giovedì 19 marzo 2015



DOPO IL "SELMA BRIDGE", QUALI SCELTE PER OBAMA?
da "L'Opinione" di martedì 17 marzo

L'America - l'America di Obama - è in difficoltà, sul fronte interno ma soprattutto sul fronte della politica estera. Sul fronte interno i dati relativi all'economia sembrano discreti, con una ripresa, anche nel cruciale settore dell'occupazione, abbastanza sostanziosa. Si tratta ora di valutare il significato dell'apprezzamento del dollaro sull'euro, un dato positivo per l'economia e le esportazioni europee ma che non favorisce la moneta e l'economia statunitense. Probabilmente, l'iniziativa di partecipare attivamente, il 7 marzo scorso, alle celebrazioni dello storico evento della “marcia” del Selma Bridge (1965), attirerà di nuovo su Obama le simpatie (e il voto, nel 2016) della minoranza nera e forse anche delle nuove grandi minoranze dei “ladinos” che soffrono di discriminazioni, si vedono contrastato l'ingresso negli States più o meno come accade alle ondate dei “migrantes” del Mediterraneo e, quando vi riescono, spesso vivono in piena illegalità. Sul piano interno, insomma, Obama ha avviato una operazione di recupero e risalita, anche se l'opposizione repubblicana, al Congresso e fuori, cercherà con tutte le sue forze (e i suoi dollari) di contrastarla. E' nel settore della politica estera che le difficoltà, invece, non accennano a diminuire. Il premier israeliano, Netanhyau, ha pronunciato dinanzi al Congresso americano (dominato dai repubblicani) parole pesanti contro la politica mediorientale di Obama. L'obiettivo immediato ed urgente era di attirare l'attenzione sul suo partito in vista delle elezioni del 17: per Netanhyau non c'è possibiltà di compromesso di fronte alla possibile emergenza atomica dell'Iran, nei confronti del quale è dunque necessario un intervento immediato e radicale con il pieno coinvolgimento degli USA. Ugualmente in difficoltà è Obama per quel che riguarda le modalità del contrasto nei confronti dell'ISIS, che Obama sembra contrario ad affrontare con il diretto intervento dell'esercito americano.

Ma, al di là di questo o quell'episodio, al di là dispecifici errori o possibili difetti del primo Presidente americano “nero”, quello che si rimprovera a lui e al suo paese è la mancanza - perché tale sembra essere – di un disegno globale che faccia tornare l'America ai fasti di un tempo, quando era la superpotenza capace di tenere in ordine il mondo e di impedire ai nuovi totalitarismi e fondamentalismi, alle antidemocrazie, alle forze comunque ostili o riottose, di minacciare  l'Occidente e la sua concezione della democrazia e i suoi valori di fondo. Riemerge, anche se non palese, l'esortazione, così cara ai "neocons" di un tempo, perché l'America torni ad essere il paese “marziano”, guerriero,  bellicoso, che si contrappone idealmente ad una Europa “venusiana”, votata al culto della molle dea dell'amore, incapace di assumersi responsabilità, fiaccata da un pacifismo irenico e sostanzialmente impotente. Secondo quei neocons ( e i loro assimilati) l'America doveva (anzi, deve, perché i termini della questione sembrano ancor oggi gli stessi) contrastare quella che sembrava (e sembra ancor oggi) la inevitabile sindrome di un “declino imperiale" - riprendo il termine da un vecchio articolo di Irving Kristol - cui l'America non può o non deve sottrarsi: i confini di questo impero non sono segnati da bandierine a stelle-e-strisce piantate sulle carte geografiche, ma da vincoli e impegni ideali e morali che vanno sentiti come parte integrante della “american way of life”. Concordava pienamente con Kristol un altro eminente intellettuale quale Robert Kagan, per il quale “sostenere la promozione della democrazia all'estero non è un segno di arroganza, bensì di umiltà”, perché “quando una democrazia fallisce, dovremmo aiutarla a rimettersi in piedi”.

La conseguenza di queste idee fu l'intervento militare in Iraq, iniziato il 20 marzo 2003 con l'invasione di quel paese da parte di una coalizione multinazionale di circa 300.000 uomini guidata dagli Stati Uniti d'America, e terminato il 15 dicembre 2011 col passaggio dei poteri all'autorità irachena. Quell'intervento fu disastroso, innanzitutto per l'immagine internazionale degli Stati Uniti. Il presidente George Bush (junior) aveva dichiarato, ricevendo la piena solidarietà del premier inglese Tony Blair, che Saddam Hussein, il dittatore iracheno, era in possesso di "armi di distruzione di massa" che costituivano un pericolo per il mondo intero. La guerra fu vinta facilmente, grazie forse al tradimento di alcuni generali iracheni, Hussein venne catturato, consegnato alle nuove autorità del paese, e da queste messo a morte nel 2006. Secondo Marco Pannella, sarebbe stato invece possibile evitare la guerra senza distruzioni o vittime umane, civili oltreché militari, perché Hussein si era dichiarato pronto ad uscire di scena e ad andare in esilio se gli fosse stata risparmiata la vita. Comunque si voglia giudicare la vicenda, la seconda guerra irachena ha segnato probabilmente l'ultimo atto di quella concezione imperiale che i neocons avevano difeso e promosso accanitamente.

Quando Obama si presentò per la prima volta alle elezioni presidenziali inalberò un motto, "Yes, we can", che ci dice eloquentemente quanto profonda fosse la depressione, la frustrazione, lo smarrimento del popolo americano per la seconda volta, dopo la disfatta nel Vietnam, colpito nel suo orgoglio e nelle sue certezze e in cerca di rassicurazioni e di qualche iniezione di speranza e di fiducia. Sono molti a pensare che Obama abbia tradito i suoi impegni e mancato all'attesa. Un giudizio complessivo ed equilibrato dovrà essere affidato agli storici ma è difficile, per l'oggi, sottrarsi al dubbio che quell'America depressa e in preda a una devastanzte crisi economica potesse sobbarcarsi ad un onere così gravoso come quello di sostenere un costoso ed impegnativo ruolo "imperiale". C'è anche da considerare che il mondo di oggi, globalizzato e multipolare, difficilmente potrebbe accettare l'immagine di una America "gendarme" del mondo.

Con il bellissimo discorso tenuto alla commemorazione di "Selma Bridge", Obama sembra aver affidato i destini politici suoi e dei democratici alla ripresa dei grandi temi dei diritti civili che furono propri all'America degli anni '60, e che giustificarono anche il primato del paese nel mondo. I prossimi mesi diranno qualcosa di più. La corsa alla Presidenza degli USA è comunque cominciata.



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