mercoledì 13 giugno 2012

LA STRANA OCCASIONE (PERDUTA) DELL'EUROPA

di Angiolo Bandinelli   Tra i tanti, intensi dibattiti sulla possibilità di unire definitivamente l'Europa oppure  mandare in frantumi quel tanto che ce ne è adesso, piuttosto che invocare - a fondamento della sua unità - le lontane e dissolte “radici cristiane” sarebbe utile ricordare che c'è stato un periodo, anche recente, nel quale l'Europa è stata profondamente unita, se non politicamente di sicuro sul piano culturale. Tra la fine dell'ottocento e le prime due decadi e mezza del novecento gli artisti del continente si espressero in un linguaggio molto unitario, anche se declinato con pluralità di accenti: fu il linguaggio delle avanguardie, proliferanti da Parigi a Mosca, da Roma a Berlino in uno straordinario, e mai più ripetuto, dialogo. Districandosi tra mille sigle (futurismo o costruttivismo, astrattismo, cubismo, suprematismo...) quegli artisti avevano un progetto, forse un sogno, comune, l'affermazione dell'”uomo nuovo” che costruisse un mondo completamente diverso, basato su fondamenta garantite dall'arte, dalla cultura. Era una ambizione dai riflessi anche politici, clamorosi nel caso di Marinetti. Ce lo ricorda una mostra in corso al Museo dell'Ara Pacis, a Roma che offre una bella panoramica degli artisti dell'avanguardia russa. Ci sono buoni Chagall, Malevich, Kandinskij, Rodchenko, Tatlin ed altri, tutti interessanti. La mostra chiarisce una volta per tutte che il comunismo delle origini, quello leniniano, aveva molte assonanze con il fascismo del Mussolini rivoluzionario, ma che quello come questo erano del tutto incomparabili rispetto al nazismo hitleriano, per non parlare delle dittature militari proliferate in Polonia, in Ungheria o magari in Spagna.  Il leninismo e il mussolinismo volevano costruire una società attenta ai paradigmi della modernità promossa da quelle avanguardie, mentre il nazismo era rivolto al passato, si ripiegava sul mito del “suolo e sangue”, odiò da subito l'arte “degenerata”. Solo alla metà degli anni '30 prende piede in Europa una involuzione che vede Mussolini ripudiare l'architettura razionalista per tornare al moderatissimo Piacentini, e avvicinarsi sempre più ad Hitler. Agli inizi Mussolini (che non era certo un Beppe Grillo) incitava e incendiava le masse aizzandole contro un establishment arroccato sui suoi ideali del passato e non aveva capito cosa avesse portato di sconvolgente la guerra, sul piano sociologico, ma anche culturale e delle aspettative. Né il “liberalismo” giolittiano aveva le carte in regola in fatto di autentica democrazia, i Salvemini come i Gobetti lo detestavano e denunciarono.    In Russia, alcuni di questi avanguardisti inizialmente collaborarono anche attivamente con il regime sovietico, mentre dialogavano con l'arte dell'occidente, parigina o milanese, cercando di impastarla alla tradizione russa. Con la regressione degli anni '30, già manifestamente presaga della guerra tra le nazioni che di lì a poco avrebbe sconvolto il continente, il dialogo si interrompe e gli avanguardisti vengono messi da parte, quando non addirittura perseguitati, come nell'Unione Sovietica. La grande illusione era finita, il linguaggio nazionalista riprendeva il centro della scena. Sicuramente non fu un bene.   Qualche dubbio circa i risultati delle avanguardie però si insinua nella mente: la mostra romana (comunque piena di ammaestramenti) esibisce il modellino di una torre dalle ardite linee costruttiviste, un po' ispirata alla spirale borrominiana di S. Ivo alla Sapienza, che doveva essere nientemeno che il Monumento alla Terza Internazionale. Di certe confusioni di idee, diciamocelo pure, gli artisti sono a volte ingenuamente responsabili. Anche in tempi più recenti. Forse quelle avanguardie furono un colossale equivoco; è però abbastanza curioso il fatto che poi il mondo lo hanno davvero cambiato, plasmandone il volto, l'immagine, il “design”, come si dice.

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