martedì 26 maggio 2015


Angiolo Bandinelli

CONTROVERSIA SUL DEGRADO
da “Il Foglio, sabato 23 maggio 2015

Il consumo, motore dell'economia contemporanea, propone e impone il “degrado”. Il degrado ha, come punto di massima emergenza, l'accumulo dei rifiuti nel cuore delle metropoli. E' il volto oscuro del luccichio consumista. Siamo (credo di poterlo dire, pur se ignorante di economia) ben oltre la distruzione creatrice di cui parla Schumpeter. Per Schumpeter il ciclo economico, nel suo momento espansivo, richiede il continuo avvicendamento delle imprese, con alcune che muoiono per essere rimpiazzate da altre più capaci di introdurre la necessaria innovazione. Penso che anche per Schumpeter non sia l'acquirente, il consumatore, a far muovere, con la sua domanda selettiva, il ciclo produttivo ed economico, ma l'imprenditore che, per battere la concorrenza nella ricerca di massimizzazione del profitto, è portato - o obbligato - ad innovare su strumenti, strutture e metodi lavorativi. Mi pare sia nozione comune che oggi l'esigenza di mutamento investe, prioritariamente, piuttosto il prodotto finale, la merce, l'oggetto: che dovrà essere velocemente consumato ed eliminato per lasciare il posto a un nuovo più innovativo modello (poi, sarà necessario spiegare - ma io non sono competente - cosa significa innovazione). Il ciclo economico-tecnologico produce insomma merci, oggetti ai quali viene assegnato un determinato periodo di vita e che magari si autodistruggono - per così dire - quando il ciclo vitale previsto giunge a conclusione. Il processo fordista ha mutato obiettivo, oggi punta non alla catena della produzione ma a quella dei consumi, del consumo. E che fine fa la merce via via così rottamata? Si accumula nel degrado dei rifiuti che assediano la città. Che poi questa merce scartata venga raccolta e riciclata è un fattore secondario, non elimina il problema del degrado. A loro volta, i materiali degradati diventano degradanti, infestano e infettano l'intera città corrodendone l'immagine, coinvolgendola in un destino parallelo. La città contemporanea è anch'essa a rischio di degrado. Non è vissuta - come lo è stata per secoli: viene consumata.

Il termine degrado contempla anche una variante di significato, linguisticamente, filologicamente e semanticamente assai puntuale. In questa accezione esso significa “che discende di grado”, e dunque indica un processo più che uno stato (ha la stessa radice di “digrado”, che usiamo per indicare - per esempio - quel dolce declinare di colli e vallate che suscita nell'osservatore un senso di armonia). Il termine vale e ha senso solo nella sfera culturale, umana. In natura non ha senso, la natura non conosce il degrado/digrado, il passare da un grado ad un altro più basso: l'evento naturale è, in ogni momento della sua esistenza, non altro che quello che in quel momento deve essere ed è: l'albero sradicato e abbattuto o la carogna putrescente sono elementi di un processo naturale sempre, in sé, positivo.

Nella variante, il degradare/digradare è un accadere, passo dopo passo, gradino dopo gradino, nello scorrere del tempo. Ma il tempo organizza anche, con altra e ben più sontuosa strategia, la “rovina”, che non va confusa con il degrado. Anche il concetto di rovina ha una forte impronta culturale, il suo apogeo lo ha avuto con il romanticismo. Piranesi ha splendidamente reso l'immagine della rovina romantica, rovesciando il significato primigenio, quello di prodotto di una distruzione provocata, appunto, dal tempo oltreché, sovente, dall'uomo. Le rovine di Troia suscitavano una emozione dolorosa nel ricordo della guerra e delle stragi e violenze con cui essa si concluse; poi però, nella sensibilità romantica (shaftesburiana, kantiana, ecc.) quelle rovine (non “la” rovina ma, ora, “le” rovine) fornirono all'uomo l'occasione per elaborare ed approfondire una assai complessa sensazione, quella della meditazione sullo scorrere del tempo, sulla distanza psicologica ed emotiva che è tra l'immensità del passato e la piccolezza e angustia del presente, e/o anche tra l'infinito e il finito. Siamo nell'ambito di quel concetto di sublime su cui Kant ha detto molto.

L'esperienza romantica della rovina necessitava di una visione, o vista, soggettiva: occorreva che ci fosse un soggetto che la provasse e ne fosse turbato fin nel profondo del cuore. Di fronte alla rovina doveva esserci un soggetto forte, forte di un destino che gli si rivelava appunto a contatto, nel confronto con l'oggetto della sua visione: la rovina, il paesaggio delle rovine. Gibbon sperimentò questa straordinaria sensazione dinanzi alle rovine della Roma classica: ne ricavò “Decline and fall of the Roman Empire”. Forse proprio attorno al concetto di rovina/rovine acquistò significati di estrema suggestione il termine di “contemplazione”. Questo rapporto nasceva in un contesto di solitudine, l'osservatore e la rovina si isolavano in una sorta di empatia psichica. La contemplazione era evocativa, la capacità evocativa era la sua massima proprietà. Per inciso: qui viene ricordato il romanticismo e l'accento posto sulla contemplazione delle rovine del passato. Credo che quel termine sia stato impiegato anche nel racconto di Nerone che, appunto, contempla l'Urbe che lui ha dato alle fiamme e accompagna questa contemplazione modulando sulla lira i brani dell'Iliade che raccontano l'incendio finale di Troia. Un significativo parallelismo.


Il degrado di cui è responsabile l'economia contemporanea non produce nulla di analogo all'empatia/simpatia. Non invita alla contemplazione, tutt'altro; a meno che il disgusto, l'orrore, il torcere altrove lo sguardo nauseato non siano forme di emozione empatica. Segnala invece una crisi, la crisi della città, del contesto urbano in quanto tale. E questo ci mette in angoscia. Temiamo che l'avvolgente degrado possa sommergerci tutti, come una frana: la società che porta in sé, come sua controfaccia, il degrado, è sempre (o appare sempre) sull'orlo infido della catastrofe. Il catastrofismo, la crisi della civiltà è cifra culturale del degrado. La cosiddetta, sfruttatissima, immagine dell'eclisse dell'Occidente è l'espressione più corriva e abusata della crisi catastrofica che vediamo incombere sull'intera umanità.

Però il degrado ha anche una bivalente dimensione etica: c'è il degrado morale, il descensus ad inferos della città e della sua civiltà, ma inaspettatamente - dulcis in fundo - il degrado presenta anche un rovescio positivo, straordinariamente positivo. C'entra l'arte, o qualcosa che le assomiglia parecchio. Il primo a rovesciare in senso positivo il rapporto di uomo e cultura con il degrado è stato Marcel Duchamps. Il 2 aprile 1917 a Washington “il Presidente Thomas Woodrow Wilson incoraggia formalmente il Congresso a dichiarare guerra alla Germania...nel frattempo, a New York, tre giovani dall'aspetto bello ed elegante lasciano un bell'appartamento doppio al 33 della 67a Ovest, diretti al centro della città” (questa e le seguenti citazioni vengono da: Will Gompertz, “E questa la chiami arte?, 150 anni di arte moderna in un batter d'occhio”, Electa, 2013). I tre sono un giovane artista francese “elegante e slanciato” e due più tarchiati “amici americani”. Passeggiano chiacchierando gradevolmente, attraversano Central Park, scendono lungo Manhattan, passano sotto quel Flatiron Building che era molto piaciuto al giovane francese al suo arrivo a New York, si fermano dinanzi a un negozio “specialista in forniture idrauliche”, lo J.L.Mott Iron Works. Vi entrano. Quando ne escono, poco dopo, il giovane francese, che è appunto Duchamps, si porta appresso un “normalissimo orinatoio in porcellana bianca...modello Berdfordshire”. Proprio da questo evento così casuale, da questo banale oggetto, la storia dell'arte e della cultura verrà profondamente e irrevocabilmente rivoluzionata, non è esagerato affermarlo. Duchamps è un giovane spiritoso, gli è venuta l'idea di fare dello strano oggetto lo strumento per una burla “all'antiquato mondo dell'arte” e all'”atteggiamento conservatore e soffocante della National Academy of Design”. Se lo porta allo studio, “lo depone sul dorso e lo gira sottosopra, con tempera nera lo data e lo firma...con il suo pseudonimo, R.Mutt, 1917.” Gli ha dato anche un titolo: “Fontana”. Intende presentarlo alla prossima Independent Exhibition, importante mostra di arte moderna. Quando l'opera apparve nella sala espositiva del Grand Central Palace su Lexington Avenue, “suscitò una miscela esplosiva di costernazione e disgusto”. Richiamava alla mente, per analogia, una discarica di rifiuti, solo da una discarica poteva provenire. L'orinatoio di Duchamp si è perduto chissà dove, ne esistono solo rifacimenti, copie e repliche che siano.

Era la prima volta che un oggetto così negativo sfidava la grande cultura; oggetti analoghi, provenienti o no da discariche ma sempre richiamandoci a non-luoghi del genere, sono oggi il materiale primario dell'arte (o di quel che ne rimane). La discarica, il rifiuto, l'oggetto degradato continuano a darci disgusto, alienazione, assurdo, ma anche, quando manipolati da un artista, ci provocano, sollecitano attenzione e impensati dirottamenti logici e, infine, ironia. E' lungo questi percorsi che il degrado cerca di fornirci - in un rovesciamento che è insieme logico ed etico - un equivalente del sublime romantico. E anzi, è ormai un vezzo, perfino abusato e scontato, che l'arte promuova il dialogo con il degrado, con il consumo, con l'oggetto rifiutato, innalzandolo a sua materia prediletta. Burri cuciva assieme pezzi di sacco e ne faceva tele in stile Morandi, Colla saldava rottami di ferro, di macchinari, per farne sculture, con i suoi lacerti di feltro e i suoi massi di granito Beuys mimava le rovine del mondo. Qualcuno ha osservato che questi artisti vivevano nell'immediato secondo dopoguerra, avevano a che fare non con il degrado ma con il rottame, le macerie prodotte dal bombardamento, dalle feroci battaglie. Ma già, più o meno, insieme a Duchamps si poteva incontrare il Picasso che faceva scultura impiastricciando con l'argilla automobiline-giocattolo per bambini, arrugginiti manubri di bicicletta o rigonfi vasi di terraglia facendone nascere, per estensione fantastica, teste di scimmioni, crani di tori, donne incinte con il pancione, i collages dada e futuristi da tempo avevano aperto un dialogo ammiccante con la carta da pacchi, il foglio di giornale, i caratteri tipografici, un minuto bric-à-brac scartato o semplicemente “rivisitato” con occhio ironico. Più tardi, Rotella strapperà dai muri brandelli di poster per ricollocarli armonicamente sulla tela, facendone una quasi-pittura. Jeff Koons riporta il bric-à-brac alla dimensione prelogica dell'infantilismo dada.

Il fondamento di queste varie forme è tutt'insieme estetico, logico ed etico. La teoria (saldissima) che lo sostiene e lo argomenta è quella della “decontestualizzazione”, dello “straniamento”. Per capire cosa si intenda con queste espressioni, si guardi all'opera in questo senso più strepitosa, la giustamente famosa “Venere degli stracci” di Pistoletto, degli anni '60/'70. E' quasi un manifesto, sia pure a posteriori. La giustapposizione della Venere, una copia di scultura classica, al mucchio di stracci spiazza e annulla il tempo, ricordandoci con prepotenza il carattere di fondo della contemporaneità. Quest'opera non devi contemplarla - non è la “Gioconda” - ma fare una equazione logica e una riflessione moraleggiante.

Per un processo parallelo anche se di opposta direzione, gli artisti della “Bauhaus”, la scuola di design fondata nel 1919, a Weimar, da Walter Gropius e proseguita poi tra Dessau e Berlino, fino al 1933, con docenti quali László Moholy Nagy o Mies van der Rohe, rovesciarono, coscientemente e razionalmente, la funzione dell'oggetto prodotto dall'uomo, riutilizzandolo di nuovo in positivo, ma collocandolo in un contesto e per un impiego diverso dall'originario. Marcel Breuer progettò e realizzò nel 1925 una famosa poltrona, il modello Wassily (o B23) saldando insieme tubi d'acciaio di produzione standard e di basso e banale uso industriale. Quei tubi non provenivano da una discarica, non erano un rifiuto, un oggetto proveniente dal degrado, ma la chiave del loro reimpiego da parte dell'artista era sempre la decontestualizzazione, lo spiazzamento: uno specifico oggetto d'uso viene strappato dalla funzione per la quale è stato prodotto e collocato altrove, privato della sua prima finalità costitutiva (della sua “essenza” o della sua “quiddità”, secondo la logica classica), per assumerne un'altra del tutto diversa.

Da queste straordinarie scoperte – precisiamo: logiche, prima che estetiche - il mondo è stato cambiato, irreversibilmente. Non vi sono più oggetti identici a se stessi, fermi e saldi nella loro funzione, quella che ha dato loro la forma: ogni oggetto può diventare un altro, mutare la sua “quiddità” (ricordate Rimbaud?: “Je est un autre”). Così manipolato, l'oggetto ha senso solo per la forma, una forma pronta ad assumere il significato che l'uomo - non necessariamente un artista - di volta in volta gli darà. Siamo nel dominio del relativismo, qualcuno potrebbe dire anche che siamo in pieno nichilismo. Il vanto del moderno - il modello culturale che produsse la civiltà del progresso ottocentesco - la sua caratteristica saliente, era la progettualità proiettata lungo un tempo lineare, teso ad un fine teleologicamente determinato. Il post-moderno - la civiltà del mondo contemporaneo e del prossimo prevedibile - interrompe la corsa del progresso e afferma che il processo non ha più una direzione: il post-moderno rifiuta la linearità, il processo è, appunto, pluridirezionale, policentrico, composto di infiniti punti equivalenti, che si scambiano informazioni e non direttive, visto che ciascun centro, poi, cresce su se stesso in perfetta autarchia.

Il degrado è una forma, forse addirittura prevalente, del post-moderno. Per questa via il consumo, anzi il degrado, è divenuto tema della teoria estetica, un tema essenziale della sua riflessione. Il degrado è una vera e propria sfida culturale. Sotto le sue inarrestabili spinte vengono abbattuti gli idoli della memoria, della contemplazione, crollano vetusti templi culturali e sono cacciati per sempre i genuflessi sacerdoti della conservazione, le cassandre della immensa paura del divenire. La massa dei rifiuti che ci parlano del degrado non ha un passato, il passato è stato decomposto, stritolato, ed è ormai irriconoscibile. La dimensione del reale è dunque il presente. Il degrado porta con sé la distruzione del tempo, del tempo come struttura del divenire, della storia. Viviamo e vivremo il tempo come fluire senza spessore, nell'accettazione di un continuo presente nel quale - in assenza di storia e dunque di memoria - saremo solo ciò che verrà detto di noi. Il degrado è anche distruzione dello spazio. Lo spazio era misurato dai ritmi alterni del pieno e del vuoto, il perfetto monumento allo spazio come prodotto dell'uomo è la Cappella Pazzi a Firenze, calibratissimo equilibrio di proporzioni e di misure - le paraste e le trabeazioni in pietra serena, le campiture a calce - cariche di allusioni pitagorico-.platoniche.

Il degrado non ha dimensioni misurabili, né nel tempo né nello spazio, è una massa indistinta di materiali giustapposti, la sua massima monumentalità è il container, un parallelepipedo riempito fino al massimo della sua capienza da materiali inerti. Secondo la ferrea legge del consumo, il materiale del degrado potrà (o dovrà) finire nella discarica, forse anche sarà riciclato, dal degrado nascerà altro degrado, sempre uguale a sé stesso. Non sarà più necessario il segno nello spazio, il monumento, l'intellettuale o sperimentale equilibrio dei valori: ogni punto dello spazio sarà identico ad ogni altro punto dello spazio, il mondo risultante è un mondo casuale, “straniato”, nel quale uno squalo può trovarsi immerso non nelle acque oceaniche ma nella formalina, o qualche migliaio di colorate farfalle e lucenti coleotteri potrà ritrovarsi appuntato con gli spilli su un sofisticatissimo pattern (quello e questi per opera di Damien Hirst) esattamente come un tempo vennero giustapposte le tessere di un mosaico bizantino, e un mucchio di juta, lastre di vetro, argilla, essere materiale costruttivo per Mario Merz (di cui è in corso una mostra a Venezia, nelle nuove sale delle Gallerie dell'Accademia), che ne trarrà un igloo degli Inuit, il popolo dei ghiacci artici. L'immediato è pura e semplice forma, le cui funzioni sono intercambiabili. Quale affascinante confronto: la metafisica di San Tommaso d'Aquino, nell'immensa sua “Summa Theologiae”, costruisce un intero universo come una piramide di Enti, di soggetti, che discende (digrada?) da Dio fino all'ultimo Ente terreno, compattamente, senza soluzione di continuità, e il sillogismo è lo strumento teorico fondamentale per penetrare nei segreti di questa perfetta, immutabile costruzione; il casualismo contemporaneo compone un universo piatto, nel quale Enti e soggetti sono intercambiabili e fruibili in giustapposizione, nascendo per partenogenesi, non per filiazione.

La civiltà del degrado è instabile. Questa è la sua essenza. Ai suoi confini preme l'apocalisse, l'apocalisse in cui tutto precipita o precipiterà fino al caos originario, l'informe definitivo e assoluto nel quale gli oggetti, le diversità non sono presenti. L'apocalisse è il contrario del “fare” come attività dell'umano, produttore di oggetti separati uno dall'altro, con confini precisi, con nomi che li identificano, ognuno con la sua specifica essenza. E scompare il tempo, il tempo composto di momenti, determinati e distinti: il presente, il passato, il futuro, con le loro precise fenomenologie. Futuro e passato vengono inghiottiti da un compatto continuum - il presente appunto - nel quale ogni scansione è annullata. Compreso il cosiddetto tempo interiore, ormai assolutamente proibito, diffidato come pericoloso eversore. Per alcuni teorici la ricomposizione di oggetti in uno nuovo è una “riappropriazione” del tempo. A noi questa interpretazione pare dubbia.

Relativismo, abbiamo detto, o anche nichilismo. Ma come è possibile pensare a respingere quello e questo? Chi può pensare di ridisegnare, riprogettare un mondo senza l'infinità degli oggetti, oggetti d'uso, oggetti del degrado, oggetti riciclati, oggetti d'arte e di design che ci circondano e condizionano ogni nostra esperienza? Piaccia o no, il degrado, il relativismo e il nichilismo sono oggi le forme visibili e percepibili dell'Assoluto. Se così preferite, non chiamatelo Dio. Semmai, se volete, chiamatelo Riciclaggio.

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