giovedì 19 dicembre 2013


TEOLOGIA E PAROLA
da "Il Foglio"

Può la teologia bloccare la parola? Può intimarle  di farsi in là, di cederle ogni diritto di primogenitura, imporle principi, norme e regolamenti al di fuori dei quali le sarà proibito di circolare? Sembra che succeda, comunque me lo chiedo - sia pure da dilettante, da incompetente. La teologia è cosa  da competenti, cosa può dire alla gente comune, alla gente più o meno  incompetente, come me? Se ne parla parecchio ma se ne sa pochino. Mi pongo la domanda, mi chiedo cosa esattamente si debba intendere per teologia. Tra le tante definizioni, trovo che il teologo presbiteriano di Princeton B.B. Warfield (1851-1921), grande biblista e studioso del pensiero cristiano, ne ha proposto una poi diventata - dicono - classica: "La teologia è la scienza di Dio e del Suo rapporto con l'uomo e con il mondo". "Scienza"? Si può avere scienza di Dio, su Dio? Che direbbero di questa definizione i galileiani rigorosi o gli scientisti irriducibili  (per non dire un mistico - se in giro ce ne sono ancora)? Qualcosa non quadra, mi sembra che qui si parlino lingue diverse, incomunicanti tra loro.

Sfoglio un solido testo di storia della filosofia classica. Mi avverte che la teologia come la intendiamo noi - noi che storicamente non possiamo non dirci cristiani - ha le sue radici nel mondo antico. Lo stesso termine è di conio greco. Platone ne trattò, più o meno esplicitamente, nella sua analisi del divino, Aristotile ne dà una definizione stringente, collocandola al vertice dei saperi umani e subordinandole matematica e fisica. Per lui, la teologia deve essere assimilata alla metafisica, che si occupa  della "Ousia", dell'"essere in quanto essere" nel suo significato più cogente, cioè di Dio, "ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando". Mescolate a questi già massicci materiali un pizzico di giudaismo (la creazione ex nihilo) e siamo alla base della piramide dei saperi che ha sorretto e condizionato l'intero medioevo cristiano. Non a caso uno dei suoi momenti salienti è lo scontro tra papato e impero per la egemonia ideale e istituzionale: al vertice dei poteri non poteva esserci che un'unica potestà derivante da Dio. Alla fine bisogna arrendersi, convincersi  (e convincere) che la teologia è un atteggiamento, una cultura, che riguarda esclusivamente l'Occidente nella sua duplice (o triplice) filiazione. Il buddista, il confuciano, il seguace dello zen in una qualsiasi delle sue ramificazioni, o anche il non credente di ogni parte del mondo, cosa capirà di quei venerandi testi di teologia, di quell'intreccio? Addirittura, quanto lo interesseranno? 

Il cristianesimo, figlio (ma anche padre) dell'Occidente, ha una caratteristica che lo rende probabilmente un fenomeno storico unico (gli contende questa posizione l'islam): di essere stato aggressivo, conquistatore, o, se volete, missionario ("Andate tra le genti..."), comunque assolutista: l'Occidente ha ridotto a folklore ogni altra storia. Forse fuori dei suoi confini ideali non c'era storia, non avevano avuto Tucidide, erano rimasti alla storia come mito, favola o leggenda. E la storia che l'Occidente ha esportato è impregnata di un preciso ed inconfondibile provvidenzialismo che va anche oltre Tucidide, perché ha recepito il senso della teologia cristiana. Ma il gigantesco ciclo di questa cultura sembra ormai concluso. L'Occidente ha dato (quasi) tutto quel che poteva dare, oggi lo scambio con il resto del mondo  è reciproco, non più monodirezionale. Il cristianesimo non può sfuggire al suo destino di essere - oggi - cultura tra le culture. E, come la vichiana verità, anche la sua teologia deve diventare 'filia temporis'.

Sono sicuro che se mai venissero dati alle fiamme, e distrutti, tutti i libri di teologia, gli uomini comuni, la gente, gli incompetenti, non se ne accorgerebbero, anche se resteranno stretti attorno al loro parroco, scampato alla furia iconoclasta. Lui continuerebbe a predicare e a parlare di Gesù Cristo, a loro questo sarebbe sufficiente. Comunque, magari per mera simpatia, tra teologia e parola, io scelgo la parola: forse petulante forse incerta, forse ingenua forse furba, a volte sbadata e trasmodante, eccessiva, persino sbagliata: ma quanto la teologia è complessa, rituale, obbligatoriamente tenuta ai suoi canoni e principi, tanto la parola è non-prevedibile, 'protesa' verso un altro che deve di volta in volta individuare e conquistarsi: e dunque laica e - stranamente - necessaria. Quel che resta della teologia, dell'edificio un giorno imponente ma oggi sconnesso, sbriciolato e miseramente autoreferenziale (chi garantisce per lei?) passa ormai  - suvvia: passi, accetti di passare  - attraverso la parola. Perfino il laico - che rifiuta la teologia nella consapevolezza del dramma storico che ne ha consumato il potere e la potenza - può accettare la parola, farla sua. Dialogarci: è attraverso la parola che passa, o può passare, l'accettazione del suo non poter non dirsi cristiano (il laicista no, non riesce a aprirsi a questo dialogo: è qui il suo fallimento). 

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