domenica 15 marzo 2015

LO SPAZIO SACRO DELLA BOXE
da "Cronache del Garantista", 13 marzo 2015
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Tempo fa ho (ri)visto in TV un film di John Ford del 1952, "The quiet man", starring John Wayne e Maureen O'Hara, forse la più bella rossa di Hollywood. Il film è prettamente fordiano anche se la location è in un borgo d'Irlanda, paese di origine del regista. Dall'idillio dell'innamoramento dei due si sale in crescendo verso un finale, possiamo dire, epico, anzi epico-grottesco, con una memorabile scazzottata tra John Wayne e Victor Mac Laglen che coinvolgerà via via l'intero paese, compresi il prete cattolico e il pastore protestante, in una generale ammucchiata tra pascoli di pecore e stradine di pietra. Ovvia conclusione al pub, tra fiumi di birra - immaginiamo la scura Guinness, gloria d'Irlanda. Sì, Ford è sempre affettuoso.

La scazzottata è un topos forse oggi un po' dimenticato e desueto, ma ha funzionato a lungo come elemento catalizzatore nel quale scaricare le tensioni -  serie e drammatiche o, come in questo caso, ironiche e giocose - di un film. Nei western, poi, è (o era) un elemento indispensabile. In uno tra i più famosi, "Il cavaliere della valle solitaria" (George Stevens, 1953), la scazzottata ha sottili risvolti psicologici: Alan Ladd e Van Heflin sono innamorati della stessa donna, la moglie di Van Heflin. Non se lo dicono, ma alla fine daranno vita a una scazzottata anch'essa memorabile, nella quale le non confessate gelosie, i sotterranei e sottaciuti risentimenti, alla fine esplodono. Anche qui, come nel film di Ford, la scazzottata è un momento di catarsi benefica. Direi anzi che la scazzottata filmistica, specie nei western, raramente è provocata da odi e violenze negative. Per  questo è piuttosto dettagliata, la sequenza è lunga, insistita, godibile: tanto, alla fine c'è la riconciliazione positiva. Qualche volta i cazzotti sono invece espressione di odio o di sentimenti negativi, e allora la sequenza è solo  aspettativa e attesa di morte; come ad esempio la scazzottata di un altro grande film, "I giovani leoni" (Edward Dmytryk, 1958), con Montgomery Clift nella parte del debole, del "piccolo" che attraverso la dura prova difende la sua identità (di ebreo) maltrattata e vilipesa dalla società violenta. 

uno sport molto americano

Credo che la scazzottata filmistica sia un topos molto americano, non ho ricordo (potrei però sbagliare) di grandi scazzottate nella filmistica europea. In fondo, la scazzottata è un altro modo di raccontare l'etica americana, l'etica del confronto a due, del duello aperto, virile, quasi sempre leale, ma anche un po' machista. Nel suo godibilissimo libro "Sulla boxe" (edizioni 66THAND2ND, 2015, 17,00 euro), la scrittrice (americana) Joyce Carol Oates percorre e ripercorre storia e cronache di boxe che hanno al loro centro l'America - "è il nostro sport più controverso", afferma - e i suoi impareggiabili campioni, tra i quali brillano Tyson e  Cassius Clay alias Muhammad Alì, "il peso massimo più geniale dei tempi moderni". Per lei non vi è dubbio che quello sport (o non sport: "Ma che cos'è poi lo sport?"...) è essenzialmente machista, forse anche "potentemente omoerotico" (e stupisce che lei, donna, se ne sia così ardentemente appassionata, fino a diventarne - il libro ce lo garantisce - una autentica esperta).  Secondo la Oates il culmine della parabola americana di questo sport va collocato negli anni venti, ma anche nell'immediato secondo dopoguerra la boxe era, non solo attorno al ring del mitico Madison Square Garden, sport assai diffuso, popolare e seguito. Persino da intellettuali snob: Hemingway pare se ne intendesse, scrittore eccellente di boxe fu Norman Mailer. Fuori d'America, il francese Marcel Cerdan, amante della cantante Edith Piaf, ebbe fan nella migliore società.

io, boxeur immaginario

Ho sempre amato la boxe, purtroppo ho mai visto un incontro se non alla televisione. Oggi è difficile assistere ad un incontro di qualità, la TV ne trasmette qualcuno, piuttosto mediocre, in ore impossibili, ma un tempo la boxe offriva spettacoli indimenticabili. I grandi pugili erano come ballerini, come scultori, artisti in piena regola, era un autentico piacere osservarli mentre danzavano (si dice proprio così, i pugili "danzano" saltellando qua e là per non offrire un bersaglio all'avversario) e ogni mossa, ogni  spostamento del corpo o del capo ha un senso preciso, segue regole ferree da cui dipende molto, a volte anche la vita. Io stesso ho fatto boxe anche se,  correttamente, dovrei dire che ho fatto a pugni. Ero un adolescente, frequentavo le scuole medie, non avevo dunque più di tredici-quattordici anni. Avevo allora un grande amico, Lucio, con cui condividevo la giornata e tutto quello che la giornata potesse contenere, dai giochi alle illusioni e fantasie dell'età, fino alla preparazione dei compiti scolastici, che ci dividevamo equamente e ci scambiavamo spudoratamente, alla faccia dei professori. Andavamo a scuola assieme, la mattina, e tornavamo a casa assieme. Dovevamo a un certo punto traversare un prato incolto, uno straccio ondulato di erbacce tra due strade parallele su cui non si era ancora affacciata la speculazione edilizia. Arrivavamo al centro del prato, gettavamo a terra le cartelle, ci toglievamo, quando le avevamo, giacche o cappotti, e cominciavamo a fare a pugni. Non c'era un motivo perché ci picchiassimo, eravamo molto amici, ma i nostri pugni calavano, con voluttà direi, sulle guance arrossate o in mezzo all'esile torace del poco attendibile avversario. Dopo un po', stanchi, smettevamo, riprendevamo abiti e cartelle e tornavamo, sempre assieme, a casa.

La cosa ci piaceva, escogitai un modo per renderla ancora più attraente. Tra la cianfrusaglie di mia madre pescai un pezzo di stoffa robusta, mi pare di ricordare fosse di quel tessuto che si usava per le divise militari, detto grigioverde ma in realtà più verde che grigio. Chiesi a mia madre di ritagliarvi e di cucirne quattro sacchetti di cui le diedi le misure. Li riempii di stracci di ogni stoffa, colore e tipo. Infilando la mano tra questi ritagli, avevamo quasi dei veri guantoni da boxe. Perfino il colore si addiceva alla funzione. Chiamai Lucio, nella mia stanza spostammo da un lato il tavolo su cui di solito facevo i compiti, e cominciammo a darcele di santa ragione. Fieri dei nostri bellissimi guantoni, cercammo di imitare i veri boxeurs, il loro repertorio di mosse, i colpi essenziali, il jab e il cross, l'uppercut, il punch o lo hook, le finte, le schivate, il continuo saltellare. Della variegata terminologia, specialmente quella - così affascinante - inglese, divenni esperto quando, anni dopo, divorai un paio di manuali di boxe. I miei assaggi adolescenziali come boxeur non furono un gran che, pochi lo sanno ma la boxe è una pratica complessa. Nel suo film "Million dollar baby" (Clint Eastwood, 2004), l'allenatore Clint Eastwood dice alla giovane appassionata allieva che "nella boxe devi sempre fare il contrario di quello che ti sentiresti di dover fare". La Oates va sul lirico, e sostiene che "sul ring...il pugile 'nato'...coltiverà una...doppia personalità per vanificare la strategia di gioco" dell'avversario. I pugili, "come i giocatori di scacchi, devono prendere decisioni su due piedi, devono essere capaci di improvvisare nel bel mezzo del combattimento". Cita poi José Torres, un ex campione del mondo dei pesi mediomassimi: "Noi pugili c'intendiamo di bugie. Cos'è una finta? Cos'è un gancio sinistro che parte come un jab? Cos'è un colpo d'assaggio? Cos'è pensare una cosa e farne un'altra?" Oddio, lo stesso si può sostenere anche per altri sport, ma nel pugilato la velocità psicologica, la reattività servono ad evitare il devastante pugno del ko.

Io e Lucio ci appassionammo poco alle vicende di Carnera, ci appariva un mito, una leggenda, ma sfocata e lontana dai nostri interessi; solo nel dopoguerra cominciai ad imbattermi in figure di pugili che attrassero la mia attenzione. Li ritrovo ora nei ritratti che ne fa la Oates. Il repertorio dei nomi da lei citati è infinito, anche se nella lista non troviamo, mi pare, nessun italiano oltre il folkloristico Carnera, nemmeno i bravissimi Nino Benvenuti, Patrizio Oliva o il più grande in assoluto, Bruno Arcari. Per lei, massima espressione della boxe moderna è, l'ho già accennato, Cassius Clay, che famoso lo divenne già da dilettante, vincendo il titolo dei mediomassimi alle olimpiadi romane del 1960. Gli contendono il primo posto nella classifica il grandissimo Joe Louis o "l'imbattuto" Rocky Marciano, ma Cassius Clay assunse presto, "come atleta, campione e icona culturale", un significato "che va al di là dello sport e che nessun altro pugile ha mai raggiunto, né è probabile che raggiunga...".

la leggenda di Cassius Clay
Clay era un nero. Secondo la Oates "i pugili più straordinari sono neri", forse "the niggers" scaricano o, meglio, scaricavano in quel duro sport tutto il peso di frustrazione e di risentimento che covava la loro condizione di "coloured", "diseredati dalla nostra società del benessere" e condannati a vivere in "ghetti impoveriti... dove la rabbia, se non il furore, ha ragione di esistere". Prima di Muhammad,  Joe Louis aveva quasi assunto il ruolo di "vendicatore" della razza battendo per k.o. nel 1938, nei soli centoventiquattro secondi dell' "incontro di boxe più famoso della storia americana", il rappresentante della razza superiore ariana, il tedesco Max Schmeling. Ma Muhammad divenne "il portatore dell'immagine di un'epoca" influenzando, con i suoi comportamenti "ostentati e controversi", seguiti spasmodicamente dall'"attezione mediatica", "una nuova generazione di neri". Al di là dell'evento sportivo e delle sue cinquantasei vittorie (e solo cinque sconfitte) Cassius Clay fu figura carismatica. Assunse il nome di Muhammad Alì all'epoca delle grandi battaglie per i diritti civili dei neri e della guerra in Vietnam,  diventando così, oltre che un pugile, una figura politica. Polemizzò con il governo e l'autorità e nel 1967, durante la guerra nel Vietnam, rifiutò di vestire la divisa militare  ("Sentite, io non ho nente contro questi vietcong") così diventando "una delle figure più denigrate d'America"; addirittura, secondo il Dipartimento di Stato,"un possibile rischio per la sicurezza". Figuriamoci cosa gli accadrebbe oggi, la conversione all'islamismo lo farebbe diventare bersaglio di ogni polemica antiterrorista.

L'ente americano preposto al pugilato gli tolse la licenza e Cassius/ Ali perse, credo, cinque anni di carriera. Dopo vari processi e appelli, la Corte Suprema degli Stati Uniti lo reintegrò nei suoi diritti e il grande pugile ritornò a combattere. Poté così sostenere incontri passati alla storia, del costume prima ancora che della boxe. Tre (la cosidetta "Ali-Frazier trilogy") furono quelli che sostenne con Joe Frazier, uno con George Foreman. Il primo incontro con Frazier si svolse nel 1971 e viene definito come "Fight of the Century", "Incontro del secolo" (8 marzo 1971, New York). Era valido per il Campionato del mondo WBA-WBC, e fu vinto da Frazier. I due sostennero il secondo match nel 1974 sempre a New York, il terzo a Thrilla a Manila, nelle Filippine, nell'ottobre del 1975. Vinse Ali.

un astuto stratagemma

Il match tra Ali e Foreman ebbe luogo nell'ottobre del 1974. Viene ricordato come "The Rumble in The Jungle" ("La rissa nella giungla") perché si svolse allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa, Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). George Foreman era il campione del mondo in carica, Alì lo era stato e voleva riprendersi il titolo per diventare così  il secondo a riuscire nell'impresa dopo Floyd Patterson. Fu in questa occasione che Ali utilizzò in modo sopraffino la tecnica del "rope-a-dope". Il nome, dicono le leggende, era originalmente "dope on the ropes", la forma con cui divenne famoso è dovuta ad un pubblicista, tal John Condon. Durante le prime sette riprese, Ali continuamente indietreggiava davanti agli attacchi di Foreman, appoggiandosi alle corde del ring. Da una parte, grazie alla loro elasticità, la trovata attutiva i colpi di Foreman,  dall'altra lo sfiancava costringendolo ad un dispendio enorme di energie nello sforzo di inseguire e aggredire Ali e buttarlo giù. Quando, verso la fine dell'ottavo round,  si accorse che Foreman era stremato, Ali sferrò una serie di jab e uppercut che fecero crollare il rivale al tappeto per il conteggio finale. Foreman accusò gli allenatori di Ali di aver allentato le corde per favorire il loro campione, e accampò numerose altre scuse per spiegare la sconfitta.  Tempo dopo, i due   si riconciliarono. Alla consegna dei Premi Oscar dove Ali veniva premiato per "When We Were Kings" - un documentario sull'incontro in Zaire - il fuoriclasse ebbe difficoltà a salire sul palco per via del Parkinson. Fu aiutato a salire  i gradini da Foreman.  in seguito  Foreman si sarebbe ripreso il titolo confermandosi come un vero campione.

Un bel libro che si legge d'un fiato, quello della Oates, seria documentazione ma anche omaggio a quella che, protetta ma anche praticata nel XVIII secolo dagli aristorcratici  inglesi, venne definita la "noble art". Affettuosamente, la Oates ci ricorda infine  che "la boxe è calata in uno spazio sacro che esisteva prima della civiltà o, per usare una frase di D.H. Lawrence, 'prima che Dio fosse amore' ".

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