PERCHE' NICOLINI NON FU
RADICALE
Ho cercato di onorare la memoria di
Renato Nicolini ricordando eventi nei quali, nella mia veste di
consigliere comunale romano (1979-1981), ebbi modo di confrontarmi
positivamente con l'allora Assessore alla cultura e le sue
iniziative. Su Nicolini occorrerebbe (e occorrerà) sviluppare un
discorso complessivo, che consenta di superare o almeno
ridimensionare certe odierne celebrazioni e rievocazioni che hanno
visto protagonisti persone ieri - quando Nicolini era vivo ed
operante - forse anche sue avversarie, e comunque da lui distanti sul
piano culturale e politico. Perché Nicolini fu, anche nei momenti
più alti della sua carriera, un solitario, sia sul piano politico
che umano: bastava guardare in quei suoi occhi sempre inquieti e
insicuri o afferrare il senso di certe sue stravaganze per capire
quanto gli fosse necessario lottare contro timidezza e insicurezze,
per poter procedere lungo i percorsi che amava (ma forse la sua
solitudine era dovuta anche al suo essere un po' strafottente – e
reciprocamente). Se si dovesse aprire un più ampio discorso su di
lui e il suo operato, sarei pronto a prendervi parte.
Vi porterei però anche alcuni motivi
di dissenso e di critica, profondi e duraturi nel tempo. Perché, vi
chiederei, Nicolini non fu un radicale, come in qualche modo ho
auspicato ricordandolo a Radio radicale? Le sue iniziative avevano
molte delle caratteristiche delle iniziative di noi pannelliani del
tempo: approccio disinvolto alla modernità, laicità di contenuti e
semplicità di rapporto con la
cultura più alta e sofisticata,
apertura di credito alla gente comune, empatia per il discorso
narrativo piuttosto che per le teorie astratte... Tutto bene, ma
concordanze e vicinanze non poterono sopprimere la profonda distanza
che ci separava e ci separò da lui: Nicolini - a suo modo, e con
una forte iniezione di individualismo, originalità e sregolatezza
alla Rimbaud - era tuttavia integrato in quel coté
intellettuale che, anche da posizioni di fronda, non poteva e non
volle mai distinguersi dal PCI del tempo e dalla sua politica. Poteva
criticarlo, ma senza porsi il problema della creazione di un soggetto
politico (e culturale) autonomo, diverso, antagonista, realmente
alternativo. I frondisti hanno sempre bisogno di restare attaccati a
colui, al sistema, che essi criticano. La fronda fu una parte
notevole del fascismo: i frondisti, i Longanesi, Maccari, Malaparte,
Bottai - il più grande di tutti - rimanevano alla fin fine dei
fascisti. Ernesto Rossi, non fascista e non frondista, faceva
l'opposizione al fascismo dall'interno del carcere.
Così Nicolini restava sempre un
comunista, iscritto e fedele al PCI. Se e quando dovette distinguersi
dalla linea del partito, lo fece virando verso le componenti
pseudorivoluzionarie, “extraparlamentari” di sinistra neo- o
post-marxista. Le sue iniziative culturali erano in continuità con
la cultura del “Gruppo '63” e di “Alfabeta” piuttosto che di
Sciascia; forse erano in continuità addirittura con “Primato”,
la rivista degli intellettuali fascisti bottaiani. Nicolini si
iscrisse al Partito Radicale, ma non ne capì la sostanza di soggetto
realmente alternativo al regime.
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