S
A L I V A
un
racconto sadiano
Il
ventre piccolo, la pelle liscia e tesa a cerchio dell’ombelico. Una
lingua sul limiti della forra umida e tenebrosa. Saliva agglutinata
in tenue schiuma di bollicine brilla nella penombra. Attesa,
l'esitazione può essere segno di una delicatezza, un recupero di
natura: o, forse, illusione di una coatta complicità? La lingua
pregusta la delizia, e chissà se l'assaporare è sorriso o dolore.
Suvvia, scacciare i pensieri - tutto sta qui, rappreso.
Sopra
granulosa, sotto liquida come la polpa di un frutto di mare quando le
valve si aprono su un residuo di salmastro, avanza, sosta sorpresa,
raccoglie un sapore acre, misto di salato e amaro ma anche - scopre -
di viola e blu nel punto dove, sprofondando dentro un breve ripido
pozzo, la pelle si attorce in annodamento cupo. L'ombelico, fastosa,
turgida mezzaluna, sembra ripiegarsi nella vertigine musciata.
Impressione sconosciuta e nuova, non immaginata. La lingua ne ritrae
altri sapori, prova a decifrare il labirinto, perde contatto, si
smarrisce in percorsi a tentoni su una pelle serrata, stretta in
muscoli tenaci. Il ventre si scuote in disperata commozione, più giù
la macchia di capelvenere fruscia al fresco di un semitono di luce.
L'esploratrice
è inquieta, teme quelle fibrillazioni - non le aspettava?, la
sconcertano - eccitata dal vellicamento dei grumi dove la pelle è
più spessa, congiura e oppone studiate ritrosie all'imprevisto
minaccioso sussultare, chiude i passaggi, accellera il serpeggiamento
retrattile e gommoso, ha un istante di stanchezza, cede a cavità e
distanze - papille irte di dorata pelugine, gore nascoste dentro
coppe buie che vaporano tepore - trattenuta da esitazioni del gusto,
da cupidità e da ritorni, ansiosa nel timore che ogni centimetro
abbandonato sia per sempre perduto. E in improvvisa gaiezza scopre di
godere nel provocare le resistenze, si recupera compiaciuta al
desiderio, spinge di nuovo alla ostinazione pervicace che è ludibrio
eccitante.
Il
ventre è una cupola odorosa, tesa e traslucida, con intorno
all'ombelico arricciato la spiaggia di peluria chiara, che poi
digraderà in ruscellanti cascatelle giù fino al rigoglio di un
boschetto intrecciato e folto, bruno o fulvo alla radice e quindi
d'un nero bluastro e metallico nella ardita voluta finale, netto e
preciso tra i solchi dell'inguine oltre i quali, d'una diversa
consistenza e colore, le due vaste cosce, percorse dai brividi d'una
muscolatura asciutta e satinata. Quindi il percorso si fa arido. La
pelle si distende senza smagliature, senza percettibili pause, come
pietra levigata. Confidenza nei corpi, nel corpo, nel proprio e
nell'altrui corpo, fatto bello dalla frequentazione, dalla
partecipazione - carezze come dono o come rapina, le carezze non sono
tutte uguali, la mano va in giro, parte da sola all'avventura,
palpando novità e delizie, o contatti conflittuali, enormi e
aggressivi, violenti: alcuni di una violenza positiva, altri
negativa. E anche ritrosie! Certo, ritrosie, come le perle della
collana depositata nel buio (ma il velo di sudore le rende
luminescenti). La mano si scioglie allora perplessa, a malincuore,
dalla morbidezza della schiena, scivola lungo freddi fiordi e con un
passaggio astuto incontra, turrite distanze immisurabili tra
campiture d'aria, i seni. Li spreme con passione, fino alle areole e
alle papille rosate, delicate o dure, grani dolci di spezie, di
melassa brunita, gettoni d'una fortuna che non si pronuncia e rinvia
sempre, con infingimenti di castità da adolescente, e anche
prefigurazioni di una caduta clitoridea, senza fine. Giovane seno il
cui nome è attesa. Come è petulante il dito che si insinua -
petulante - nel tondeggiare dei groppi. Questi si stringono invitanti
e restii: il dito esita lungo la interminabile curva lunata,
misurandone lo spessore e poi l'intero, completo, volume negativo,
l'incavo - incredulo che non finisca mai. Op là, salta da una parte
all'altra - da un groppo all'altro - dimentica la strada, la cerca e
la ripercorre sinuosamente, fingendo, attento a non lasciarsi
sfuggire il minimo piacere dall'avventura - dalla caccia al tesoro -
opulento dei tanti indizi che i polpastrelli sfiorano ad uno ad uno
lentamente esercitandosi e provocando la memoria, le sue storie e
narrazioni e rimbalzi e ascolti. Per saggiarne uno devi lasciare
cadere, abbandonare l'altro - come è restia al sacrificio, la
mano...
Le
dita si specializzano, l'indice scorre leggero, esplorativo, giocoso,
il medio scalza ostacoli prudenti, l'anulare è torbido, penetrativo,
audace e spavaldo, il pollice esercita una assaporata crudità di
sensazioni che mozza il fiato: l'artificio nel concordato silenzio è
una tastiera antica, ripresa e sognata, dolorosamente insistente a
volte. Un andare e tornare preparando smemoramenti e ricordanze,
richiama ostilità e indimenticabili amicizie e complicità.
Il
massimo del piacere, in questa reticenza. L'invito suadente alla
ripetizione osa chiedere sfacciatamente scusa e spande alibi senza
vergogna, senza pudore, e persino nutre un rifiuto irresponsabile. Si
apre pericolosamente il dominio della trasgressione. Il corpo come
trasgressione. Un sospetto di sevizia. La verità, lasciata cadere,
palude di acque smorte, dalla coscienza dilaniata, con una ferita che
lentamente incancrenisce in piaga infine purulenta e l'ordine scade a
disordine, abbandonato alla condanna, a nefande pratiche senza
pentimenti, e dunque gravido di minacce, di un egotismo spudorato, in
caccia e infine in trionfo.
***
Gli
occhi si chiudono, altre immagini vengono scrutate da altri sensi, un
brusio colorato traboccante da epoche stupefatte della memoria -
presagi rifratti ora presenti in una estasi precipitata dalla follia
attirante, ma pervertita, del gusto. Per non vedere. Ma il sadismo
non è un'occhiata?
La
bocca risale il corpo inerte, ansiosamente va a cercare l'altra
bocca. La incontra - quella è fredda, si ritrae, si muove in sfida
tetra suggerendo ipotesi di duelli, smorfie, che scadono anche in
lazzi e giochi birichini; o si fa riottosa e si chiude in labbra
dure. Deve provare altre strategie, cerca di assecondare il capriccio
dell'avversaria per meglio giocarla e coglierla a tradimento.
Improvvisamente quella si illanguidisce, abbandona le difese alla
chiostra dei denti, si schiude ironicamente, i denti sono in una fila
non perfetta, disuguali, urtano sulla lingua estranea, scatti
affilati di distanze e di accavallamenti, il lucore ambiguo della
scheggia, della cesoia calcolante: il tocco è brutale, bisogna che
le labbra si distorcano. La lingua incontra a tentoni i succhi, la
saliva lasciva e sfuggente, da inghiottire godendone gli umori e le
dolcezze in un furto alacre.
E
infine il gioco si fa partecipato, la chiostra - ignota - dei denti
si apre come una diga immensa mentre l'alito sale con un gorgogliare
denso tra le labbra. Sono così affondate le une nella altre che
lasciano cadere qualche goccia di saliva e un risucchio - un fruscio,
un lappare di cane - ma poi subito tornano compattamente unite,
saldate, non passa nemmeno un sottile spirare d'aria, sono
inturgidite, dolgono, una stilla dolciastra tremola nella grotta
delle due bocche. Si scuotono - l'inaspettato sapore si fonde con
quello della saliva - ruotano palpeggiandosi, esplorano ogni minuta
piega della polpa elastica, si deliziano della mucosa scivolosa e
sfuggente, di una sensibilità scherzevole. Il gioco prosegue. Come
un danzatore quando cerca di cogliere di sorpresa le forze
dell'altro, per abbatterlo. Le lingue affondano, la spinta è
dolorosa, sfiorano la pareti grondanti e torbide, una urta e avanza -
l'altra sembra difendersi e difendere la cavità e le sue cupezze -
schermaglia furente; labbra deformate, attente tuttavia a non
separarsi, a non lasciare penetrare uno sbavo di lontananza. Si
logorano in questo esercizio, e quando si separano una filatura di
saliva ancora le unisce.
Si
affrettano a succhiarla, ad assorbirla, inghiottirla con un movimento
insieme disgustato e avido, gorgogliano all'unisono, una palpitazione
alterna segna i ritmi della respirazione in affanno, in ritardo o in
anticipo l'una sull'altra.
***
Alla
stanchezza e alla caduta impercettibile del desiderio le bocche
possono separarsi e allontanarsi nella rinuncia oscura e sfatta, che
impone un ordine, senza amarezze ma perplesso. Riposano ansimando per
un tempo che appare lunghissimo se misurato sulla rapidità e
l'intensità del desiderio: così la lingua ritenta ed esplora adesso
le labbra incurvate e distanti, in una piega densa di sensi. Sono
momenti abbandonati, indifesi. Sadica, impaziente, una torna ad
incalzare: scivola inebriata giù per le colline del corpo, ritenta
la gola, il seno, di nuovo il ventre turgido, la peluria che si
arriccia, vellica, solletica. Fa una immensa fatica a scostare il
turgore e penetrare la
umidità
d’abisso marino che le si presenta - la lingua spinge, penetra, al
colpo le cosce vibrano e stringono la testa, carezzano i capelli
disordinati, le guance accalorate, i muscoli contratti, ansiosi
nell'attesa di un ben noto ma sempre nuovo: istanti di un tempo
trattenuto nel gioco dei richiami reciproci, delle astuzie e degli
abbandoni, nello spasimo di una attenzione non remissiva, esigente,
intensa seppur timorosamente superficiale. La lingua provoca, affonda
più avanti, incontra ora un amaro come di velluto, incapsulata in
superfici mobili e retrattili, dense. Le coscie tolgono il respiro,
la lingua si ritrae nel cavo profondo. Le mani tornano lungo forme
tondeggianti. Distese e sovrane, offrono il brucare delle dita mentre
indugiano, sollecitano e si sottraggono - fanno sprofondare l'arco
del ventre - granuli duri e taglienti, come di cornee, danno un raspo
sotto il polpastrello. Indizi disseminati lungo sentieri ignoti in
salite e discese intorbidate da filamenti sottili, molli di sudore.
C'è un silenzio di fuga. Di estraneità, Di pensieri che sfuggono in
luccicanti scie. L'ascella, senza peluria, frigida come l'incavo
dietro il collo della tartaruga, tra il guscio e la zampa, nei giorni
di estate, al passaggio del dito si contrae per aprirsi subito dopo
quando, spingendo, il polpastrello avverte il palpitare di una vena
remota, o di una arteria indifesa.
***
Per
sottili, segrete e impensate vie la sevizia sul corpo altrui diviene
appagamento del proprio, concepimento, forse, e compimento. Il
seviziatore ama il corpo seviziato - da impotente? In questo amore,
passione incompiuta e imperfetta, costui attribuisce a quell'altrui
corpo una importanza straordinaria, su di esso scarica l'intero peso
del proprio, forse del corpo in sé. Il seviziatore punisce quanti
non accettano il corpo - colpisce non tanto il corpo che sevizia,
quanto gli altri, coloro che non hanno voluto riconoscere quella
importanza, l'importanza dell'offerta vuole mostrare ad altri (a
tutti) quanto sia tremendo e incommensurabile l'errore, il tenere in
non cale quel corpo, il corpo. La punizione degli altri si fa
esaltazione del corpo seviziato, ma lui così afferma anche la
dolcezza infinita, inafferrabile, del corpo, appropriazione profonda
e intima che non vuole avere fine. Il seviziatore lotta e nega la
memoria, la sevizia è eterna, vorrebbe esercitarsi su un corpo
eterno, che non ha mai fine, che non muore mai, la sevizia è
affermazione della vita eterna.
***
La
saliva sale torbida, fugace, gocciolante, deliziosa e delicata.
Tiepida, impastata, scivola, accompagnando sul polpastrello un
relitto infimo, il sapore di una sigaretta di ieri, del fumo, di un
frammento, carta o altro, appena dolciastro - ingoiarla distesi,
impacciati, vergognosi quasi - ma nella gola scende calore, con un
deposito estremo di orrore nel gorgoglio lontano.
***
Recupero
dell'alterità, una dimensione corporea dimenticata, attraverso il
gemito, lo strappo, un contatto faticoso e un abbraccio finale.
L'incontro difficile del respiro, nella difesa di una solitudine
protesa a riconoscere ogni parte di se stessi dall'assedio di una
partecipazione avvertita come violenza, in definitiva, con un brivido
tra i denti. Il volto si contrae, gli occhi inturgidiscono nelle
palpebre serrate, le guance sono roventi, fili di capelli si
intrecciano sulle orecchie dal profumo strano e dietro il collo
torrido. Una goccia di sudore si disfa. Le gambe tengono stretto un
enorme vuoto, incolmabile, spingono verso un affondo definitivo,
troppo rapido. Penetrazione: c'è un attimo di stupore
inevitabilmente osceno, di incredulità.
L'atto
appartiene alle forme della sevizia, la figura della donna elemento
sacrificale dell'umano, una parte nel doppio volto della figura,
diversità ineliminabile che non si può non temere. L'uomo guarda
nella convessità dello specchio che ha dovuto inventare per
comprendere questo ineluttabile assurdo. Lo sa, la donna, del prezzo
che paga, della scommessa che le viene gettata addosso? Ma le sue
labbra tumefatte offrono un richiamo al quale non si può negarsi.
La
memoria è nemica del godimento. Oppone diaframmi, incute
mutilazioni, insinua demoni. La penetrazione sa di essere un equivoco
giocato sulla reciproca reticenza, e dunque deve difendersi
dall'ammonimento del passato, la memoria. Ma anche dal futuro che è,
mai come adesso, sardonico, irreale. Penetrare un corpo che sempre
più vistosamente si allontana, si fa estraneo, esistenza pura e
semplice: il gioco sempre più labirintico, i due corpi cercano la
più strenua sopraffazione. Lo spasmo passa in tremiti, in
sconvolgimenti di ogni piano del tempo (del momento) nell'angoscia
del finale assorbimento esausto. Le mani, che fino ad un istante fa
erano prensili e tattili, ora si sono indurite come a trattenere il
sé entro una presa definitiva, o forse nell'illusione di cogliere la
complessità del nulla, del vuoto.
La
penetrazione vuole essere assoluta, e sopratutto definitiva. Non
accetta l'ipotesi dell'incompletezza. E' del tutto priva di ironia,
se non nello sdoppiamento, perseguito con violenza, ma senza
certezze. La penetrazione è diffidente, teme l'inganno del non
appagamento, ha come complice e avversario il tempo. I corpi si
distendono e si compongono, sfuggono però alla presa totale.
Sorprendentemente.
E
l'appagamento è stupore, sorpresa incredula. Il tempo è davvero
finito, si resta ora in una dimensione dalla quale non c'è ripresa.
Lo spazio, lo si regala o lo si getta via, indifferenti, l'altro
corpo riposa, lontano e tranquillo, e ne restiamo amareggiati, perché
l'insoddisfazione urge dentro di noi per quello che ci è sembrato
mancante, o addirittura sprecato. L'istante torna alla memoria -
immobile, appunto - restiamo perplessi della sua leggerezza, ormai, e
indifferenza.
Assoluta
assenza di gratitudine. Io ti ho dato il mio corpo. Che sciocca, ma
il dono è il rovescio del furto: incomprensibile ma ineluttabile. Ma
inconfessabile, lei a lui; e quando lei cede, è la sconfitta piena,
irrimediabile, senza scampo. L'uomo non dona il suo corpo, non può
fare altro che imporlo, anche quando l'indifferenza si fa forte del
desiderio come fisiologica potenza, liscia e disponibile, ma senza
nobiltà: succede, ed è un soggetto anche questo di sconcerto, di
meraviglia. Come è possibile che questo accada, così. Ecco il riso
grasso, la pornografia che si schiude, oscena anche quando ignara:
l'amore, il sesso non può essere naturale, la naturalità è nel
sesso la porta nella quale si infila la pornografia, come distacco,
separatezza dalla coscienza. Erotismo vissuto senza coscienza.
Immaginario che si scioglie dall'occasione, diventa consumo assoluto,
senza tattica, non parliamo di strategia. Ecco, la pornografia è
erotismo senza strategia e senza tattica. Per questo, nonostante
tutto, è oscena, inaccettabile. Perché la pornografia non sia
oscena deve tornare ad essere "detta", quindi anche goduta,
appropriata da una coscienza. Allora si scioglie, svanisce, puoi
parteciparla, farla tua, e anche donarla all'altro. Certo, capirà.
Lo
sfinimento è sozzura, sgomento deserto, adesso. Il compiacimento, di
ogni genere, è terminato, si riprendono fissità e indifferenze. Ma,
poco fa? No, nulla che sia accaduto. Quello che è passato ci è
indifferente, forse persino è bene essere irriverenti con noi
stessi, tollerarlo con qualche fatica, con un lieve rimorso - occorre
un amore forte e vorace per superare questi riflussi, queste cadute.
I corpi giacciono ancora - l'attesa è rovesciata all'indietro, a un
tempo appena trascorso eppure già dimenticato - si resta increduli,
si vorrebbe recuperare istanti che ci paiono perduti, per sempre. E
ora si insinua il senso di una ignobilità di fondo - e irrimediabile
- che fa sospirare d'una rabbia sorda. Ci si domanda se anche
l'altro, quel corpo che sta lì accanto, quel nient'altro che corpo
che è divenuto, ridotto - costei - prova qualcosa o se è
semplicemente inerte, smemorata e persino distratta, cosa che ci
sarebbe insopportabile: intanto nascondiamo a noi stessi la fitta di
una delusione, ci chiediamo se davvero quello che è successo fosse
indispensabile. Formuliamo ipotesi. Ci guardiamo la mano, il braccio,
tocchiamo la pelle. Sentiamo ora solo l'odore di noi stessi, e lo
troviamo insipido. Temiamo di fare un controllo sull'altro corpo, è
probabile che lo troveremmo ugualmente indifferente. Scopriamo la
lontananza, che fino a un istante fa sembrava impossibile, e comunque
ci era inaccettabile, sotto qualunque alibi si fosse presentata.
Roma,
1997/98
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