giovedì 28 giugno 2012



                                      EVVIVA LA TELEVISIONE

                                       (da "Il Foglio", 28/6/2012)


Io vedo. Domenica sera, simpatici amici mi hanno offerto una buona cena, poi hanno acceso la TV sulla partita Italia-Inghilterra. Da sportivi giudiziosamente nazionalisti, temevamo lo scontro con i maestri del più bel gioco del mondo. E' finita come è finita ed ovviamente siamo stati tutti contenti. Ma a tratti, durante la partita, mi sono un po' distratto, la mia attenzione si appuntava non già sui ventidue che rincorrevano il pallone ma sulla cornice, sul linguaggio in sé del “mezzo”, della TV. Con rapide zummate, il cameraman ci invitava a sorridenti divagazioni, inquadrando ora il volto del giocatore teso nello sforzo e colto al “ralenti” nel momento della massima tensione, ora quello della giovane e bella spettatrice, con la mobile maschera della gioia o della delusione che la rendeva attraente e, perché no?, desiderabile; oppure coglieva i giocatori inglesi allacciati in trepida solidarietà mentre il compagno stava per scoccare il calcio di rigore, o i due giocatori avversari che si stringevano la mano dopo uno scontro duro ma, come si dice, leale. Infine, ecco la panoramica degli spettatori con le braccia agitate ritmicamente in aria: una danza - che so? - di fenicotteri. Erano flash di annotazione psicologica, di reportage sociale. In questi momenti ho capito che si può amare la TV, mi sono reso conto che il suo freddo occhio ha anche tocchi di umanità trasmessi, con tocco leggero, ad una platea di milioni di persone di ogni lingua, colore e religione: una esperienza impossibile senza la TV. Siete d'accordo, immagino. Ma perché allora - mi chiedo - la TV viene bersagliata da ogni tipo di critiche, accusata di volgarità e banalità, fatta oggetto di sarcasmo, aggredita da tentativi accaniti di censura? Davanti alle nuove sempre più mobili tecnologie la TV è uno strumento invecchiato, ma esprime sempre qualcosa di essenziale al nostro tempo. Il mondo, prima della TV, non era certamente più bello, tanto meno più buono, ne sono sicuro.

Quando il piccolo schermo si accese per la prima volta in Italia, arrivò se non la condanna almeno la messa in guardia di Pio XII, severo contro i pericoli che lo strumento poteva portare con sé. Non si capiva se quella diffidenza esprimesse preoccupazione per la salute morale delle masse o perché, viceversa, il nuovo mezzo avrebbe prodotto una irreparabile massificazione. La sociologia del tempo, l'analisi di McLuhan, ci assicurarono che il pericolo era, appunto, la possibilità di una massificazione generale: la TV impigriva, omogeneizzava, livellava i cervelli, attutiva le sensibilità. Se non dell'annullamento, costituiva l'inizio di una grande modificazione della “natura” umana, con una sua regressione a una stupidità primordiale. Per altri invece si stava realizzando il torbido mito di una umanità pronta a diventare schiava della sua stessa intelligenza o di una potenza mentale sovrumana, non più controllabile. C'era solo da scegliere tra il ritorno all'età della pietra e l'esplosione di una mostruosa new age superomistica. Il dilemma non si è ancora sciolto.

Narciso muore affogando nell'acqua che gli riflette il suo volto. Lo specchio è sempre stato considerato uno strumento del peccato, dell'amore per il sé. Dall'epoca della fotografia sonnecchia, in ambienti di potere, la paura dell'immagine creata dall'uomo, la si vede come una sorta di pretesa al dominio, al controllo, alla falsificazione della natura, un assalto al potere divino, che l'immagine vuole controllarla lui. Attenzione a non farcela scippare: l'immagine forse ci rivela l'essenza. Alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma è in corso una bella mostra di Warhol: “Warhol. Headlines”. Brilla un suo slogan: “Io non penso, vedo”, e nelle sale trionfa l'insostenibile leggerezza e volatilità dell'immaginario, sottratto alla durezza e grevità dell'Essere parmenideo.

Utopie. E' morto Ray Bradbury, maestro dell'Utopia. Nel suo capolavoro, “Farenheit 451”, Bradbury tratteggia un mondo insieme schematico e complesso, chiuso e autoreferenziale: un mondo massicciamente totalizzante dal quale sono espunti i libri, ritenuti portatori di idee che non collimano con le credenze modellate dalla tecnologia e dal potere che la controlla. La letteratura del XX secolo aveva conosciuto altre utopie: “Il Mondo nuovo” di Huxley, “L'uomo è forte” di Corrado Alvaro, “Noi” di Zamjatin, la “Fattoria degli animali” e “1984” di Orwell. Accomuna queste opere una identico pessimismo. Ma è bene fare qualche distinguo: sia Alvaro che Orwell ce l'avevano con il comunismo, lo stalinismo, il totalitarismo. Non se la prendevano, se non in subordine, con la tecnologia. Sono d'accordo con Alvaro o Orwell, non condivido invece il dito puntato sulla tecnologia. Per coerenza, non si può prendersela con la tecnologia perché massifica e, nello stesso momento, denunciare il relativismo soggettivistico che caratterizzerebbe il nostro tempo, come fanno pensatori dell'assoluto e antiscientisti, fideisti, creazionisti, moralisti e fondamentalisti. Vedo questi critici piuttosto vicini a quei totalitarismi che Orwell e Alvaro denunciavano: non a caso, Heidegger ebbe forti simpatie per il nazismo.




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