venerdì 16 novembre 2012


ANTICHI MESTIERI


(da "Il Foglio")

Lo scalpellino

Lo scalpellino siede per terra a gambe aperte e larghe, quasi a novanta gradi. Accanto ha i suoi strumenti, scalpello e mazzuolo, di rado la subbia. La mano sinistra pare la chela di un granchio, con l’indice, il medio e l’anulare stretti sopra lo scalpello, il pollice e il mignolo sotto. La destra impugna il mazzuolo, un massello di ferro a base quadrata di quattro centimetri circa e alto otto-nove centimetri, con un corto manico di legno. Io non ho mai visto uno scalpellino mancino, mancini sono i fannulloni, quelli che non lavorano. Sotto i colpi del mazzuolo, la testa dello scalpello è divenuta liscia, lucida, slabbrata ai bordi. I colpi hanno un suono sordo. Lo scalpello, inclinato di circa 45 gradi, incide la pietra con solchi dritti e regolari, che percorrono il rettangolo della lastra in diagonale a distanza di circa un centimetro l’uno dall’altro, e si arrestano a circa due-tre centimetri dal margine: ne risulterà un bordo continuo successivamente trattato “a bocciarda” con la subbia, che al posto della lama ha una tozza punta arrotondata ed è usata piuttosto dagli scultori. I solchi dello scalpello ricordano le onde di sabbia sulla spiaggia battuta dal vento. Le lastre così lavorate vengono collocate in incastro, a formare il piano della strada. Ora la strada sembra una pittura astratta, ma lo scalpellino questo non lo sa. Quando piove ed è tutto bagnato, gli asini e i muli che la percorrono non scivolano e non cadono col rischio di spezzarsi le zampe, dovrebbero essere abbattuti. Il ginocchio sbucciato e sanguinante di un asino caduto formicola di mosche, l’asino è una bestia triste. Passano anche, aggiogati al carro, buoi (che invece sono malinconici) col fiocco rosso pendente tra le narici. Lo zoccolo del bue è diverso da quello degli asini, dei muli e dei cavalli: ha due unghie separate, occorrono due ferri a forma di foglia, uno per unghia. I buoi perdono facilmente i ferri, e questi arrugginiscono per la campagna.

Archeologi inglesi hanno scoperto un sito preistorico dove venivano prodotti chopper, amigdale o punte di freccia: dalla disposizione delle schegge ammonticchiate, apparve evidente che anche l’antichissimo scalpellino era seduto a terra, a gambe aperte. Gustave Courbet, nel 1849, dipinse due quadri aventi a soggetto lo spaccapietre, che però è un mestiere assai diverso dallo scalpellino: lavora infatti tenendo un ginocchio a terra, avvolto in un pezzo di ruvido sacco. A Roma, lo spaccapietre (ma forse è uno scalpellino) lavora i sampietrini, grossi ciottoli di pietra lavica a forma di piramide tronca a base quadrata, con i quali si pavimentano le strade, solo in questa città. Una volta, gli spaccapietre erano galeotti, ora non usa più. I sampietrini vengono infossati in un letto di sabbia, e un tempo erano ribattuti con il mazzapicchio. Il mazzapicchio era un grosso e pesante tronco di legno rinforzato da strisce di ferro e attraversato da due grosse sbarre, sempre di legno, di diseguale lunghezza. Arrivava all’altezza della cintura e lo si impugnava per le due sbarre. Veniva sollevato e lasciato ricadere pesantemente sul sampietrino. In genere, con il mazzapicchio lavoravano due operai: ciascuno aveva il suo, e i due si alternavano ritmicamente nel sollevare l’attrezzo e batterlo giù. E’ un mestiere sparito, anche a Roma. In Italia non si fabbricano più sampietrini, vengono importati dalla Cina, ma sono differenti, tozzi e scabrosi. Hanno sfigurato le strade di Roma.

La scala a pioli

Mariano sapeva fabbricarsi una scala a pioli: c’era una cultura contadina del legno che oggi è scomparsa. Mariano tagliava dalla macchia un tronco ben dritto e della lunghezza necessaria, del diametro di circa quindici centimetri. Con la roncola lo ripuliva della corteccia, cosicché la superficie risultasse liscia e senza asperità, che potrebbero ferire le mani di chi userà la scala. Sempre con la roncola, lo fendeva longitudinalmente, dall’alto in basso, in modo che i due semitronchi, una volta separati, risultassero perfettamente identici l’uno all’altro e potessero fungere da montanti della scala. Sulle loro facce interne, con un grosso succhiello, praticava quindi dei fori, a intervalli regolari. I fori dovevano corrispondersi sui due montanti. Da un’altra parte, intanto, Mariano aveva tagliato, da un altro arbusto, tanti rami di circa due centimetri di diametro ciascuno, della lunghezza adeguata alla larghezza della scala. Siccome questa, per lavorare tra gli ulivi, doveva essere leggera e portatile, la sua larghezza mi pare non superasse, alla base, i quaranta centimetri, restringendosi leggermente all’estremità superiore. I rami, convenientemente spellati e con le due estremità lievemente rastremate, venivano incastrati nei fori praticati nei montanti, da una parte e dall’altra. La scala era fatta, con i suoi pioli. Il legno dei montanti era diverso da quello dei pioli, avevano funzioni diverse. Non so però il nome dei due tipi di legno, Mariano è morto prima che potessi chiederglielo. A questo punto, Mariano immergeva la scala nell’acqua e ve la teneva a lungo. L’acqua faceva gonfiare i legni, che avrebbero aderito perfettamente tra loro, per sempre. Mariano non usava nemmeno un chiodo. Una buona scala a pioli non deve avere nemmeno un chiodo. La scala di Mariano era leggerissima, veniva trasportata facilmente da una pianta all’altra, penetrava delicatamente tra le fronde per la raccolta delle olive o per la potatura. L’ulivo deve essere potato, dice un proverbio, così che la rondine possa volare attraverso le sue fronde. Anni fa, in Umbria venne la gelata, e tutti gli olivi sembravano morti. Il contadino tagliò i grossi tronchi alla base del pedale, l’anno appresso spuntarono i cacchi. Il contadino ne lasciò alcuni, due o tre, o anche cinque, a seconda della grandezza del pedale. Quegli ulivi, oggi, hanno ciascuno più tronchi, ma sottili e bassi, e la raccolta ne viene avvantaggiata.

Farneta

Scale a pioli di antica fabbricazione, sottili e altissime, sono conservate nell’Abbazia di Farneta. Fondata dai benedettini tra il IX e il X secolo e dedicata alla Madonna Assunta, l’Abbazia ha una unusuale forma a T, come molte chiese preromaniche. Secondo l’antica devozione, le sue absidi sono rivolte ad oriente. Quando la scoprii era officiata da un vecchio prete, don Sante Felici, che l’aveva riportata all’antico splendore dopo secoli di incuria e di devastazioni. La facciata attuale è arretrata di quattordici metri rispetto all’originaria, che aveva anche un portico di cui restano poche vestigia. L’edificio venne ridotto alle attuali dimensioni a metà del settecento, alla fine dell’ottocento fu abbattuta la torre campanaria, altri scempi seguirono. Don Sante Felici arrivò a Farneta negli anni ’30, dandosi con amore infinito al ripristino delle sue bellezze. Quando l’ho conosciuto aveva circa ottanta anni, adesso è morto. La sua vita è stata una laboriosa, santificata solitudine. Viveva povero nel casale-canonica annesso alla chiesa, una volta alla settimana si cucinava un bel po’ di pasta, giorno per giorno scaldava quella che gli serviva. Collezionava reperti d’ogni genere trovati o scavati nella campagna intorno. Nel piccolo, bellissimo museo ordinato in nude, fredde stanzette, mostrava con fierezza urne funerarie etrusche, statue romane, terrecotte altomedievali effigianti S.Pietro e S. Paolo, un Cristo risorto del 17^ secolo, una bella acquasantiera, una tomba medievale “alla cappuccina” con tutto lo scheletro, e la copia di uno stampo di quelli usati per fondere le tipiche croci longobarde. L’originale è altrove, al sicuro, ladri hanno visitato la canonica. Lo stampo, quadrato con i lati di circa otto centimetri, ha sulle due facce, in scavo, le sagome della croce latina, con i bracci svasati. Lo scavo è profondo un tre-quattro millimetri. Gli orefici longobardi vi versavano dentro oro o argento. Queste croci longobarde erano bellissime. Nella sagrestia erano anche conservati reperti della seconda guerra mondiale, nella zona si erano avuti combattimenti con i partigiani: elmi tedeschi sforacchiati, bossoli di cannone. Alcuni di quei bossoli, che sono in ottone, erano stati lavorati in forma e per uso di vaso da fiori.

Don Sante Felici era un autodidatta, ma esplorava con grande perizia le cave di sabbia dei dintorni e vi raccoglieva ossa preistoriche. Al Museo paleontologico di Firenze è conservato lo scheletro di un “Elephas Meridionalis” o “Antiquus” del Pleistocene, da lui riesumato. Per questo, era stato nominato sovrintendente onorario per la Toscana. Ne avevano parlato giornali tedeschi, di cui lui teneva esposta una copia. Aveva anche prodotto un dizionario del dialetto cortonese lodato dalla Crusca, e un disco di canti popolari. Quando era arrivato a Farneta, la cripta, sotto l’abside, era interrata da secoli. Lui l’aveva riportata alla luce, svuotandola della terra e degli scheletri e scacciandone le serpi che vi facevano il loro nido. Tozze colonnine d’età romana dividono la cripta in tre celle con volte a botte e a crociera. Una è di granito rosa e proviene da Assuan, due sono di un marmo orientale, un’altra ancora è di marmo ionico. Hanno interessanti capitelli e presentano, scolpiti qua e là, caratteri alfabetici e una figura del mitico Acheloo. C’è anche la stele funeraria di una “Quarta, figlia di Erennio Pompeo liberto”. Il prospetto posteriore dell’Abbazia è un capolavoro, ha tre absidi che sporgono dalla liscia superficie di pietra, nitide come opere di Brancusi, di Max Bill o di Jean Arp. L’architettura romanica creava geometrie di volumi di grande purezza. Bruno Zevi diceva che per riconoscere il romanico basta guardare se la chiesa è asimmetrica nel disegno complessivo e nelle parti: in queste chiese, sovente, gli spazi dell’intercolumnio e quindi anche gli archi tra le colonne sono diversi l’uno dall’altro. L’ottocento positivista fece delle repliche di romanico, ma simmetriche e senza dissonanze, noiosissime. Dietro ripetute, vigorose insistenze del vecchio prete, l’azienda elettrica aveva spostato e allontanato i piloni dell’alta tensione, prima piantati a pochi metri dalla facciata. Il terreno intorno è argilloso. Se ci cammini quando l’argilla è bagnata, questa si attacca alle scarpe in zolle enormi. Don Felici diceva che l’”argilla è amorosa”.

La vanga
La vanga è l’attrezzo principale dei contadini. E’ una lama di ferro triangolare appuntita, una costola verticale la irrobustisce ed evita che si pieghi per la resistenza della terra, della zolla. La costola si prolunga in una sorta di canale sporgente di una dozzina di centimetri, nel quale viene inserito un manico di legno, lungo all’incirca quanto un uomo. Nel manico, a un dieci centimetri sopra la lama, viene inserita una sbarretta di ferro che sporge per una dozzina di centimetri. Il contadino poggia la punta dell’attrezzo in terra, poi con il piede sinistro preme sulla sbarretta e la pressione fa sì che la sottile lama penetri progressivamente nel suolo. Si aiuta l’operazione tirando a sé e facendo oscillare, di tanto in tanto, il manico: così si allarga la fessura nel suolo e si facilita la penetrazione della vanga. Quando tutta la vanga è penetrata nel suolo, il contadino tira a sé con forza il manico, facendo staccare la zolla e rovesciandola, con un movimento analogo a quello che fa l’aratro. Lungo il taglio prodotto dalla vanga il suolo è compatto e lucido, sembra metallico. E’ anche profumato. Un bravo contadino sa usare la vanga in modo che il terreno lavorato abbia un aspetto uniforme, con le zolle regolarmente allineate l’una all’altra, senza accavallamenti disordinati. Se la terra non è stata vangata per lungo tempo, le zolle strappano e portano con sé anche l’erba che vi è cresciuta, e tra zolla e zolla compare un bell’effetto di colori, tra il verde e il bruno. La vanga si usa solo per piccoli orti, giardini, aiole.

Pecione
Pecione ripara le scarpe. Risuola, o rifà i tacchi, ma la maestria emerge nella riparazione delle suole, la risuolatura. Talvolta, quando l’usura è contenuta e il buco è ancora piccolo, lui stesso suggerisce l’applicazione di una pezza. Pecione gira per il quartiere, si ferma dove viene chiamato. Mia madre, soprattutto a causa mia, lo chiama spesso. Per questo, lui suona fiducioso al nostro campanello, quando si trova dalle nostre parti. Mia madre gli mostra il paio di scarpe da riparare, tira un po’ sul prezzo, e lui si posta con le sue carabattole accanto al cancello di casa nostra o all’angolo della strada, vicino alla fontanella. Per il suo lavoro, ha bisogno di acqua. Le fontanelle di Roma sono chiamate “nasoni”, perché l’acqua sgorga da un lungo cannello ricurvo. L’acqua è sempre fresca, un tempo era “Acqua Marcia”, la migliore acqua del mondo. Pecione mette a mollo, sotto il nasone, un pezzo di cuoio - un po’ più grande della suola o del tacco da riparare - ritagliato dal rotolo che porta con sé, legato a una cordicella. Lo ritaglia con la lesina, dalla lama a sguincio affilata come un rasoio. Intanto ha sistemato le cose che aveva a spalla: un seggiolino di paglia, un grosso sacco di pelle con gli attrezzi, il rotolo di cuoio, d’un color tabacco chiaro e ancora le venature superficiali della bestia viva. Ritira il pezzo ammollato, si siede sullo sgabellino e comincia a batterlo col martello su una minuscola incudine delle dimensioni di un piede, ben stretta tra le ginocchia. Il martello dei calzolai ha una forma strana e bellissima. La testa di ferro ha due ali, o penne, lievemente incurvate: una sembra proprio un becco d’anatra fessurato (il martello è detto “a granchio”) e serve per estrarre le bollette, l’altra invece termina in un disco con il quale il calzolaio batte su chiodi e bollette. Pecione batte a lungo il pezzo di cuoio per renderlo più compatto e resistente, e lo adatta alla scarpa rifilandolo tutto intorno con la lesina. Ha strappato via la suola vecchia, la nuova sta lentamente prendendo forma. Sempre con la lesina, scava una millimetrica fessura tutto in giro, a un centimetro dal suo bordo. Estrae quindi dal sacco un grosso fiocco di canapa o refe grezzo da cui separa lunghi filamenti che arrotola in due sottili spaghi passandoli e ripassandoli, con un mezzo guanto di cuoio ammorbidito dall’uso, prima su un blocco di cera rossastra e poi sul logoro grembiulone di pelle. Inserisce quindi un crine di cavallo ad una delle estremità dei due spaghi. Li farà ora scivolare - contemporaneamente, uno da una parte uno dall’altra - nei piccoli fori che viene praticando nella scanalatura con un punteruolo ricurvo. Ripete l’operazione tutto intorno stringendo a sé ogni volta, con forza, gli spaghi, finché la suola è saldamente cucita alla tomaia. Rifinisce poi il bordo con la carta vetrata. Il bambino osserva, gli occhi sgranati. La memoria è un fossile.

Riparare il tacco è operazione molto più semplice. Si applicano sul tacco uno o due strati di cuoio, tagliati anch’essi su misura, e li si imbulletta. Pecione tiene le bollette in bocca per insalivarle e renderle più scorrevoli. Sia sulle suole che sui tacchi appena applicati, Pecione spalma il bordo con un po’ di cera e di vernice, usando un piccolo attrezzo dalla testa gonfia e curva, che ha messo a scaldare sulla fiamma di un candelotto fatto con una lattina. Il calore scioglie la cera e la vernice. L’ultima operazione consisterà nel passare sulla suola o sul tacco una rapida mano di vernice nera o marrone, lucidandola con uno straccetto. La scarpa è tornata proprio come nuova.

L’ombrellaio

L’ombrellaio ha, a tracolla, una grossa cassetta di legno, quadrata o rettangolare, lunga sessanta-settanta centimetri, larga venti-venticinque. E’ chiusa da una stringa di cuoio forato che si incastra in un qualche piolo piantato sul fianco ed è portata a tracolla grazie a una cinta di cuoio o un pezzo di nastro per le persiane. Il legno è scomparso sotto strati di sporcizia grigiastra. Dentro la cassetta, un martello, un tronchesino, due o tre pinze piccole e una un po’ più grande, con le estremità a punta arrotondata, come un becco. Poi, rocchetti di refe, qualche barattolino di colla, un rotolo di fil di ferro, striscioline di latta dei barattoli di pomodoro. Sempre a tracolla, sull’altra spalla, vecchi fusti di ombrello di varie fogge, con o senza il manico, tenuti assieme a fascio. Può anche avere, a piacimento, altri ombrelli integri, sciolti o in un altro mazzo. Gira per il quartiere, quando qualcuno gli porta l’ombrello da aggiustare, lui si siede sopra la sua cassetta dopo averne tirato fuori gli attrezzi. La maggior parte delle rotture da riparare è nelle stecche. Gli ombrelli di oggi sono piccoli, hanno stecche ripiegabili, come il mantice delle spider di lusso, sono rimasti pochi gli ombrelli lunghi, con la stecca unica, generalmente nera, terminante comunque sempre nel pirolino staccabile, che sembra il pedone di un gioco di scacchi. Le stecche possono essere in tondino di acciaio oppure in lamierino sottile, piegato ad “u” squadrato. Le rotture avvengono nelle giunture tra le stecche e le barrette che le uniscono al fusto. La riparazione consiste nell’inserire, nei forellini della giuntura, sottili segmenti di fil di ferro che poi vengono serrati. Le stecche tornano a piegarsi correttamente, evitando che la barretta si infili di nuovo nella stoffa. Qualche volta il manico si stacca dal fusto, oppure il fusto si spezza. Se è di legno, si potranno rincollare le due parti, altrimenti occorre cambiarlo con uno di quelli portati a tracolla. A volte, anche, l’ombrello perde il puntale che è in fondo al fusto. L’ombrellaio ne ha sempre qualcuno di riserva, usato, nella cassetta, da sostituire al mancante. Può anche essere necessario applicare un nuovo pirolino in cima alla stecca, per evitare che questa ti acciechi, quasi fosse diventata un fioretto da scherma. Gli ombrelli d’un tempo avevano l’impugnatura in legno, in bambù, in metallo, o anche in avorio scolpito, in foggia di testa di cane o altro. Gli ombrelli di oggi non si aggiustano, si buttano via. Sono per lo più fabbricati in Cina. L’ombrellaio è stato rovinato dall’avvento della plastica. Un tempo, faceva anche l’aggiustatore di piatti, ciotole, vasi e terrecotte. Arrivava con il suo lento passo, gridando forte: “Ombrellaio! Concoline da accomodare!” La “o” e la “e” finali venivano prolungate e tenute sospese, con una inflessione nasale caratteristica. L’inflessione nasale era l’”insegna” dell’ombrellaio. Dovevi essere un vero uomo del mestiere per saper dare quell’inflessione nasale così unica. Le donne, quando la sentivano, scendevano precipitosamente per strade, portando l’ombrello, il piatto o il coccio da accomodare. Accomodare piatti e cocci era molto difficile. Nella novella “La giara”, Pirandello racconta come si aggiustano i grandi orci da olio, ma quello è un lavoro grezzo di fronte alla sottile tecnica dell’aggiustare un piccolo piatto. L’ombrellaio d’un tempo metteva i due pezzi a combaciare, poi praticava dei forellini minuscoli sulle due parti, in corrispondenza esattissima, forellino con forellino. Per fare questi forellini usava un trapano a mano, identico a quello usato nella preistoria dall’homo habilis. Si tratta di una asticella, in cima alla quale viene saldamente applicata una punta aguzza, spesso fatta con un pezzetto di stecca d’acciaio da ombrello. A un quarto dalla estremità con la punta è incastrato un disco, di legno con bordi di piombo. Più su, c’è una sbarretta orizzontale forata, che può scorrere su e giù lungo l’asticella. Alle due estremità ha una robusta cordicella, fissata all’estremità dell’asticella. Facendo rapidamente scorrere su e giù la sbarretta, questa trasmette, grazie alla cordicella, un moto rotatorio all’asticella, e la punta può così perforare la terracotta. Nei forellini veniva infilata una grappetta di sottilissimo fil di ferro, insieme a qualche goccia di colla. Con un piccolo martello si mette in perfetta posizione la graffetta. Di queste graffette a volte sono necessarie molte. Quando la colla si è asciugata, il piatto o la concolina è aggiustato. Si fa la prova riempiendola d’acqua, che non dovrebbe uscire né filtrare.



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