martedì 7 agosto 2012



PERCHE' NICOLINI NON FU RADICALE

Ho cercato di onorare la memoria di Renato Nicolini ricordando eventi nei quali, nella mia veste di consigliere comunale romano (1979-1981), ebbi modo di confrontarmi positivamente con l'allora Assessore alla cultura e le sue iniziative. Su Nicolini occorrerebbe (e occorrerà) sviluppare un discorso complessivo, che consenta di superare o almeno ridimensionare certe odierne celebrazioni e rievocazioni che hanno visto protagonisti persone ieri - quando Nicolini era vivo ed operante - forse anche sue avversarie, e comunque da lui distanti sul piano culturale e politico. Perché Nicolini fu, anche nei momenti più alti della sua carriera, un solitario, sia sul piano politico che umano: bastava guardare in quei suoi occhi sempre inquieti e insicuri o afferrare il senso di certe sue stravaganze per capire quanto gli fosse necessario lottare contro timidezza e insicurezze, per poter procedere lungo i percorsi che amava (ma forse la sua solitudine era dovuta anche al suo essere un po' strafottente – e reciprocamente). Se si dovesse aprire un più ampio discorso su di lui e il suo operato, sarei pronto a prendervi parte.

Vi porterei però anche alcuni motivi di dissenso e di critica, profondi e duraturi nel tempo. Perché, vi chiederei, Nicolini non fu un radicale, come in qualche modo ho auspicato ricordandolo a Radio radicale? Le sue iniziative avevano molte delle caratteristiche delle iniziative di noi pannelliani del tempo: approccio disinvolto alla modernità, laicità di contenuti e semplicità di rapporto con la
cultura più alta e sofisticata, apertura di credito alla gente comune, empatia per il discorso narrativo piuttosto che per le teorie astratte... Tutto bene, ma concordanze e vicinanze non poterono sopprimere la profonda distanza che ci separava e ci separò da lui: Nicolini - a suo modo, e con una forte iniezione di individualismo, originalità e sregolatezza alla Rimbaud - era tuttavia integrato in quel coté intellettuale che, anche da posizioni di fronda, non poteva e non volle mai distinguersi dal PCI del tempo e dalla sua politica. Poteva criticarlo, ma senza porsi il problema della creazione di un soggetto politico (e culturale) autonomo, diverso, antagonista, realmente alternativo. I frondisti hanno sempre bisogno di restare attaccati a colui, al sistema, che essi criticano. La fronda fu una parte notevole del fascismo: i frondisti, i Longanesi, Maccari, Malaparte, Bottai - il più grande di tutti - rimanevano alla fin fine dei fascisti. Ernesto Rossi, non fascista e non frondista, faceva l'opposizione al fascismo dall'interno del carcere.

Così Nicolini restava sempre un comunista, iscritto e fedele al PCI. Se e quando dovette distinguersi dalla linea del partito, lo fece virando verso le componenti pseudorivoluzionarie, “extraparlamentari” di sinistra neo- o post-marxista. Le sue iniziative culturali erano in continuità con la cultura del “Gruppo '63” e di “Alfabeta” piuttosto che di Sciascia; forse erano in continuità addirittura con “Primato”, la rivista degli intellettuali fascisti bottaiani. Nicolini si iscrisse al Partito Radicale, ma non ne capì la sostanza di soggetto realmente alternativo al regime.

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