Angiolo
Bandinelli
CONTROVERSIA
SUL DEGRADO
da
“Il Foglio, sabato 23 maggio 2015
Il
consumo, motore dell'economia contemporanea, propone e impone il
“degrado”. Il degrado ha, come punto di massima emergenza,
l'accumulo dei rifiuti nel cuore delle metropoli. E' il volto oscuro
del luccichio consumista. Siamo (credo di poterlo dire, pur se
ignorante di economia) ben oltre la distruzione creatrice di cui
parla Schumpeter. Per Schumpeter il ciclo economico, nel suo momento
espansivo, richiede il continuo avvicendamento delle imprese, con
alcune che muoiono per essere rimpiazzate da altre più capaci di
introdurre la necessaria innovazione. Penso che anche per Schumpeter
non sia l'acquirente, il consumatore, a far muovere, con la sua
domanda selettiva, il ciclo produttivo ed economico, ma
l'imprenditore che, per battere la concorrenza nella ricerca di
massimizzazione del profitto, è portato - o obbligato - ad innovare
su strumenti, strutture e metodi lavorativi. Mi pare sia nozione
comune che oggi l'esigenza di mutamento investe, prioritariamente,
piuttosto il prodotto finale, la merce, l'oggetto: che dovrà essere
velocemente consumato ed eliminato per lasciare il posto a un nuovo
più innovativo modello (poi, sarà necessario spiegare - ma io non
sono competente - cosa significa innovazione). Il ciclo
economico-tecnologico produce insomma merci, oggetti ai quali viene
assegnato un determinato periodo di vita e che magari si
autodistruggono - per così dire - quando il ciclo vitale previsto
giunge a conclusione. Il processo fordista ha mutato obiettivo, oggi
punta non alla catena della produzione ma a quella dei consumi, del
consumo. E che fine fa la merce via via così rottamata? Si accumula
nel degrado dei rifiuti che assediano la città. Che poi questa merce
scartata venga raccolta e riciclata è un fattore secondario, non
elimina il problema del degrado. A loro volta, i materiali degradati
diventano degradanti, infestano e infettano l'intera città
corrodendone l'immagine, coinvolgendola in un destino parallelo. La
città contemporanea è anch'essa a rischio di degrado. Non è
vissuta - come lo è stata per secoli: viene consumata.
Il
termine degrado contempla anche una variante di significato,
linguisticamente, filologicamente e semanticamente assai puntuale. In
questa accezione esso significa “che discende di grado”, e dunque
indica un processo più che uno stato (ha la stessa radice di
“digrado”, che usiamo per indicare - per esempio - quel dolce
declinare di colli e vallate che suscita nell'osservatore un senso di
armonia). Il termine vale e ha senso solo nella sfera culturale,
umana. In natura non ha senso, la natura non conosce il
degrado/digrado, il passare da un grado ad un altro più basso:
l'evento naturale è, in ogni momento della sua esistenza, non altro
che quello che in quel momento deve essere ed è: l'albero sradicato
e abbattuto o la carogna putrescente sono elementi di un processo
naturale sempre, in sé, positivo.
Nella
variante, il degradare/digradare è un accadere, passo dopo passo,
gradino dopo gradino, nello scorrere del tempo. Ma il tempo organizza
anche, con altra e ben più sontuosa strategia, la “rovina”, che
non va confusa con il degrado. Anche il concetto di rovina ha una
forte impronta culturale, il suo apogeo lo ha avuto con il
romanticismo. Piranesi ha splendidamente reso l'immagine della rovina
romantica, rovesciando il significato primigenio, quello di prodotto
di una distruzione provocata, appunto, dal tempo oltreché, sovente,
dall'uomo. Le rovine di Troia suscitavano una emozione dolorosa nel
ricordo della guerra e delle stragi e violenze con cui essa si
concluse; poi però, nella sensibilità romantica (shaftesburiana,
kantiana, ecc.) quelle rovine (non “la” rovina ma, ora, “le”
rovine) fornirono all'uomo l'occasione per elaborare ed approfondire
una assai complessa sensazione, quella della meditazione sullo
scorrere del tempo, sulla distanza psicologica ed emotiva che è tra
l'immensità del passato e la piccolezza e angustia del presente, e/o
anche tra l'infinito e il finito. Siamo nell'ambito di quel concetto
di sublime su cui Kant ha detto molto.
L'esperienza
romantica della rovina necessitava di una visione, o vista,
soggettiva: occorreva che ci fosse un soggetto che la provasse e ne
fosse turbato fin nel profondo del cuore. Di fronte alla rovina
doveva esserci un soggetto forte, forte di un destino che gli si
rivelava appunto a contatto, nel confronto con l'oggetto della sua
visione: la rovina, il paesaggio delle rovine. Gibbon sperimentò
questa straordinaria sensazione dinanzi alle rovine della Roma
classica: ne ricavò “Decline and fall of the Roman Empire”.
Forse proprio attorno al concetto di rovina/rovine acquistò
significati di estrema suggestione il termine di “contemplazione”.
Questo rapporto nasceva in un contesto di solitudine, l'osservatore e
la rovina si isolavano in una sorta di empatia psichica. La
contemplazione era evocativa, la capacità evocativa era la sua
massima proprietà. Per inciso: qui viene ricordato il romanticismo e
l'accento posto sulla contemplazione delle rovine del passato. Credo
che quel termine sia stato impiegato anche nel racconto di Nerone
che, appunto, contempla l'Urbe che lui ha dato alle fiamme e
accompagna questa contemplazione modulando sulla lira i brani
dell'Iliade che raccontano l'incendio finale di Troia. Un
significativo parallelismo.
Il
degrado di cui è responsabile l'economia contemporanea non produce
nulla di analogo all'empatia/simpatia. Non invita alla
contemplazione, tutt'altro; a meno che il disgusto, l'orrore, il
torcere altrove lo sguardo nauseato non siano forme di emozione
empatica. Segnala invece una crisi, la crisi della città, del
contesto urbano in quanto tale. E questo ci mette in angoscia.
Temiamo che l'avvolgente degrado possa sommergerci tutti, come una
frana: la società che porta in sé, come sua controfaccia, il
degrado, è sempre (o appare sempre) sull'orlo infido della
catastrofe. Il catastrofismo, la crisi della civiltà è cifra
culturale del degrado. La cosiddetta, sfruttatissima, immagine
dell'eclisse dell'Occidente è l'espressione più corriva e abusata
della crisi catastrofica che vediamo incombere sull'intera umanità.
Però
il degrado ha anche una bivalente dimensione etica: c'è il degrado
morale, il descensus ad inferos della città e della sua civiltà, ma
inaspettatamente - dulcis in fundo - il degrado presenta anche un
rovescio positivo, straordinariamente positivo. C'entra l'arte, o
qualcosa che le assomiglia parecchio. Il primo a rovesciare in senso
positivo il rapporto di uomo e cultura con il degrado è stato Marcel
Duchamps. Il 2 aprile 1917 a Washington “il Presidente Thomas
Woodrow Wilson incoraggia formalmente il Congresso a dichiarare
guerra alla Germania...nel frattempo, a New York, tre giovani
dall'aspetto bello ed elegante lasciano un bell'appartamento doppio
al 33 della 67a Ovest, diretti al centro della città” (questa e le
seguenti citazioni vengono da: Will Gompertz, “E questa la chiami
arte?, 150 anni di arte moderna in un batter d'occhio”, Electa,
2013). I tre sono un giovane artista francese “elegante e
slanciato” e due più tarchiati “amici americani”. Passeggiano
chiacchierando gradevolmente, attraversano Central Park, scendono
lungo Manhattan, passano sotto quel Flatiron Building che era molto
piaciuto al giovane francese al suo arrivo a New York, si fermano
dinanzi a un negozio “specialista in forniture idrauliche”, lo
J.L.Mott Iron Works. Vi entrano. Quando ne escono, poco dopo, il
giovane francese, che è appunto Duchamps, si porta appresso un
“normalissimo orinatoio in porcellana bianca...modello
Berdfordshire”. Proprio da questo evento così casuale, da questo
banale oggetto, la storia dell'arte e della cultura verrà
profondamente e irrevocabilmente rivoluzionata, non è esagerato
affermarlo. Duchamps è un giovane spiritoso, gli è venuta l'idea di
fare dello strano oggetto lo strumento per una burla “all'antiquato
mondo dell'arte” e all'”atteggiamento conservatore e soffocante
della National Academy of Design”. Se lo porta allo studio, “lo
depone sul dorso e lo gira sottosopra, con tempera nera lo data e lo
firma...con il suo pseudonimo, R.Mutt, 1917.” Gli ha dato anche un
titolo: “Fontana”. Intende presentarlo alla prossima Independent
Exhibition, importante mostra di arte moderna. Quando l'opera apparve
nella sala espositiva del Grand Central Palace su Lexington Avenue,
“suscitò una miscela esplosiva di costernazione e disgusto”.
Richiamava alla mente, per analogia, una discarica di rifiuti, solo
da una discarica poteva provenire. L'orinatoio di Duchamp si è
perduto chissà dove, ne esistono solo rifacimenti, copie e repliche
che siano.
Era
la prima volta che un oggetto così negativo sfidava la grande
cultura; oggetti analoghi, provenienti o no da discariche ma sempre
richiamandoci a non-luoghi del genere, sono oggi il materiale
primario dell'arte (o di quel che ne rimane). La discarica, il
rifiuto, l'oggetto degradato continuano a darci disgusto,
alienazione, assurdo, ma anche, quando manipolati da un artista, ci
provocano, sollecitano attenzione e impensati dirottamenti logici e,
infine, ironia. E' lungo questi percorsi che il degrado cerca di
fornirci - in un rovesciamento che è insieme logico ed etico - un
equivalente del sublime romantico. E anzi, è ormai un vezzo, perfino
abusato e scontato, che l'arte promuova il dialogo con il degrado,
con il consumo, con l'oggetto rifiutato, innalzandolo a sua materia
prediletta. Burri cuciva assieme pezzi di sacco e ne faceva tele in
stile Morandi, Colla saldava rottami di ferro, di macchinari, per
farne sculture, con i suoi lacerti di feltro e i suoi massi di
granito Beuys mimava le rovine del mondo. Qualcuno ha osservato che
questi artisti vivevano nell'immediato secondo dopoguerra, avevano a
che fare non con il degrado ma con il rottame, le macerie prodotte
dal bombardamento, dalle feroci battaglie. Ma già, più o meno,
insieme a Duchamps si poteva incontrare il Picasso che faceva
scultura impiastricciando con l'argilla automobiline-giocattolo per
bambini, arrugginiti manubri di bicicletta o rigonfi vasi di
terraglia facendone nascere, per estensione fantastica, teste di
scimmioni, crani di tori, donne incinte con il pancione, i collages
dada e futuristi da tempo avevano aperto un dialogo ammiccante con la
carta da pacchi, il foglio di giornale, i caratteri tipografici, un
minuto bric-à-brac scartato o semplicemente “rivisitato” con
occhio ironico. Più tardi, Rotella strapperà dai muri brandelli di
poster per ricollocarli armonicamente sulla tela, facendone una
quasi-pittura. Jeff Koons riporta il bric-à-brac alla dimensione
prelogica dell'infantilismo dada.
Il
fondamento di queste varie forme è tutt'insieme estetico, logico ed
etico. La teoria (saldissima) che lo sostiene e lo argomenta è
quella della “decontestualizzazione”, dello “straniamento”.
Per capire cosa si intenda con queste espressioni, si guardi
all'opera in questo senso più strepitosa, la giustamente famosa
“Venere degli stracci” di Pistoletto, degli anni '60/'70. E'
quasi un manifesto, sia pure a posteriori. La giustapposizione della
Venere, una copia di scultura classica, al mucchio di stracci spiazza
e annulla il tempo, ricordandoci con prepotenza il carattere di fondo
della contemporaneità. Quest'opera non devi contemplarla - non è la
“Gioconda” - ma fare una equazione logica e una riflessione
moraleggiante.
Per
un processo parallelo anche se di opposta direzione, gli artisti
della “Bauhaus”, la scuola di design fondata nel 1919, a Weimar,
da Walter Gropius e proseguita poi tra Dessau e Berlino, fino al
1933, con docenti quali László
Moholy Nagy o Mies
van der Rohe, rovesciarono, coscientemente e razionalmente, la
funzione dell'oggetto prodotto dall'uomo, riutilizzandolo di nuovo in
positivo, ma collocandolo in un contesto e per un impiego diverso
dall'originario. Marcel Breuer progettò e realizzò nel 1925 una
famosa poltrona, il modello Wassily (o B23) saldando insieme tubi
d'acciaio di produzione standard e di basso e banale uso industriale.
Quei tubi non provenivano da una discarica, non erano un rifiuto, un
oggetto proveniente dal degrado, ma la chiave del loro reimpiego da
parte dell'artista era sempre la decontestualizzazione, lo
spiazzamento: uno specifico oggetto d'uso viene strappato dalla
funzione per la quale è stato prodotto e collocato altrove, privato
della sua prima finalità costitutiva (della sua “essenza” o
della sua “quiddità”, secondo la logica classica), per assumerne
un'altra del tutto diversa.
Da
queste straordinarie scoperte – precisiamo: logiche, prima che
estetiche - il mondo è stato cambiato, irreversibilmente. Non vi
sono più oggetti identici a se stessi, fermi e saldi nella loro
funzione, quella che ha dato loro la forma: ogni oggetto può
diventare un altro, mutare la sua “quiddità” (ricordate
Rimbaud?: “Je est un autre”). Così manipolato, l'oggetto ha
senso solo per la forma, una forma pronta ad assumere il significato
che l'uomo - non necessariamente un artista - di volta in volta gli
darà. Siamo nel dominio del relativismo, qualcuno potrebbe dire
anche che siamo in pieno nichilismo. Il
vanto del moderno - il modello culturale che produsse la civiltà del
progresso ottocentesco - la sua caratteristica saliente, era la
progettualità proiettata lungo un tempo lineare, teso ad un fine
teleologicamente determinato. Il post-moderno - la civiltà del mondo
contemporaneo e del prossimo prevedibile - interrompe la corsa del
progresso e afferma che il processo non ha più una direzione: il
post-moderno rifiuta la linearità, il processo è, appunto,
pluridirezionale, policentrico, composto di infiniti punti
equivalenti, che si scambiano informazioni e non direttive, visto che
ciascun centro, poi, cresce su se stesso in perfetta autarchia.
Il
degrado è una forma, forse addirittura prevalente, del post-moderno.
Per
questa via il consumo, anzi il degrado, è divenuto tema della teoria
estetica, un tema essenziale della sua riflessione. Il degrado è una
vera e propria sfida culturale. Sotto le sue inarrestabili spinte
vengono abbattuti gli idoli della memoria, della contemplazione,
crollano vetusti templi culturali e sono cacciati per sempre i
genuflessi sacerdoti della conservazione, le cassandre della immensa
paura del divenire. La massa dei rifiuti che ci parlano del degrado
non ha un passato, il passato è stato decomposto, stritolato, ed è
ormai irriconoscibile. La dimensione del reale è dunque il presente.
Il degrado porta con sé la distruzione del tempo, del tempo come
struttura del divenire, della storia. Viviamo e vivremo il tempo come
fluire senza spessore, nell'accettazione di un continuo presente nel
quale - in assenza di storia e dunque di memoria - saremo solo ciò
che verrà detto di noi. Il degrado è anche distruzione dello
spazio. Lo spazio era misurato dai ritmi alterni del pieno e del
vuoto, il perfetto monumento allo spazio come prodotto dell'uomo è
la Cappella Pazzi a Firenze, calibratissimo equilibrio di proporzioni
e di misure - le paraste e le trabeazioni in pietra serena, le
campiture a calce - cariche di allusioni pitagorico-.platoniche.
Il
degrado non ha dimensioni misurabili, né nel tempo né nello spazio,
è una massa indistinta di materiali giustapposti, la sua massima
monumentalità è il container, un parallelepipedo riempito fino al
massimo della sua capienza da materiali inerti. Secondo la ferrea
legge del consumo, il materiale del degrado potrà (o dovrà) finire
nella discarica, forse anche sarà riciclato, dal degrado nascerà
altro degrado, sempre uguale a sé stesso. Non sarà più necessario
il segno nello spazio, il monumento, l'intellettuale o sperimentale
equilibrio dei valori: ogni punto dello spazio sarà identico ad ogni
altro punto dello spazio, il mondo risultante è un mondo casuale,
“straniato”, nel quale uno squalo può trovarsi immerso non nelle
acque oceaniche ma nella formalina, o qualche migliaio di colorate
farfalle e lucenti coleotteri potrà ritrovarsi appuntato con gli
spilli su un sofisticatissimo pattern (quello e questi per opera di
Damien Hirst) esattamente come un tempo vennero giustapposte le
tessere di un mosaico bizantino, e un mucchio di juta, lastre di
vetro, argilla, essere materiale costruttivo per Mario Merz (di cui è
in corso una mostra a Venezia, nelle nuove sale delle Gallerie
dell'Accademia), che ne trarrà un igloo degli Inuit, il popolo dei
ghiacci artici. L'immediato è pura e semplice forma, le cui funzioni
sono intercambiabili. Quale affascinante confronto: la metafisica di
San Tommaso d'Aquino, nell'immensa sua “Summa Theologiae”,
costruisce un intero universo come una piramide di Enti, di soggetti,
che discende (digrada?) da Dio fino all'ultimo Ente terreno,
compattamente, senza soluzione di continuità, e il sillogismo è lo
strumento teorico fondamentale per penetrare nei segreti di questa
perfetta, immutabile costruzione; il casualismo contemporaneo compone
un universo piatto, nel quale Enti e soggetti sono intercambiabili e
fruibili in giustapposizione, nascendo per partenogenesi, non per
filiazione.
La
civiltà del degrado è instabile. Questa è la sua essenza. Ai suoi
confini preme l'apocalisse, l'apocalisse in cui tutto precipita o
precipiterà fino al caos originario, l'informe definitivo e assoluto
nel quale gli oggetti, le diversità non sono presenti. L'apocalisse
è il contrario del “fare” come attività dell'umano, produttore
di oggetti separati uno dall'altro, con confini precisi, con nomi che
li identificano, ognuno con la sua specifica essenza. E scompare il
tempo, il tempo composto di momenti, determinati e distinti: il
presente, il passato, il futuro, con le loro precise fenomenologie.
Futuro e passato vengono inghiottiti da un compatto continuum - il
presente appunto - nel quale ogni scansione è annullata. Compreso il
cosiddetto tempo interiore, ormai assolutamente proibito, diffidato
come pericoloso eversore. Per alcuni teorici la ricomposizione di
oggetti in uno nuovo è una “riappropriazione” del tempo. A noi
questa interpretazione pare dubbia.
Relativismo,
abbiamo detto, o anche nichilismo. Ma come è possibile pensare a
respingere quello e questo? Chi può pensare di ridisegnare,
riprogettare un mondo senza l'infinità degli oggetti, oggetti d'uso,
oggetti del degrado, oggetti riciclati, oggetti d'arte e di design
che ci circondano e condizionano ogni nostra esperienza? Piaccia o
no, il degrado, il relativismo e il nichilismo sono oggi le forme
visibili e percepibili dell'Assoluto. Se così preferite, non
chiamatelo Dio. Semmai, se volete, chiamatelo Riciclaggio.
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