Angiolo
Bandinelli
GENTE
DI MEZZ’AGOSTO
STAMPA
ALTERNATIVA
Gennaio
1990
SOMMARIO
Gente di
mezz’agosto
Temporali
Acque impure
Ragazzo
I giorni delle
Falkland
Càpita, in città
Non tornerà
Strade
sconosciute
Una città senza
vizio
Gente di
mezz’agosto
In agosto, come a un
carnevale atteso e
volentieri evocato,
si sciolgono tutti i
vincoli. Si parte
senza un arrivederci: il
fratello, l’amico
scopre la solitudine nel
telefono del
fratello e dell’amico — squilla
lontano senza che
nessuno risponda. Si
lasciano dietro
spoglie odiate che si
vorrebbe non più
ritrovare, al ritorno.
Allora la città si
scopre crudele. Le vie e le
piazze inanimate, i
negozi chiusi sono
quinte e scenari a
una corruzione
sgomenta, a una
perfidia che non si cela
più. Gli alberi del
viale, fino alla curva in
fondo, sono immoti
(a Parigi, un tempo, i
marroni lucidi degli
ippocastani
rimbalzavano con un
tonfo sui tettucci
delle automobili in
sosta). Una fine polvere
bianca si è
deposta, in un brevissimo
attimo di immobilità
dell’aria, sulle foglie
del nespolo e le
muta in fragile pietra.
In fondo al cortile,
nel cono d’ombra
dell’angolo dove
non luccicano i panni al
sole, le ortensie
ancora espongono i globi
rinsecchiti dei loro
fiori, vegetali fuochi
d’artificio
esplosi in un fazzoletto di cielo e
restati inerti e
sospesi nell’aria. Ma i cortili
— anche questo —
sono deserti e
allontanandoti, a
ogni passo, nel silenzio, ti
perseguita l’attesa
dell’orrore: il vuoto è
gonfio di mostri.
Occhi di vecchi
percorrono queste strade.
Abbandonati in
città, i vecchi frequentano
ora le case. Il
resto dell’anno se ne stanno
chiusi in qualche
camera in ombra,
raramente li vedi e
pensi a loro, alla loro
stessa esistenza;
adesso invece, ad agosto,
escono pianamente,
danno una strana vita
alle finestre e alle
stanze. Si espongono
come timorosi, se
restassero al chiuso, di
essere in compagnia
del silenzio, che
odiano. Così forse
si inebriano di un
presente non
assaporato fino ad oggi, fatto
non di sorprese ma
di godute ripetizioni. I
loro gesti sono
vaghi, usuali.
Oppure occhieggiano
da dietro finestre
scure che aprono
cautamente, per spiare il
frammento di vita
dei cui passi risuona la
strada, quando si
allontanano e non si sa
perché: chi può
essere a passare di qui,
proprio oggi? Oppure
ancora fanno festa, e
siedono sul
terrazzino, al balcone, a
guardare fuori tra
gli oleandri e i glicini,
troppo folti ormai,
attorti alle sbarre di
ferro della
ringhiera. Sono un uomo e una
donna; qualche
volta, invece, due donne.
Siedono uno di
fronte all’altra, col gomito
appoggiato alla
balaustra, per pomeriggi
interi, fin quando
l’ombra e il fresco danno
loro un brivido che
li fa rientrare in case
che li accolgono
come estranei, perché
visibilmente non
sono più di loro: e infatti
li vedi muoversi con
difficoltà e diffidenza
tra il vuoto e il
pieno di mobili che hanno
altre misure e fanno
ingombro ai loro passi.
Qualche volta, ma di
rado, camminano per
i marciapiedi
deserti, sotto gli alberi,
nell’ombra degli
spigoli; si trascinano lungo
i muri, e vanno
verso mete che forse sono
lontanissime,
irraggiungibili, irreali. Sembra
che camminino da una
vita, straziante
metafora di sé
stessi.
Aspettano a lungo,
che una voce si esalti
nel vuoto, per
sollevare le palpebre
abbassate e captarne
le modulazioni, nella
muta cavità di
agosto. Le loro parole,
fragili foglie
secche, si strappano al vento
del silenzio.
Bisogna raccoglierle con
dolcezza, senza
parere; bisbigliano infatti,
apprensivi che
nessuno voglia ascoltarli.
Quando tacciono, la
sospensione toglie il
fiato.
Sono vestiti di
panni leggeri, logori, troppo
larghi, o di pesanti
lane che trattengono il
calore. Se sono un
uomo e una donna li
immagini presi in
lontane e incomprensibili
recriminazioni di
cui custodiscono l’inutile
segreto; se invece
sono due donne, ti
stupisce che possano
serbare ancora, nel
loro tempo così
scarnificato, l’abbondanza,
la superfluità
delle amicizie. Forse si
frequentano solo
perché si odiano, e si
spiano a vicenda. Le
donne sono inaridite,
da quando l’umida
fonte del desiderio si è
prosciugata; gli
uomini sono invece
sovrabbondanti di
liquidi, flaccidi e
inebetiti.
Qualcuna vive in uno
scantinato obliquo
insieme al gatto
grigio e a un figlio che il
deserto, l’aridità
dei sentimenti condannano
a restare anche lui,
solo, in città. Ha
lasciato la grazia
su un sagrato d’altri
tempi, quando in
paese sposò per venire a
vivere dove le vane
speranze di lui la
condannavano. Non si
è mai allontanata da
queste stanze
seminterrate, le sono restate,
sul comò,
fotografie di volti incavati. Fa
scorrere la
quotidianità della vita, contenta
di poterne
raccogliere ancora qualcosa: chi
viene a trovarla, e
scende i ripidi gradini
per portarle un
lavoretto da fare, per lei
personifica la
grazia di dio che non
abbandona chi lo
sollecita con le sue
giaculatorie.
Gli occhi dei vecchi
che d’agosto restano
nella città sono
straordinariamente avidi.
Le pupille perforano
la pelle, sono pungenti
denti di vampiro:
cercano forza e sangue,
rabbrividisci a
passare sotto le loro finestre
perché ne avverti,
sulla tua testa, il respiro
affannoso. La vista
è l’ultimo, tra i sensi
dei vecchi, in cui
resti una oscura forza
misteriosa. Non gli
sfugge nulla di quanto
accade, e forse
accade solamente nei loro
occhi sospettosi.
Senza alcuna
benevolenza e magari con
odio vedono passare
i mostri, anche
stasera. Sono loro,
tutti e quattro,
camminano affiancati
occupando l’intero
marciapiede, come se
non potessero
concepire altro
ordine per vivere assieme e
riconoscersi, per
non perdersi nel vuoto
opprimente che li
accompagna, segno
dell’orrore
rispecchiato negli occhi di chi,
quando passano, li
osserva senza parere. Il
più giovane dei
quattro spinge la carrozzina
dove siede,
raggomitolata, la vecchia, con
gli occhi sbarrati e
la mano sul bracciolo.
Tranne lei, che gli
anni hanno consumato,
sono tutti
enormemente grassi; il giovane,
la donna di mezza
età, l’uomo più anziano.
Si somigliano,
dovrebbero essere fratelli,
figli della vecchia,
della sua misteriosa
condanna a partorire
ebeti. Sono l’estrema
rappresentazione
dell’abisso. Guardano il
mondo, che non si
sazia di scrutarli tra le
dita poi
vergognandosene, con occhi da
rana o da bambino
infelice dietro lenti
tonde, spesse,
enormi, che dilatano la
pupilla e la
restituiscono cieca. La loro
grassezza è
deforme. La carne chiara
ballonzola e trema a
ogni passo, le gambe
fanno fatica a
sostenere il peso, le ciabatte
lise e sformate
strisciano sul marciapiede.
Escono dalla loro
casa, una vecchia
palazzina fuori
squadra, dimenticata dalla
speculazione che ha
abbattuto tutto
intorno, e vanno
lentamente, a fatica, verso
il bar restato
ancora aperto. Lì siedono alle
sedie di ferro, le
donne a gambe larghe nei
grembiali di cotone
a fiori. La vecchia
orina, e l’acqua
viene fuori dagli stracci,
senza che gli altri
se ne curino, di sotto la
carrozzina. Accanto,
si è accucciato il
cagnetto bastardo,
bianco e nero, legato ad
uno spago. Tengono
tutti e quattro le
bocche perpetuamente
aperte, con la
mascella pendente in
un selvaggio stupore;
non conoscono la
leggerezza del sorriso,
hanno lo sguardo
spento come quello del
loro cane randagio,
che adesso si morde
furiosamente le
pulci tra la pelliccia rasa.
Nella sera, che cala
con irriflesse tristezze,
popolano l’agosto
della città con la loro
presenza, e le danno
un nuovo emblema,
un oscuro turpe
senso, che non si riesce a
decifrare.
Temporali
Acque impure
Quest’anno il
temporale ha anticipato
ferragosto. Di
solito, le altre estati, il cielo
si illividiva
lentamente, nei ritardi di un
solleone appena
declinante: sul rosso
attonito si
libravano liquami sulfurei e ne
colava il putrido di
un’improvvisa
consunzione, mentre
in basso — dove la
terra si
rattrappisce su un profilo sfumato
di polvere, dove i
pioppi sembrano candele
incinerite e i
dossi, calvi per l’aratura,
sfrigolano
spaccandosi — i colori si
stemperavano in
tappeti lisi e morbidi. Le
taccole, uccelli
dell’avarizia e della perpetua
fame, si sollevavano
in lenti e lunghi voli
verso un invisibile
limite, più in là,
posandosi su un ramo
nudo o sulla prima
macchia delle
roverelle, tutta sfrangiata.
Queste piogge,
queste cadute immani di
acque, placavano
arsure che ci apparivano
altrimenti
immedicabili: la terra
riacquistava
plasticità, si prestava di nuovo
all’orma, al dito
che tracciava il rivolo fino
alla gora. Segnavano
un’ora di festa per i
ragazzi, che
dell’acqua fanno il loro primo
gioco, e per le
genti di paese, per le quali
così cominciava la
nuova stagione, la prima
delle stagioni di un
anno di probi e antichi
lavori. Al culmine
del solleone gli occhi già
si sollevavano a
scrutare, impazienti.
L’anticipazione di
quest’anno ha invece
precluso le attese.
Ma forse non saremmo
stati egualmente
preparati: non siamo più
legati, nelle
periferie cittadine, alle
memorie, reali o
fantastiche, infantili o
familiari, della
campagna. L’occhio non
aveva scorto il
mutamento nei grevi e
immoti azzurri che
si infiltrano tra i
palazzoni, nulla
aveva destato timori
sospettosi o
preveggenti. Nulla aveva messo
in allarme la donna
per i suoi panni stesi,
svettanti sulle
terrazze. Viveva la
estraneazione della
città come un
supplemento di
punizione, inflittole da
chissà quale potere
che non esaudiva i suoi
desideri né compiva
le sue stesse promesse.
Si sentiva perversa,
come chi si sente in
prigione. E, a un
tratto, un rombo
solamente e l’acqua
è venuta giù impura,
imperfetta, senza
sapori, sollevando per le
strade fanghiglie
immonde. Si vedeva gente
balbettare, sorpresa
a raccogliere sulle
labbra e dentro gli
occhi le gocce fuggenti.
Ci fu chi inciampò
scivolando e chi alzò le
braccia in un gesto
di rabbia, comica
perché nessuno
raccoglieva l’imprecazione,
sbeffeggiato da
ragazzi usciti con la fionda
a colpire persiane
accidiose e crepitanti: si
lasciò schizzare
dall’acqua grigiastra con un
senso di colpa, di
umiliazione, ipocrita
come un bambino e
rassegnato come un
vecchio.
Avrei potuto
ritirarmi dietro semplici echi.
Non ho potuto o
voluto: anzi, sono stato
tratto a uscire e ad
offrirmi al lucore che
gocciava dai cieli,
e di cui mi accorgevo
ora, quando rompeva
la sequenza delle
promesse e scacciava
gli inganni.
Ragazzo
In un giardino, ora,
un rosaio a cespuglio,
con un solo stelo e
una sola rosa, carnicina.
Gli altri sono stati
recisi, a diverse altezze.
La rosa è troppo
turgida e aperta.
Rosai, rose come
queste, in altre stagioni.
Un’infanzia piena
di tensioni, di brividi. Il
ragazzo placa le sue
amarezze, dimentica le
sue angosce in
pomeriggi estivi irrorati da
simili piogge. La
tensione si carica,
fisiologicamente, in
un nulla denso e
gonfio. Il ragazzo
si sente derelitto. La sua
solitudine si misura
in pochi metri d’un
cerchio labile, ma
sono metri che appaiono
chilometri, tra la
città e la gente. La
solitudine è uno
spessore raggiunto per
caso, o forse già
un’identità. La si fugge:
quando arriva, la
solitudine sgomenta. Per
anni non la si
conosce, forse non la si
riconosce.
E poi, venti anni,
forse trenta, di lavoro,
di varie fatiche,
per sottrarsi ad essa.
Scavare, come talpe,
percorsi lungo i quali
distrarre il
quotidiano, allontanare
l’aggressione
dell’essere ancora ragazzo,
quella sua
solitudine fatta di pena; che è
propria e sola del
ragazzo. Come allora, il
rosaio è umido; in
un pomeriggio come
quello, e come
questo, tutta la pena del
mondo, la pioggia
estiva premonitrice di
sconfitta, l’umidità
segno d’infelicità però
desiderata,
misteriosamente. La pioggia, e
la sua vertigine
labirintica.
Bisogna soffermarsi,
provare a capire il
momento: ci si
vergogna quasi, non si ha il
coraggio di farlo
più. Le vacanze! Sono per
il sole, gridano. E
non ci si ferma, anche se
lo si vorrebbe. Ma
poi, esattamente,
accorgersi di uno
straordinario errore. La
solitudine, vaga
felicità ricercata e goduta.
Quella
solitudine,
quasi una ebbrezza. E
persino la colpa di
questo
godimento, il
sottile brivido di
provarlo, di immergervisi
dentro come,
appunto, una colpa. Le colpe,
interstizi, fessure
dapprima invisibili e
insignificanti.
La pioggia d’estate,
uno stato innaturale.
Ipocrisia di una
educazione spoglia e
povera di sorprese;
e sorprese e sgomenti
rivelano la
complessità del mondo. Il
ragazzo impara a
liberarsi e si fa uomo
passando attraverso
paurosi silenzi e
solitudini. Deve
però temerli, e ne ha
paura perché
nessuno gli ha detto nulla,
nessuno lo ha
preavvertito né ammonito.
Nessuno gli rivolge
una parola di aiuto. La
paura sarà compagna
della sua liberazione,
per anni forse.
La lontananza che
torna, con la chiarezza
attesa a lungo,
persino ormai non più
aspettata. Dunque,
quella fu felicità, dono
di grazia! Gli altri
chiusi nelle loro parole,
il ragazzo, nel
giardino, che scopre il
silenzio. La
melanconia. La goccia che cade
a terra, un momento
lievemente ipnotico.
L’abbandono della
terra che assorbe
l’acqua, foglie
lavate, un senso di
sfacimento complice
della lontananza,
dell’allontanamento.
Lo favorisce, senza
violenza.
L’ozio, fecondo
dei turbamenti, delle
dedizioni assolute,
stagione di vacanze
giovanili e solo
giovanili, pause angustiate
nel pensiero del
futuro ancora lontano,
inerzia in cui muore
l’inattività e si
solidifica, fino al
privilegio.
* * *
Di notte il rombo
del temporale fa
sollevare la testa
dal cuscino, e tendere
l’orecchio del
dormiveglia. Si rompono
tensioni accumulate,
il ragazzo torna a
guardare il cielo
con curiosità, dopo averlo
dimenticato per
settimane e mesi
nell’insopportabile
monotonia dell’azzurro
polveroso.
Tra le case, nella
immaginata curvatura
dello spazio, il
buio è un golfo senza
sponde. Quando il
lampo dirama,
zigzagante
inseguirsi di strie che sembrano
irrompere, da odi
repressi, in furie
incalzanti o
rabbiose perversioni, la
perfetta cupola si
frammenta in spazi
discontinui e
irregolari. Il lampo dura un
attimo, ma il
ragazzo sgomento teme che
questo sia
l’istantaneo palesarsi di una
volontà intesa a
distruggere l’universo.
Subito dopo, un
altro lampo infuoca lo
zenit per
precipitarsi dirocciando in cascata
fino all’orizzonte,
dietro le ultime case
d’improvviso
rivelatesi come spettri,
immagini malamente
cancellate dalla
memoria. Al secondo
segue un terzo e poi
un altro ancora, e
il cielo si dilata in
lontananze
spettrali, eccitate dallo
scoppiettio
luminoso. Ma i temporali
notturni, solitari,
il ragazzo li ama: il suo
timore è perfino
piacevole, e forse
desiderato e
beneficamente atteso. Il cuore
batte veloce, la
solitudine è ricca e piena,
pronta al sorriso
incantato.
L’aria, gonfia di
umidità elettrica,
rinfresca. E infatti
arriva la pioggia, con
quella sua
misteriosa gaiezza che non si può
spiegare ma ogni
volta ti prende. Subito,
con lei, gli oggetti
tornano a vibrare e a
vivere. Nel buio
tuttavia le foglie rilucono
a una a una, al
sommesso bagliore del
vicino lampione, con
la loro superficie
fattasi tersa; i
sassi, frustati dal lampo,
esplodono in
momentanee, labili gemme,
topazi e oscuri
diamanti; il selciato riflette
spigoli, superfici e
accidenti, mentre le
pozze, a ogni goccia
che vi cade, spezzano
e smorzano i colori
tremolanti. In alto le
pareti delle case,
sulle cui distese superfici
la pozzolana è
ancora tiepida per il calore
diurno, si
ingrommano di fioriture, di
disegni vaghi, di
macchie sempre più cupe
e fitte saldate
infine in una velatura sulla
quale dai
cornicioni, dalle grondaie, dai
tetti spiovono gocce
spesse e cupe. I lunghi
tubi di zinco
vibrano accaniti.
Una falena traccia
mostruosi ghirigori
d’ombra
sull’asfalto, un gatto attraversa
saltellando la
strada. Il temporale è ora
precipitato, è una
compagine densa di
acque, che vengono
giù monotone. Il loro
allineamento è
regolato da leggi che al
ragazzo appaiono
mirabili: vorrebbe
scostarne il
sipario, tornare a inseguire i
raggi policromi dei
lampi; ma i tuoni
lentamente si
allontanano verso un
orizzonte fitto di
barbagli arrossati.
L’acqua è
dovunque, una ricca coltre sotto
la quale le cose più
minute, apparse così
magicamente nella
notte, si dilatano e
proliferano infinite
altre presenze.
All’occhio che le
ha indovinate e
finalmente anche
scorte, esse ricominciano
a vivere d’una
trama di vita che la troppo
asciutta estate
aveva interrotto, strappato,
messo in forse.
I giorni delle
Falkland
Temporale d’estate:
porta la stagione molto
più che non torride
giornate di asfalto
liquefatto. I
giornali, la radio e la
televisione
martellano sulla guerra delle
Falkland — no! Las
Malvinas son
argentinas…
— annunciano da Buenos Aires
che l’attacco
finale a Puerto Argentino è
cominciato questa
sera (questa mattina,
questo pomeriggio, o
già domattina?).
Silenzio, invece, da
Londra.
Stamani, per il
cielo, nuvoloni grossi ma
leggeri e chiari. Si
sono dapprima infiltrati
come cunei isolati e
inoffensivi
nell’orizzonte,
per poi saldarsi e avvolgere
il cielo della loro
afa. Ma ancora verso le
dieci, difficile
pronosticare tempesta.
L’azzurro,
digradando senza stacchi e
perturbamenti, si
mescola nel grigio perla
delle nuvole; e il
caldo che dà impazienza
avrebbe voluto
essere null’altro che l’afa di
una giornata romana,
votata ai suoi antichi
scirocchi e alle
mitologie delle sue voglie.
Chi non le conosce,
chi non le canta?
Verso mezzogiorno, o
forse l’una, sul ponte
di ferro che
chiamano “il ponte del
somaro” (un
relitto di archeologia
industriale dalla
parte dove l’orizzonte è
ancora aperto, dove
la campagna è teatrale
quinta, ritaglio o
inattesa dimenticanza) si
sollevano
d’improvviso buffi di polvere rosa
e grigia opalescente
che, come per una
estranea
disperazione, precipitano nel fiume
terroso. Questa sì,
è premonizione di
temporale, annuncio
certo di
rimescolamenti
d’aria e di vampe, di
ribollimenti e di
placamenti, di schiume e
di liquidi tremolii,
di piogge infine. I
giornali
sottobraccio recano le loro notizie.
Buttati via dopo
pranzo, lasciati per terra a
frusciare sotto le
zampe della gatta, a
crocchiare. Poi,
abbandonato sul letto del
figlio uscito, un
sonno lungo dove nessuno
venga a cercare
tracce di coscienza.
Alle tre, il gran
battere della porta-finestra
lasciata aperta
risveglia nella paura. I panni
stesi sono già
stati ritirati per timore della
pioggia; l’orizzonte
si è fatto cupo, il grigio
sale di tonalità,
da un color piombo a uno
splendente e
stridulo bianco-latte affocato
di presagi
elettrici.
Chiuso in un posto
di lavoro, chi può
vedere se fuori
piove? L’atmosfera non
sembra mutare, si
può ancora sperare che
la pioggia non
arrivi. Nel cortile già in
ombra, in vasi
enormi, straordinarie foglie
oblunghe cresciute
in una dismisura che è
misura dell’oblio
che le circonda, rivestite
di peluria.
D’estate la
pioggia, l’acqua, è soprattutto la
minaccia dell’acqua.
Un giovane arriva, per
lavorare, in
bicicletta: un modello
antiquato, nero con
filature giallo oro e,
legato alla canna,
un ombrello di stoffa
grossa ed elegante,
il manico pesante di
ciliegio setoso,
lievemente violaceo. Ma
verso le cinque
sull’asfalto cadono le prime
gocce. Sono gocce
monumentali, immense,
polverose più della
polvere su cui cadono
con la forza di
pietre, o di monete d’un
inatteso miracolo
celeste. Sfrigolano e si
spengono lasciando
una traccia inerte. Sono
così rade che ce ne
vuole prima che l’una
copra la traccia
lasciata dall’altra. Non c’è
bisogno di evitarle
perché,
straordinariamente,
non bagnano. Si può
impunemente
camminare almeno fino alla
terza o quarta
fermata d’autobus, prima di
organizzarsi
mentalmente e cercare di
ripararsi. Passa uno
con un cartoccio di
olive, il cartoccio
è umido. Un altro
ragazzo esce dalla
gelateria appena
inaugurata con in
mano un enorme cono
pieno di pistacchio
verde, che già scola da
una parte. Al
negozio di scarpe, in vetrina,
un paio di mocassini
neri.
L’autobus
finalmente, all’ultima fermata
prima che la strada
cominci a salire,
un’erta a forma di
serpente, sinuosa. Le
gocce sono rade,
adesso, lasciano sulla pelle
un’impressione di
freddo. L’autobus si
arrampica, svolta
sui tornanti, prende
d’abbrivo l’ultima
grande curva davanti
alla Villa, ancora
aperta, passa sotto le
arcate e gira infine
a sinistra. Una fermata
buona, ma per
distrazione si può perderla.
Allora l’autobus
si getta giù per una ripida
scesa, deviazione
inesplorata, solamente in
fondo alla quale c’è
un’altra fermata:
bisogna ora tornare
indietro a piedi,
risalendo la strada:
vie dritte, semideserte,
un cinema vuoto e
abbandonato,
pasticcerie, una
libreria, negozi di mode,
tutto logorato dalla
stagione. Poi, le
palazzine cedono il
posto a villette con
intorno brevi
giardini. Una enorme
bougainvillea si
arrampica sulla facciata, la
stringe del suo
violetto.
D’un tratto, la
pioggia arriva. È un
rovescio immediato,
inaspettato. L’acqua
schizza sul selciato
e lo fa subito scivoloso.
Nel correre, gli
occhiali cadono dal
taschino e la guaina
di pelle è infradiciata,
molle. Bisogna
girare l’ultimo angolo, con
negozi. Le vetrine
sono al riparo sotto
impalcature di
fresche assi, dietro fitte reti
verdi. Qualcuno
lavora. Si cammina sotto,
scontrandosi nei
passanti che ti vengono
incontro dall’altro
senso.
L’asfalto è ormai
definitivamente
impregnato, l’aria
è tutto un odore di
fango. Gli alberi,
lungo i marciapiedi che
incrociano con la
via principale, hanno la
pagina superiore
delle foglie lucida… Sono
foglie nuove, ben
disegnate, non ancora
ispessite nel
culmine della crescita. Sotto
gli alberi, dove non
è arrivata l’acqua con
la sua forza,
chiazze d’asfalto più chiare.
Figure oblunghe si
riflettono a testa in giù,
sulle luminose
superfici. Le finestre delle
case sono chiuse,
frastornate. Gente si
infila nei portoni
allegramente fradicia,
vengono scambiate
parole di meraviglia. Si
va avanti,
strisciando contro i muri,
lasciando alle
spalle queste testimonianze di
menzogne. Nulla c’è,
davvero, che si possa
odiare.
I pomeriggi
d’estate, del temporale estivo,
la gente al lavoro
pare straordinariamente
assente, incapace di
cogliere le minute
trasformazioni
dell’aria, così dense di
minacce, di pericolo
vero. Ancora
solitudine di questa
forzata differenza,
sporcata e avvilita.
I libri ammassati in un
angolo, sfogliati e
derelitti, incombenti con
le loro urgenze. E
l’intero pomeriggio si
svolge lungo
percorsi di odori, più ricchi e
vari man mano che
cambia il peso e la
forza stessa del
sole. Le ombre acide. E
infine, al primo
buio, il lungo serpeggiare,
all’orizzonte, del
lampo fulvo. La notte è
tutta ferita,
concede allo strazio.
Dalla finestra
semiaperta, sotto l’ala della
persiana sollevata,
scrutare il cielo, dove si
rivela quando il
lampo lo apre e lo
sconvolge. Colori
densi, di rubino e di
ametista, pallori di
rosa improvvisi nel buio
color vino.
Temporale d’estate,
che rivela l’estate più
di giorni di afa e
di calori. Tornare a casa
leggeri, dopo una
scoperta che ha
ricomposto il
passato in continuità col
presente, e fa del
tempo più sontuosa
spoglia. Una storia
che finalmente può
raccontarsi intera,
saziarsi di sé stessa.
Tornare a casa,
vedere finalmente che l’aria
s’è rinfrescata,
il cielo si è liberato, si è
fatto lucente,
pronto a ricominciare,
sempre, ancora, con
le sue promesse. Un
temporale d’estate.
Càpita, in città
Non tornerà
Esce sul terrazzino,
dà un’occhiata alle
piante. Le foglie
sono ingobbite e pendono,
la terra nei vasi è
arida. Da quanti giorni
non li innaffia?
Bisogna rimediare, oggi
potrebbe finalmente
dedicare qualche
minuto
all’incombenza: l’afa impedisce di
lavorare, si è
aggirato attorno al tavolo, ai
fogli sparsi, senza
nemmeno riuscire a
sedersi alla sedia.
Si gratta sul
braccio vicino al polso, sulla
spalla, dove una
mosca, o una zanzara, lo
ha punto e la pelle
è arrossata: gira per
casa in pantaloncini
colorati e in sandali (di
plastica), a petto
nudo. Lascia scorrere
acqua dentro una
brocca di terracotta
bianca e azzurra, un
vaso da fiori mai
usato. È il primo
recipiente che ha trovato.
Resta, sorpreso, a
guardare l’acqua che
salendo porta a
galla e fa turbinare,
schiumando, cicche e
altro seccume
indistinguibile. Da
quanto tempo non viene
usato, questo vaso!
La cucina è in
disordine, la gatta si
distende sulla sedia
di paglia che la peluria
grigia e bianca ha
coperto d’un morbido
velluto. Dentro il
lavabo, piatti e pentole,
migliaia di piatti e
pentole sporchi, e
cucchiai e forchette
sporche, e bicchieri
sporchi. Non ha
fatto i piatti da quando lei
è partita. Non
si pente.
L’acqua tracima dal
vaso, si ingorga
nello scarico del lavandino
vorticando. Tornerà
mai?
La gozzoviglia del
sole arde le cose, le
liquefà e le
dissolve definitivamente: lo ha
colto impreparato. I
giorni si sono
consumati. Forse,
domani tutto cambierà.
Stanotte è restato
sveglio fino all’alba,
accarezzato da un
venticello venuto su a
refoli dal cuore
della notte pallida, percorsa
da aloni luminosi
all’orizzonte, verso
occidente. Poi,
l’alba ha sibilato nella gola
di un merlo, dentro
gli ovattati giardini
delle case attorno,
semideserte anche
quelle. Allora è
riuscito a fare qualche
progetto. Deve
scuotersi, vincere l’inerzia.
Non tornerà
forse più.
Nelle ore del
mattino, danzanti dietro le
cose che rinascono,
ha anche cercato di
realizzarli, i suoi
progetti. Ha aperto i
cassetti del comò,
ha spalancato le ante
dell’armadio, ha
tirato fuori diligentemente,
con grande cura, le
cose di lei: vestiti,
biancheria,
cianfrusaglie. Quello che ha
lasciato, da cui
però non si riesce a capire
se seguendo un piano
architettato o a caso,
se con il proposito
di tornare o no. È una
fuga, o un’assenza
calcolata, momentanea,
temporanea?
Quest’abito nero. Ci ha
sempre tenuto,
perché non lo ha preso con
sé? E perché
invece ha ripulito
minutamente i
cassetti, portando via le
scatolette piatte e
colorate, i fazzolettini, le
creme, persino
ninnoli fastidiosi dei quali
ha sempre detto che
non sapeva cosa
farsene? E perché,
allora, ha lasciato ben
visibile l’orologio
d’argento, da taschino,
che è appartenuto
al padre e che lei ha
sempre curato,
caricandolo ogni sera, come
il padre aveva
sempre fatto.
Ha cominciato a
raccogliere questi
frammenti, in
piccoli mucchi e pacchetti in
fila sul letto,
facendo balzare via la gatta
che vi si era
acciambellata, ha tirato fuori
una valigia, ha
aperto anche questa sul
letto, per
accatastarvi gli oggetti.
Ma intanto si è
fatto tardi, il sole ha preso
ad avvampare, fuori,
una musica lontana è
penetrata dalla
finestra aperta, e
d’improvviso si è
sentito svuotare dentro, e
ha lasciato perdere.
I mucchietti di
biancheria sono
ancora sparsi sul lenzuolo
sgualcito, la gatta
è riuscita a dormire
indisturbata lì
sopra per il resto della
giornata.
Adesso, tira su il
vaso ricolmo dall’acquaio,
si dirige verso il
terrazzino, lasciando che
l’acqua goccioli
sul pavimento, schizzi sulle
ossa di pollo
spolpate dalla gatta in un
angolo dove la
bacinella di plastica gialla,
piena di segatura,
puzza per l’orina e le
cacche rinsecchite
che vi sono state deposte
per giorni. Prima le
puliva sempre, invece.
Chiude la porta
della cucina alle sue spalle,
fa un inchino
cerimonioso, al fantasma che
lo ossessiona. Ora,
però, non può più
imporgli il suo
ordine. Potrebbe chiudere a
chiave la cucina, e
non aprirla mai più, con
tutti gli avanzi, i
piatti sporchi che
contiene, non
succederebbe nulla, per
cucinare potrebbe
benissimo arrangiarsi con
una macchinetta a
spirito, sistemata in
camera da letto, o
nel bagno.
In terrazza,
centellina l’acqua tra i vasi, le
piante, per non
dover fare un secondo
viaggio. L’acqua
comincia tuttavia a filtrare
di sotto i vasi. Con
un piede scalzo prova a
fermarla mentre
scorre per poi cadere sulla
terrazza di sotto.
Si sporge per vedere se lì
c’è qualcuno, o
se sono anche loro partiti.
Non tornerà.
Certo, ha provato un piacere
acre nel mettere
disordine in casa. L’ha
violentata così,
con questa violenza sulle
piccole cose. Anche
prima. C’erano giorni
quando prima lui poi
lei spostavano un
ninnolo —
insignificante — nell’ossessione
di rimetterlo al suo
posto, il posto violato
dall’altro. Un
ciondolino di plastica, la
bottiglia, il
centrino ricamato, la scodelletta
di paglia — e
l’altro a sua volta, due ore
dopo, ripeteva
l’operazione all’inverso,
sistemando in un
altro posto lo stesso
oggettino
insignificante. Si sono inseguiti,
tra i sarcasmi —
oh, si conoscevano bene
— di stanza in
stanza, per tutta casa.
Adesso il ninnolo,
il ciondolino di plastica,
la bottiglia, il
centrino, la vaschetta di
paglia, è immoto,
coperto di polvere, privo
di vita, ebete. Lui
non ricorderebbe
nemmeno se occupa il
posto che lui per
ultimo ha voluto
dargli o quello su cui si è
riversata
l’ostinazione di lei. Non
tornerà.
Strade
sconosciute.
Il cane aprì gli
occhi: erano pigri occhi del
cane quando
invecchia. Anelava, steso nella
polvere dentro un
baffo di sole. Il
cavalcavia
attraversava su due campate
veloci il fascio dei
binari. Ai due estremi,
le scarpate
digradavano in riquadri regolari,
fazzoletti di terra
dove anonimi coltivavano
insalate: la sera,
quando la gente usciva
dagli uffici, acque
defluivano nei canaletti
ben rincalzati,
nessuno avrebbe saputo dire
da chi. Sul
cavalcavia si muoveva sempre
gente frettolosa,
nelle due direzioni.
Il cane si grattò
dove una mosca si era
posata. Richiuse gli
occhi, probabilmente si
addormentò. Sul
cavalcavia ora c’era anche
un uomo che
camminando guardava di
sotto, verso le
scarpate e la ferrovia.
Indossava una
giacchetta con le maniche
tirate su al gomito,
la cravatta slacciata e il
nodo in mezzo al
petto. Un vecchio, poco
prima, lo aveva
invidiato perché gli
appariva
spensierato, e lui era rimasto
male, sotto quello
sguardo avvolto di
rughe. In realtà,
non sapeva cosa fare.
Gettava occhiate
leggere qua e là, non
aveva preferenze, si
curvò fuori dalla
spalletta, sotto di
lui sbucavano i binari e
si proiettavano
avanti. Il cavalcavia era
lungo, e ne aveva
percorso solo pochi passi.
Non valeva la pena
scervellarsi per sapere
dove portasse, era
la prima volta che lo
vedeva e lo
attraversava. Faceva caldo
ancora, anche se
l’estate era alla fine, e
nessuna delle
persone che si affrettavano in
su e in giù lungo
il cavalcavia pensava
pensieri che
valessero la pena, tutto
sembrava inutile e,
in fondo, disperato.
Forse per questo
andavano tutti a un passo
più veloce del suo.
Nell’incontrarsi si
ignoravano, e se si
urtavano nel gomito
passavano oltre in
uno sgarbato silenzio.
Aveva camminato
tutto il giorno, non
aveva trovato una
ragione per fermarsi:
questo faceva la
solitudine di cui era
consapevole, uno dei
tanti che
attraversavano il
nastro di cemento gettato
sui fasci dei
binari. Le gambe lo avevano
portato
meccanicamente, e a un certo
punto aveva visto il
cavalcavia, che
sembrava
lunghissimo. Per un istante lo
prese il dubbio se
attraversarlo, fare dietro
front o piegare a
destra (o a sinistra) nel
vialone percorso dai
tram e fiancheggiato
da alberi senza
ombra. Le automobili
venivano via veloci
ma, sembrava, senza
necessità, solo
perché la strada era larga e
liscia. Là oltre
c’era una parte della città
che non conosceva.
Ma che c’è di
sconosciuto, in una
città dove sei vissuto
da sempre?
Doveva andare
avanti, e attraversarlo
tutto, questo
cavalcavia. Anzi, chissà cosa
sarebbe successo se
si fosse messo a
correre. Non sono un
bambino però, si
disse. Cominciò a
contare i pilastrini che
scandivano il
parapetto. Se non ho
superato la metà,
pensò, torno indietro. Lo
promise, come se la
decisione dovesse
dargli una
soddisfazione, finalmente.
Perse il conto. Si
fermò e si voltò a
contare quelli che
aveva già passato, ma si
imbrogliò ancora
come quando, da
bambino, le cifre
gli si confondevano sul
quaderno. Allora fu
preso dalla paura. La
gente gli passava
accanto in fretta, senza
guardare. Qualcuno
gli poteva venire
addosso, tra quella
che saliva nella
direzione opposta
alla sua, e magari
buttarlo a terra.
«Ce la farò?», si chiese.
L’altro capo del
cavalcavia era
lontanissimo.
Ebbe paura di
cadere, si immaginò per
terra, bocconi, con
la faccia contro il
pavimento. La folla
lo avrebbe calpestato.
C’era chi moriva
così disteso per terra, la
testa fasciata in
una sporca pezza di lana,
aveva letto su un
giornale.
Allungò la mano per
non cadere. Si afferrò
a qualcosa. Era un
braccio di donna.
Quella strattonò,
si scostò gridando: «Ma
che fai?». L’uomo
rimase impietrito. La
donna si allontanò;
quando fu qualche
passo più avanti si
girò, lo scrutò un
istante borbottando
«Che maniere», poi
scomparve tra altri
volti e schiene. L’uomo
riprese a camminare.
Il momento di panico
era passato. Si
sentì rinfrancato, tirò oltre
il gomito le maniche
della giacca, perché si
sentiva accaldato.
E, davanti a sé, a pochi
passi, vide la
donna, ferma. Sembrava
stesse aspettando:
lui, forse? Quando le fu
vicino, lei gli si
rivolse. Disse: «Come va,
ora? Stai meglio?».
«Abbastanza,
grazie», rispose, «scusami di
prima». «Oh, di
nulla», fece lei con
naturalezza. Aveva
il volto largo, i capelli
fitti e neri dei
meridionali. «Ma che brutta
faccia, davvero. Ti
senti male?», continuò.
Lui balbettò ancora
qualcosa: «No, sto
bene, adesso».
Voleva convincere
innanzitutto sé
stesso. Lei non riprendeva a
camminare, gli
restava vicino.
Il cavalcavia
sboccava su una strada in
discesa
fiancheggiata da grossi palazzi
popolari, pieni di
finestre e di balconate.
Al piano terra si
aprivano colorati negozi,
un grande bar, una
agenzia bancaria, un
rappresentante di
automobili vistose. Le
vetrine luccicavano
nel sole basso e non
lasciavano vedere
niente, dentro. L’uomo
annotò, a voce
alta: «Non ci sono mai
venuto, qui».
«No?» fece la
ragazza, «E dove vivi? È
bellissimo, ci abito
da tanti anni. I negozi
sono di lusso, con
tutte le comodità».
«Dico per dire,
così», aggiunse. Forse
voleva salutarlo,
mandarlo via, ma esitò.
Chissà, aspettava
che facesse lui la prima
mossa.
Una città senza
vizio
Di rado scorgi,
alzando gli occhi, lo
squarcio dell’ultima
speranza. Vi sono
occasioni quando,
dietro taciti accordi e
grazie a semplici
artifici, uno vorrebbe per
qualche istante
crearsi — e regalarsi —
l’abisso, il luogo
dove il vizio imponga
come accettabile
virtù la sua lucidità, la
salvezza di un
civile abbandonarsi, dal
quale presagire,
sorridendo, un qualcosa
della purezza
celeste. Sono occasioni e
posti notturni,
ovviamente. Dovresti poterli
raggiungere con
leggerezza; rintanartici
tranquillo davanti a
un bicchiere gradevole,
per lasciarti
andare, con dolcezza,
all’incanto di una
gozzoviglia, e del nulla.
A patto di crederci.
I filosofi vi hanno
eretto sopra
macigni; non ve ne era
bisogno, tale è una
condizione che si
raggiunge e si
attraversa assolutamente
permeabile, sotto la
propria esclusiva
responsabilità,
povera di nomi vincolanti.
Ora, nella città
dove vivo, le notti sono
solamente abiette.
Non offre risorse
definitive, su cui
tu possa contare: tutto vi
appare posticcio. A
volte vi scopri l’aspetto
della miseria, che è
un passaporto di tutto
rispetto per il
viaggio al quale vorresti
abbandonarti, la
preziosa miseria. Bisogna
capirla e amarla, la
miseria, quando si
presenta nella sua
nudità, perché è una
compagna
impareggiabile, di dialoghi e
confessioni. Ma essa
non è, in questa città,
rispettata. In
queste sordide notti, non è
raccolta e citata,
dai passanti, nelle loro
conversazioni. Si
affrettano via, a occhi
bassi. Sono così
radicati, così abbarbicati al
loro suolo, che
stupiscono che uno possa
cadere. Non ci
credono (non vogliono
crederci), per
salvarsene mescolano — loro!
— al dolore
l’ipotesi di una colpa, e
trovano la cosa
insopportabile.
In poche strade
(sempre le stesse, come se
il vizio non fosse
mobile, per sua natura) le
luci sfavillano; ma
quando ti avvicini (e
l’avvicinarsi è
già il cedere a una
tentazione) hai
davanti il più bieco degli
spettacoli: famiglie
intere, ma anche coppie
stranamente
imbarazzate o piccoli gruppi di
giovani, occupano lo
spazio offerto alle
risorse dell’attesa,
intenti a uno sperpero
che nulla
spiegherebbe se non lo spettro di
una fame ancestrale.
Sono insieme turpi e
parchi, gaudenti e
sparagnini, violenti e
pavidi. I tavoli ai
quali siedono, e anche le
sedie e i bicchieri,
i piatti e le posate, le
stoviglie, tutto
soffre di uscire da cucine e
retrobar dove
piccoli sguatteri infilano uno
dietro l’altro
colori e sapori incongrui,
ignari di golosità
e di delicatezze (la
golosità è già un
pericolo, un vizio contro il
quale il tempo di
oggi si accanisce in
particolar modo, e
con crudeltà). Perché
questi camerieri
devono essere sempre
guitti? Fila dietro
fila, i tavoli distendono
le loro amicizie
consumate, non promettono
nulla di buono
all’estraneo che voglia
irrompervi da vero,
assoluto e libero
gaudente.
Dove il buio delle
strade e dei vicoli si
addensa,
motociclette parcheggiano fino al
mattino. Un
bicchiere di carta pencola
sull’orlo del
marciapiede. Il tepore monta
in alto, appanna i
vetri di finestre dietro i
quali dorme già
qualcuno. Una folata si
immerge invece
nell’acqua del fiume. Tu ti
arresti a
specchiartici, per far rinvenire i
tuoi sensi, e
prepararli. Nulla come lo
scorrere, il
semplice scorrere, fa bene. Ma
prepararli, a che
cosa? Più in là, appena a
qualche metro, una
donna corpulenta ha da
raccontare — lei,
mentre tu, stupefatto, sei
così silenzioso —
e animatamente gesticola.
Puoi anche,
camminando così a caso,
raggiungere luoghi
adatti a trionfi
immaginari, e
immaginati, posti nei quali
una lunga ansia può
trasformarsi persino in
un passatempo
gradevole. Guai a
lasciarsene
intrappolare, però: subiresti lo
smarrimento di
ritrovarti inaspettatamente
sulla via di un
ritorno inutile, e soprattutto
ingiustificato,
visto che in realtà non hai
ancora conosciuto
partenze. In questa città,
la fuga nella notte
e lo stesso vizio non
lasciano tracce, non
sono cose capitali.
Solo i violenti ne
hanno, stranamente,
paura. Essi
condannano. Vorrebbero
punire. Carte di un
grande mazzo, fatto di
migliaia e migliaia
di figure, si mescolano e
per quanto si
intreccino non si incontrano
mai in una sequenza
conclusiva. Perché il
vizioso non dovrebbe
mai essere egoista.
Egli è labile,
percorre tutte le strade
attorno al peccato,
ma non si ferma mai a
lungo in una sola
stazione. Osserva in
tranquillità quanti
si agitano nei pressi, e
vorrebbe offrire
loro un po’ delle sue
risorse. Anche lui è
amaro e può odiare,
ovviamente; ma non
gli è necessario, come
invece accade,
sempre, a coloro che gridano
contro il vizio. Il
vizioso accetta gli altri, i
quali pretendono di
annullare la sua
presenza, il suo
respiro vitale, persino. Per
questi il vizio è
un nulla, e deve essere
cancellato dalle
strade. Purtroppo, non lo
conoscono, non ne
hanno la minima idea; e
questo rende tanto
plateali quanto risibili le
loro rumorose
proteste.
Pensieri così sono
lontani dalla mia città.
Essa è torpidamente
rilassata, non ha veri
vizi, non ne soffre
e nemmeno ne prova la
sorda invidia che è
in qualche modo la
porta da cui può
entrare un minimo di
grandezza. Si deve
essere indulgenti, con
lei, perché, come
asseriscono, è una città
antica? E invece è
una città giovane,
troppo giovane. Non
ha sedimenti e non
può avere orrori.
Consuma, non distrugge;
perché questo
crimine si compia, occorre vi
sia predisposizione,
la quale non si concilia
con la fatuità
inespressiva. Occorre che il
luogo abbia una
memoria segreta e forte,
un ricordo di sé, e
questo è invece il vero
assente. Dunque,
pietà per le sue miserabili
malefatte. Chi ha
tentato di conquistarla,
ha voluto sempre
essere sguaiato, e questo
ci accora. Egli ha
approfittato della sua
incapacità a
nutrire vizi: non direi
innocenza.
Da qualche tempo, ho
pensato di
abbandonare le sue
strade ormai sepolcrali
e cadenti, troppo
mal illuminate, per
avviarmi verso le
periferie più oscure.
Forse lì,
ascoltando il respiro di quanti
sono costretti a
rifugiarsi per paura nelle
case, spiandone le
reazioni, i tic, le umili
disperazioni, potrò
incontrare la grandezza
del vizio, che è
tanto più grande quanto
più si ignora, e
riesce a sopravvivere senza
scoprirsi in specchi
quotidiani, nelle strida
della
disperazione.
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