giovedì 30 agosto 2012


Angiolo Bandinelli

Twittare un nuovo Sillabo?

30-08-2012
Un po’ sarcasticamente, Giuliano Ferrara ci invita a collaborare con lui su twitter (account: ferrarasillabo) per rinfrescare, aggiornare e adattare il Sillabo promulgato da Pio IX, nel 1864, a condanna degli “errori del secolo”. Impossibile resistere all’invito/ingiunzione, aderisco. Quel documento - 82 proposizioni, poi ridotte a 80 - intendeva in qualche modo sintetizzare e rendere accessibile l’enciclica “Mirari vos” promulgata nel 1832 da papa Gregorio XVI, che aveva “alluso” a una “moltitudine sterminata di libri, giornali, scritti fuori controllo”, “qualcosa di molto simile a un web dell’Ottocento”. Il Sillabo di Pio IX (“Syllabus”, nel latino originale) condensò e limò, insomma fu il twitter - circa 140 caratteri a proposizione, assicura il direttore - con cui la chiesa cattolica si confrontò con la modernità e ne sfidò riti e miti. Il documento è stato punto di riferimento del mondo cattolico “per un centinaio di anni, fino al Concilio ecumenico Vaticano II”; ma, secondo Ferrara, la sua “eco apostolica e culturale, icastica, semplificatrice, asciutta, univoca, si sente ancora oggi, che lo si sappia o no”.
Lessi il Sillabo molti anni fa, nella edizione Parenti del 1957 con introduzione e note di Ernesto Rossi. Posseggo la rara edizione, al momento non l’ho sottomano. Parenti pubblicò testi anticlericali, venne per questo, se ricordo bene, strangolato, dovette chiudere l’attività. Ma come mai l’anticlericale e laicista Ernesto Rossi editava il testo cardine del clericalismo? Semplicemente perché era un testo famoso ma introvabile, forse lo stesso mondo cattolico provava disagio a farlo circolare.



Rossi riportò alla luce le poco conosciute proposizioni. Per il grande giornalista del “Mondo”, quell’elenco era la dimostrazione di quanto la Chiesa fosse reazionaria, lontana dal mondo moderno e dai suoi valori e problemi. Ferrara è di tutt’altro parere, a suo avviso il Sillabo è “un possente e modernissimo documento”. Che sia possente è - almeno stilisticamente - accettabile, ma perché dovremmo pensare che sia anche modernissimo? La ragione è, secondo il direttore, che resta un valido argine contro “le più inquietanti scemenze contemporanee, più o meno quello che dicono gli intellettuali laici e progressisti medi, i conservatori di serie minore, la media degli insegnanti che si sentono soldati dello Stato e della sua scuola unica senza contenuti, dei redattori di Famiglia Cristiana, dei politici tiepidi, di quegli arrabbiati, delle star tv, dei filosofi con il baffo di Nietszche e la prosopopea di Heidegger, dei clericali e degli anticlericali, insomma le solite sciocchezze cui diamo la caccia da molti anni”…” Ammiratore senza riserve di una figura eccezionale come Ernesto Rossi, che dedicò pagine di fuoco anche a denunciare le responsabilità di Pio XII - di omissione, quanto meno - nei confronti delle persecuzioni naziste contro gli ebrei, stento ad accettare le bordate di Ferrara. Dell’anticlericalismo alla Rossi mi sento figlio, seppur inadeguato. Ad una rilettura più attenta, mi sembra però di poter dire che la sua figura non può rientrare in alcuna delle caselle sciorinate da Ferrara: Rossi non si sarebbe definito un intellettuale progressista, e certo non fu un filosofo con il baffo di Nietszche.

Riprendo in mano la lista dei responsabili delle “scemenze contemporanee” messe alla gogna dal caustico direttore, e mi vien fatto di scoprire che quei responsabili li detesto anche io, più o meno tutti.
Ma soprattutto, di colpo, mi viene in mente che il Sillabo parla un linguaggio che non sarebbe spiaciuto a Flaubert, il creatore - quanto meno - di monsieur Homais, immortale personaggio di “Madame Bovary”, e poi di Bouvard e Pecuchet (1881); meglio, di quel “Dizionario dei luoghi comuni” che fa da corollario al romanzo dei due copisti. Il papa antirisorgimentale e lo scrittore sperimentale hanno lo stesso bersaglio: la borghesia progressista del loro tempo, i suoi pregiudizi e il suo millantato credito, le sue superbie e le sue ipocrisie. La proposizione iniziale, condannata dal Sillabo - “La ragione, senza tener verun conto di Dio, è l'unica arbitra del vero e del falso, del bene e del male, è legge a se stessa, e con le naturali sue forze basta a procacciare il bene degli uomini e dei popoli” - sarebbe piaciuta allo scrittore che in Homais condensò il prototipo del filisteo progressista capace di ogni “bêtise” in nome di uno scientismo elevato a religione, o a idolatria. E la proposizione n. 6, “La fede di Cristo urta la ragione; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce altresì al perfezionamento dell'uomo”, sarebbe stata perfetta sulle labbra di un borghese del tempo, ma assieme ad uno dei paragrafetti accolti da Flaubert nel suo Dizionario: “Crocifisso. Fa bella figura nell’alcova e sulla ghigliottina”. Forse nessun’altra epoca fu acida verso se stessa, si giudicò e venne giudicata con pari astio quanto l’ottocento borghese, laico e progressista. Un giudizio così estremo e impietoso da vedere affiancati nel pronunciarlo - ciascuno a suo modo - il papa antirisorgimentale e lo scrittore sperimentale. E ora twittiamo.
*da “Il Foglio”

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