto anche una strana predizione.
Lui, svegliatosi di colpo, aveva pensato che fosse uno di quei sogni
che disturbano l'uomo e lo fanno anche peccare: “Gli angeli,
quelli veri - i messaggeri dell'Altissimo - a volte scendono a
visitare gli uomini, ma devono essere uomini importanti per il loro
popolo, come Abramo, non uomini da poco come me, un piccolo
falegname. L'angelo apparve ad Abramo per salvare Isacco e con lui
tutta la sua discendenza, mentre io non avrò certo figli, se anche
mi sposerò con la dolce Maria”. Giuseppe dimenticò il sogno, ma a
Maria pensava sempre. Fecero correre un breve fidanzamento e infine
le nozze, celebrate con gran festa e abbondanza di ogni specie di
vettovaglie: Giuseppe comperò e fece ammazzare un bel vitello
grasso, e fece circolare tra gli ospiti molti orci di vino, perché
non venisse a mancare fino alla fine della sera. Tutti furono
soddisfatti. Ma quando l'ultimo degli ospiti de ne fu andato,
Giuseppe sollevò gli occhi alle
stelle lucenti nel cielo: “Tra poco diventerò padre“, pensò,
“Non ho certo i meriti di Abramo, ma prego perché la benedizione
dell'Altissimo scenda su di me, la mia sposa e la nostra
figliolanza”. E fu davvero felice quando lui e Maria poterono
ritirarsi nella stanza che aveva arredato con mobili semplici,
fabbricati da lui stesso con le sue mani esperte di ottimo falegname,
conosciuto e apprezzato dovunque. Su un basso tavolo c'erano un
bellissimo piatto di rame sbalzato pieno di datteri, fichi, miele,
spezie e focacce, una brocca di vino di palma e una di latte di
cammella, per ristorare gli sposi.
Giuseppe
ricordava sempre quei momenti, li rimuginava sempre tra sé e sé.
Perché
quella notte non era accaduto nulla di quello che tutti si
aspettavano. Lui non aveva conosciuto - come dicono i Patriarchi -
quella che era divenuta sua moglie. Né quella sera né le altre che
succedettero a quella. Quando la porta della stanza da letto fu
chiusa dietro di loro e furono finalmente soli, Maria, con un'aria
sgomenta, si era accucciata in un angolo, si era coperta gli occhi e
la testa con la sottile bellissima veste del matrimonio, aveva
sussurrato più volte, “No, no, no”. Lui, Giuseppe, l'aveva
guardata un po' meravigliato un po' imbarazzato. Non sapeva nulla di
quelle cose, era impacciato, non sapeva davvero cosa fare. Aveva però
udito, da certe chiacchiere ascoltate dai cammellieri, da amici anche
loro falegnami, che qualche volta le ragazze sono restie a quel che
deve succedere dopo gli sponsali. Talvolta si rifiutano per molto
tempo, e lo sposo può, se vuole, picchiarle e ricondurle alla
ragione, oppure armarsi di pazienza e aspettare che la fanciulla
rinsavisca. Ricordò anche lo strano sogno con l'angelo che aveva
fatto tempo prima, ma lo scacciò infastidito. Decise di aspettare,
pazientemente. Era un brav'uomo, non amava la violenza, in fin dei
conti era stato solo per tanto tempo, poteva ben lasciar correre
qualche giorno e qualche notte ancora. Dormì avvolto nel mantello,
per terra, a fianco del letto dove si era coricata sua moglie, che
non aveva voluto spogliarsi, era sempre negli abiti della cerimonia.
Giuseppe si girò e rigirò, tirò più di un un sospiro, aveva paura
che Gioacchino sarebbe stato incredulo, o magari si sarebbe
infuriato, se lui gli avesse raccontato la verità. E figurarsi cosa
avrebbe detto Anna, poi.
La
mattina dopo sì era levato prestissimo come il solito, aveva un
cantiere aperto, gli operai già lo aspettavano, insonnoliti. Scacciò
da sé, durante il giorno, il pensiero di quella notte. Ma quando la
sera rientrò a casa, Maria lo attendeva, in piedi, a fianco della
tavola apparecchiata per la cena. “Cosa hai, Maria?”, le aveva
chiesto, un po' in apprensione. Lei, senza sollevare gli occhi da
terra, rispose: “Sono incinta. Aspetto un bambino”. Lui era
rimasto folgorato. Le aveva preso la mano, l'aveva scossa, aveva
anche cacciato un grido disperato: “Cosa mi dici?” Maria allora
sollevò verso di lui gli occhi, che aveva grandi e umidi come una
gazzella, e sussurrò con voce matura e dolce: “Non temere,
Giuseppe. Non ti ho tradita, e non ti tradirò mai. Tu sei il mio
sposo, il mio unico sposo. Ma non so cosa mi sia accaduto: un angelo
è venuto a me...” Gli raccontò quello che le era successo tempo
prima, e che lei aveva taciuto con tutti, anche con la madre e il
padre. “Tu partorirai il salvatore del mondo”, le aveva detto
l'angelo. Giuseppe era sempre più sconcertato. “Forse hai
sognato..”, osò dire, con voce compressa per l'emozione, anche
Maria aveva forse sognato, e l'angelo - forse lo stesso che era
apparso anche nel suo sogno, o forse incubo - aveva detto il falso,
non era un angelo ma il demonio tentatore. Lei gli si inginocchiò
davanti: “Devi credermi, mio amato sposo Giuseppe, devi credermi,
devi credermi, non so cosa sarà di me, non so cosa ora sarà di te:
io so solo che un angelo mi ha parlato...io sono incinta.”
* * *
Giuseppe
si allontanò dalla grotta, amareggiato. Rimuginò ancora una volta
quel tormentoso pensiero: “Signore, non so che fare, Tu solo puoi
aiutarmi. Ho creduto e credo a Maria, è troppo giovane, bella e
pura, non mi ha mentito. E io la amo, l'ho amata da quando l'ho
vista. Quello che mi ha raccontato, però, mi turba sempre, devo
ammetterlo... L'apparizione di un angelo, quelle sue parole strane:
'piena di grazia', le ha detto...Che significano? Io conosco solo una
grazia, Signore, ed è la Tua grazia, che cade indiscriminatamente
sull'uno o l'altro di noi uomini, non sappiamo perché e dobbiamo
accettarla, come l'accettò Giobbe, il Paziente. Ma che Tu, o
Signore dei cieli, abbia rivestito della tua grazia una donna mi è
difficile da capire. E Maria è solo una piccola donna, è la moglie
di un falegname, non è la regina di Saba, non è Sara, moglie di
Isacco, non è Rebecca, madre di Giacobbe. Sara era vecchia, e aveva
ragione di dare del matto a colui che le chiese se stesse aspettando
un figlio. Ma Maria è giovane, e un figlio lo sta aspettando
davvero, il tempo è scaduto, sta per partorire. E allora chi è il
padre, chi può essere il padre? Lei dice che l'annuncio le è venuto
dall'angelo e io debbo crederle, ma questo mi pesa. Io non l'ho
smentita dinanzi a a suo padre, quando lui si è felicitato con noi.
Forse Anna, sua madre, sospetta qualcosa, o è al corrente. Anna
sembra una donna saggia. Ma le donne - e poi figurarsi quando si
tratta di madre e figlia - si tengono per mano, si aiutano, si
coprono vicendevolmente l'una i segreti dall'altra. Segreti... Maria
ha un segreto, almeno quello che ha dovuto rivelare a me...”
Pieno
di angoscia, Giuseppe pensava e ripensava a quanto gli stava
accadendo, mentre ora rientrava alla grotta con sulle spalle l'otre
rigonfio e gocciolante. Era giunto a pochi passi dall'imboccatura,
quando sentì un grido lacerare l'aria. Riconobbe la voce di Maria.
Si affrettò ad arrampicarsi sul secco pietrame: “Eccomi, Maria,
sono qui, sono tornato”. Maria era piegata in due, si sosteneva la
pancia con le due mani. Gemeva, le lacrime le scendevano dalle guance
sempre più pallide. Giuseppe gettò l'otre vicino al fuoco che aveva
acceso appena erano arrivati alla grotta, un fuoco di sterpi e di
sterco di bue. Alla mangiatoia c'era una docile vacca, accanto a lei
l'asino che aveva portato Maria fino a lì, coperto di mosche
richiamate dal tepore. La stalla odorava sgradevolmente.
Giuseppe
sollevò delicatamente Maria e piano piano la trascinò quasi sotto
alle due bestie. L'asino scalciò un poco e ragliò, innervosito. “Il
calore del loro corpo ti aiuterà, Maria”. Lei non rispose, si
lasciò andare per terra, Giuseppe le pose dietro la testa il suo
mantello e con un lembo di questo la coprì. Finalmente riuscì a
scaldare un poco di acqua in una bacinella che aveva trovato tra gli
stracci del loro asino. Era poca, e non molto calda. Giuseppe frugò
ancora nella sacca, tirò fuori i panni che Maria aveva con
preveggenza stivato nel fondo. Erano panni puliti, sarebbero stati
molto utili.
Cosa
doveva, cosa poteva fare? Si erano messi in viaggio per Betlemme di
Giudea, patria del Re David, solo perché lui, Giuseppe, doveva
andare a firmare quel maledetto censimento ordinato dall'autorità
romana. Sapevano che il tempo della gestazione stava scadendo ma
avevano pensato che se le cose fossero precipitate avrebbero potuto
fermarsi in un ostello, un albergo, e non sarebbe stato troppo
difficile trovare una brava donna, una levatrice, che aiutasse Maria
a partorire. D'improvviso, quella mattina, si erano rotte le acque,
forse Maria aveva sofferto per il lungo viaggio a dorso d'asino. Era
spaventata, lui aveva pensato che bisognava fermarsi, comunque. Sulle
colline, ma lontano, si vedevano le flebili luci di Betlemme.
Nell'aria roteava un leggero nevischio. Così si erano rifugiati
nella grotta, per avere almeno un riparo dal freddo. E ora, in
quella grotta gelida e inospitale, lui avrebbe dovuto cavarsela da
solo. Scoprì il ventre di Maria. Vide che era sceso molto in basso,
palpitava e si muoveva con movimenti regolari. Cercò come potesse
aiutare la donna. Disse quelle parole che aveva sentito a volte
raccontare, “Spingi, Maria, spingi”. Così aveva anche visto che
facevano le pecore e le cammelle, e aveva visto i pastori secondare
le bestie, come ora lui cercava di fare ma in modo ruvido, inesperto
e incapace quale era. “Come è strana e brutta la nascita
dell'uomo”, brontolò, ”non capisco perché l'uomo sia così
simile, in questo momento, alla bestie dello stabbio, all'animale
della foresta. Eppure l'uomo è destinato dal Signore di tutte le
cose a dialogare con lui, è il solo essere vivente che sappia farlo:
da Adamo a Giuseppe ai Profeti, gli uomini hanno sempre parlato con
l'Altissimo, e l'Altissimo ha parlato con l'uomo. Perché dunque
farlo nascere così simile a una fiera? Adamo, padre di noi uomini
tutti, è nato non come una fiera, è nato direttamente dalla mano
dell'Unico, che lo ha plasmato nell'argilla più pura. Lui è nato
non dalla vergogna, ma puro. E invece, noi, ora....” Guardò con
raccapriccio la minuta figura di Maria che si torceva negli spasimi.
“Spingi, Maria”, gridò di nuovo. Lei provava a spingere, era
proprio una bestiola, una capretta mentre stanno per sacrificarla e
geme di spavento. Passò un po' di tempo, Giuseppe le porse da bere
in una ciotola, Maria lasciò cadere parecchia acqua sulle guance,
sul petto ansimante. “Spingi, Maria”, ripeteva Giuseppe. Non
sapeva cos'altro fare, aveva paura di far male a quel piccolo corpo
tremante. Il tempo scorreva, lacerato nel profondo dal lunghissimo,
insopportabile strazio di quella donna. E ad un tratto, con un grido
disperato, Maria si sollevò quasi a sedere: tra le sue gambe, rosso
e caldo, era il schizzato fuori il bimbo. Giuseppe restò sbalordito
per un momento. Si riprese subito, afferrò il piccolo essere, lo
avvolse in uno dei panni preparati da Maria. Era impacciato, ma
riuscì ugualmente ad annodare il cordone ombelicale, rosso di
sangue. Poi depose il piccolo dentro la mangiatoria che aveva
riempito di paglia. Con paglia bagnata nell'acqua ancora tiepida
della concolina lo lavò come poté, lo riavvolse nel panno. Si voltò
poi verso Maria. Lei giaceva ora supina, senza forze, ma aveva
ripreso colore. Infine uscì la seconda, anche questa rossa di
sangue. Giuseppe la gettò in un angolo lontano. Coprì alla meglio
la donna, che sembrava essersi assopita.
Si
sentì stanco, mortalmente stanco. Si lavò le mani, si accucciò
accanto al corpo della donna. Si sentiva solo, gettato nella più
assurda miseria con il carico delle sue angosce. Mille pensieri lo
assalirono. “Sono padre, ora, anche io sono padre. Padre? Ma no, io
non sono padre”. Sudava copiosamente: “Non sono io, il padre.
Eppure, sono certo che Maria non mi ha mentito. Non ne è capace. Io
non sono sicuramente il padre del bimbo, secondo natura. Non ho mai
sfiorato Maria, nemmeno con il pensiero. E allora... Cosa dovrò
fare, adesso? Cacciarla di casa? Ripudiarla e rimandarla ai suoi?
Così dice la legge, la donna adultera deve essere cacciata. Alcuni
dicono che debba essere lapidata. Ma non voglio che Maria sia
lapidata, e non ho cuore di cacciarla via di casa. Chi sono io,
dopotutto, per ergermi a giudice severo, implacabile? Io ho scelto
Maria come sposa, seguendo l'impulso migliore di me, forse anche
spinto dalle parole dell'angelo apparsomi nel sogno. E se oggi Maria
ha partorito non riesco a fargliene una colpa. Io credo in lei. E
allora devo prendere una decisione. E so cosa farò”. Si prese il
volto tra le mani: “Questo figlio farò che sia mio figlio. Sì,
dopotutto, è mio figlio perché io voglio così, perché la mia
coscienza me lo impone, non so perché ma me me lo impone. Si può
essere padre secondo natura, e io non lo sono. Ma si può essere
padre anche secondo coscienza. E io voglio essere padre secondo
coscienza. Amo troppo Maria, devo avere fiducia in lei. E' difficile,
ma voglio provare, voglio provarci”. Si sollevò sul gomito, e
scorse nella penombra del fuoco il volto, ora sereno, della sua
sposa. Si rese conto che amava la fanciulla, appena ora divenuta
donna, che giaceva accanto a lui assieme al frutto del suo ventre.
Fuori
della imboccatura della grotta si sentì un belato leggero, ma
vicino. Giuseppe si alzò in piedi, tremava di paura, strinse più
forte il suo bastone. Chiese: “Chi è là?” Una sagoma nera si
affacciò alla bocca della grotta, restò stagliata contro il cielo,
che aveva assunto un tenue colore azzurro. “Chi sei? Vieni da
nemico o da amico?” “La pace sia con te. Sono un pastore. Siamo
venuti qui, io e i miei amici, perché c'è qualcosa di strano,
stanotte, in cielo. Proprio dritto su questa grotta. Cosa succede in
questa grotta?” “La pace sia anche con te, buon pastore. Cosa
succede qui, in questa grotta? Nulla, amico pastore, nulla di
importante. Mia moglie ha appena partorito. Ci siamo rifugiati qui,
perché io dovevo andare a Betlemme ma a lei sono venute le doglie e
così abbiamo dovuto fermarci, senza poter arrivare a Betlemme”. Si
sentì il pianto del bimbo. Giuseppe borbottò: “Non hai un po' di
latte delle tue pecore? Posso pagartelo, farebbe bene a mia moglie”.
“Non ti preoccupare, avrai il latte, te lo offro volentieri.”
“Ma
c'è una cosa davvero strana”, proseguì il pastore, con una lieve
esitazione, “forse puoi darmi tu una spiegazione, io e i miei amici
pastori siamo molto inquieti”.
“Perché
siete inquieti?”, chiese Giuseppe. “Non so, vieni anche tu qui
fuori, a vedere. Mi sembri un uomo saggio e istruito, forse puoi
spiegarcelo, a noi che siamo pastori ignoranti”. Uscirono. La notte
si era fatta chiara, straordinariamente chiara. Qua e là fiori di
croco si erano aperti sulla sassaia brulla e sembravano campanellini
d'oro. Stupito, Giuseppe sollevò lo sguardo e vide occhieggiare,
dritta sulla grotta sdirupata, una stella enorme, lucente come lui
non aveva mai visto una stella. Era come quando si vede la lampada di
un viandante nella notte, che appare e sparisce dietro gli alberi o
tra le pieghe del mantello. Ma
qui non era una sola lampada, piovevano giù verso terra fiamme e
fiammelle, fitte come un luminoso immenso sciame di lucciole, molte
di più di quante sono di solito le stelle in cielo. Però nemmeno
nelle più calde notti, quando le lucciole sono impazzite d'amore e
la loro luce è più fosforescente, Giuseppe aveva mai visto una cosa
simile. La luce fiottava, sgorgava riverberando attorno raggi il cui
biancore argenteo si colorava qua e là di pagliuzze rutilanti, che
si accendevano e si spegnevano ritmicamente. La luce di quell'unica
straordinaria stella aveva del tutto fatto sparire le altre stelle,
il cielo era limpido e liscio come una tavola di marmo, con al centro
la stella meravigliosa, una perla trasparente di quelle che indossano
le principesse o i re. “Mio Signore!”, esclamò Giuseppe,
stordito. Non riusciva a raccapezzarsi. “Non so cosa dire, amico
pastore”, mormorò, ma il pastore si stava allontanando , a
balzelloni, nel buio della macchia, con le pecorelle che lo seguivano
belando: ”Torno, torno con i miei amici”, gridava, e poi:
“Eliezer, Caifa! Correte!”. Giuseppe rientrò nella grotta. Maria
era sveglia, un leggero sorriso le sfiorava le labbra ancora esangui,
stringeva al petto il bimbo, di nuovo placidamente addormentato.
Nell'aria fredda, il fiato delle due bestie emanava un po' di
tepore...
“Signore,
beato tra gli eletti e gli angeli, io ti ringrazio”, mormorò
Giuseppe. Chinò la fronte a terra, pianse in silenzio, non sapeva
perché ma si sentiva felice.
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