ANTICHI MESTIERI
(da "Il Foglio")
Lo scalpellino
Lo scalpellino siede per
terra a gambe aperte e larghe, quasi a novanta gradi. Accanto ha i
suoi strumenti, scalpello e mazzuolo, di rado la subbia. La mano
sinistra pare la chela di un granchio, con l’indice, il medio e
l’anulare stretti sopra lo scalpello, il pollice e il mignolo
sotto. La destra impugna il mazzuolo, un massello di ferro a base
quadrata di quattro centimetri circa e alto otto-nove centimetri, con
un corto manico di legno. Io non ho mai visto uno scalpellino
mancino, mancini sono i fannulloni, quelli che non lavorano. Sotto i
colpi del mazzuolo, la testa dello scalpello è divenuta liscia,
lucida, slabbrata ai bordi. I colpi hanno un suono sordo. Lo
scalpello, inclinato di circa 45 gradi, incide la pietra con solchi
dritti e regolari, che percorrono il rettangolo della lastra in
diagonale a distanza di circa un centimetro l’uno dall’altro, e
si arrestano a circa due-tre centimetri dal margine: ne risulterà un
bordo continuo successivamente trattato “a bocciarda” con la
subbia, che al posto della lama ha una tozza punta arrotondata ed è
usata piuttosto dagli scultori. I solchi dello scalpello ricordano le
onde di sabbia sulla spiaggia battuta dal vento. Le lastre così
lavorate vengono collocate in incastro, a formare il piano della
strada. Ora la strada sembra una pittura astratta, ma lo scalpellino
questo non lo sa. Quando piove ed è tutto bagnato, gli asini e i
muli che la percorrono non scivolano e non cadono col rischio di
spezzarsi le zampe, dovrebbero essere abbattuti. Il ginocchio
sbucciato e sanguinante di un asino caduto formicola di mosche,
l’asino è una bestia triste. Passano anche, aggiogati al carro,
buoi (che invece sono malinconici) col fiocco rosso pendente tra le
narici. Lo zoccolo del bue è diverso da quello degli asini, dei muli
e dei cavalli: ha due unghie separate, occorrono due ferri a forma di
foglia, uno per unghia. I buoi perdono facilmente i ferri, e questi
arrugginiscono per la campagna.
Archeologi inglesi hanno
scoperto un sito preistorico dove venivano prodotti chopper, amigdale
o punte di freccia: dalla disposizione delle schegge ammonticchiate,
apparve evidente che anche l’antichissimo scalpellino era seduto a
terra, a gambe aperte. Gustave Courbet, nel 1849, dipinse due quadri
aventi a soggetto lo spaccapietre, che però è un mestiere assai
diverso dallo scalpellino: lavora infatti tenendo un ginocchio a
terra, avvolto in un pezzo di ruvido sacco. A Roma, lo spaccapietre
(ma forse è uno scalpellino) lavora i sampietrini, grossi ciottoli
di pietra lavica a forma di piramide tronca a base quadrata, con i
quali si pavimentano le strade, solo in questa città. Una volta, gli
spaccapietre erano galeotti, ora non usa più. I sampietrini vengono
infossati in un letto di sabbia, e un tempo erano ribattuti con il
mazzapicchio. Il mazzapicchio era un grosso e pesante tronco di legno
rinforzato da strisce di ferro e attraversato da due grosse sbarre,
sempre di legno, di diseguale lunghezza. Arrivava all’altezza della
cintura e lo si impugnava per le due sbarre. Veniva sollevato e
lasciato ricadere pesantemente sul sampietrino. In genere, con il
mazzapicchio lavoravano due operai: ciascuno aveva il suo, e i due
si alternavano ritmicamente nel sollevare l’attrezzo e batterlo
giù. E’ un mestiere sparito, anche a Roma. In Italia non si
fabbricano più sampietrini, vengono importati dalla Cina, ma sono
differenti, tozzi e scabrosi. Hanno sfigurato le strade di Roma.
La scala a pioli
Mariano sapeva
fabbricarsi una scala a pioli: c’era una cultura contadina del
legno che oggi è scomparsa. Mariano tagliava dalla macchia un tronco
ben dritto e della lunghezza necessaria, del diametro di circa
quindici centimetri. Con la roncola lo ripuliva della corteccia,
cosicché la superficie risultasse liscia e senza asperità, che
potrebbero ferire le mani di chi userà la scala. Sempre con la
roncola, lo fendeva longitudinalmente, dall’alto in basso, in modo
che i due semitronchi, una volta separati, risultassero perfettamente
identici l’uno all’altro e potessero fungere da montanti della
scala. Sulle loro facce interne, con un grosso succhiello, praticava
quindi dei fori, a intervalli regolari. I fori dovevano
corrispondersi sui due montanti. Da un’altra parte, intanto,
Mariano aveva tagliato, da un altro arbusto, tanti rami di circa due
centimetri di diametro ciascuno, della lunghezza adeguata alla
larghezza della scala. Siccome questa, per lavorare tra gli ulivi,
doveva essere leggera e portatile, la sua larghezza mi pare non
superasse, alla base, i quaranta centimetri, restringendosi
leggermente all’estremità superiore. I rami, convenientemente
spellati e con le due estremità lievemente rastremate, venivano
incastrati nei fori praticati nei montanti, da una parte e
dall’altra. La scala era fatta, con i suoi pioli. Il legno dei
montanti era diverso da quello dei pioli, avevano funzioni diverse.
Non so però il nome dei due tipi di legno, Mariano è morto prima
che potessi chiederglielo. A questo punto, Mariano immergeva la scala
nell’acqua e ve la teneva a lungo. L’acqua faceva gonfiare i
legni, che avrebbero aderito perfettamente tra loro, per sempre.
Mariano non usava nemmeno un chiodo. Una buona scala a pioli non deve
avere nemmeno un chiodo. La scala di Mariano era leggerissima, veniva
trasportata facilmente da una pianta all’altra, penetrava
delicatamente tra le fronde per la raccolta delle olive o per la
potatura. L’ulivo deve essere potato, dice un proverbio, così che
la rondine possa volare attraverso le sue fronde. Anni fa, in Umbria
venne la gelata, e tutti gli olivi sembravano morti. Il contadino
tagliò i grossi tronchi alla base del pedale, l’anno appresso
spuntarono i cacchi. Il contadino ne lasciò alcuni, due o tre, o
anche cinque, a seconda della grandezza del pedale. Quegli ulivi,
oggi, hanno ciascuno più tronchi, ma sottili e bassi, e la raccolta
ne viene avvantaggiata.
Farneta
Scale a
pioli di antica fabbricazione, sottili e altissime, sono conservate
nell’Abbazia di Farneta. Fondata dai benedettini tra il IX e il X
secolo e dedicata alla Madonna Assunta, l’Abbazia ha una unusuale
forma a T, come molte chiese preromaniche. Secondo l’antica
devozione, le sue absidi sono rivolte ad oriente. Quando la scoprii
era officiata da un vecchio prete, don Sante Felici, che l’aveva
riportata all’antico splendore dopo secoli di incuria e di
devastazioni. La facciata attuale è arretrata di quattordici metri
rispetto all’originaria, che aveva anche un portico di cui restano
poche vestigia. L’edificio venne ridotto alle attuali dimensioni a
metà del settecento, alla fine dell’ottocento fu abbattuta la
torre campanaria, altri scempi seguirono. Don Sante Felici arrivò a
Farneta negli anni ’30, dandosi con amore infinito al ripristino
delle sue bellezze. Quando l’ho conosciuto aveva circa ottanta
anni, adesso è morto. La sua vita è stata una laboriosa,
santificata solitudine. Viveva povero nel casale-canonica annesso
alla chiesa, una volta alla settimana si cucinava un bel po’ di
pasta, giorno per giorno scaldava quella che gli serviva.
Collezionava reperti d’ogni genere trovati o scavati nella campagna
intorno. Nel piccolo, bellissimo museo ordinato in nude, fredde
stanzette, mostrava con fierezza urne funerarie etrusche, statue
romane, terrecotte altomedievali effigianti S.Pietro e S. Paolo, un
Cristo risorto del 17^ secolo, una bella acquasantiera, una tomba
medievale “alla cappuccina” con tutto lo scheletro, e la copia
di uno stampo di quelli usati per fondere le tipiche croci
longobarde. L’originale è altrove, al sicuro, ladri hanno visitato
la canonica. Lo stampo, quadrato con i lati di circa otto centimetri,
ha sulle due facce, in scavo, le sagome della croce latina, con i
bracci svasati. Lo scavo è profondo un tre-quattro millimetri. Gli
orefici longobardi vi versavano dentro oro o argento. Queste croci
longobarde erano bellissime. Nella sagrestia erano anche conservati
reperti della seconda guerra mondiale, nella zona si erano avuti
combattimenti con i partigiani: elmi tedeschi sforacchiati, bossoli
di cannone. Alcuni di quei bossoli, che sono in ottone, erano stati
lavorati in forma e per uso di vaso da fiori.
Don Sante
Felici era un autodidatta, ma esplorava con grande perizia le cave di
sabbia dei dintorni e vi raccoglieva ossa preistoriche. Al Museo
paleontologico di Firenze è conservato lo scheletro di un “Elephas
Meridionalis” o “Antiquus” del Pleistocene, da lui riesumato.
Per questo, era stato nominato sovrintendente onorario per la
Toscana. Ne avevano parlato giornali tedeschi, di cui lui teneva
esposta una copia. Aveva anche prodotto un dizionario del dialetto
cortonese lodato dalla Crusca, e un disco di canti popolari. Quando
era arrivato a Farneta, la cripta, sotto l’abside, era interrata da
secoli. Lui l’aveva riportata alla luce, svuotandola della terra e
degli scheletri e scacciandone le serpi che vi facevano il loro nido.
Tozze colonnine d’età romana dividono la cripta in tre celle con
volte a botte e a crociera. Una è di granito rosa e proviene da
Assuan, due sono di un marmo orientale, un’altra ancora è di marmo
ionico. Hanno interessanti capitelli e presentano, scolpiti qua e là,
caratteri alfabetici e una figura del mitico Acheloo. C’è anche la
stele funeraria di una “Quarta, figlia di Erennio Pompeo liberto”.
Il prospetto posteriore dell’Abbazia è un capolavoro, ha tre
absidi che sporgono dalla liscia superficie di pietra, nitide come
opere di Brancusi, di Max Bill o di Jean Arp. L’architettura
romanica creava geometrie di volumi di grande purezza. Bruno Zevi
diceva che per riconoscere il romanico basta guardare se la chiesa è
asimmetrica nel disegno complessivo e nelle parti: in queste chiese,
sovente, gli spazi dell’intercolumnio e quindi anche gli archi tra
le colonne sono diversi l’uno dall’altro. L’ottocento
positivista fece delle repliche di romanico, ma simmetriche e senza
dissonanze, noiosissime. Dietro ripetute, vigorose insistenze del
vecchio prete, l’azienda elettrica aveva spostato e allontanato i
piloni dell’alta tensione, prima piantati a pochi metri dalla
facciata. Il terreno intorno è argilloso. Se ci cammini quando
l’argilla è bagnata, questa si attacca alle scarpe in zolle
enormi. Don Felici diceva che l’”argilla è amorosa”.
La vanga
La vanga è l’attrezzo
principale dei contadini. E’ una lama di ferro triangolare
appuntita, una costola verticale la irrobustisce ed evita che si
pieghi per la resistenza della terra, della zolla. La costola si
prolunga in una sorta di canale sporgente di una dozzina di
centimetri, nel quale viene inserito un manico di legno, lungo
all’incirca quanto un uomo. Nel manico, a un dieci centimetri sopra
la lama, viene inserita una sbarretta di ferro che sporge per una
dozzina di centimetri. Il contadino poggia la punta dell’attrezzo
in terra, poi con il piede sinistro preme sulla sbarretta e la
pressione fa sì che la sottile lama penetri progressivamente nel
suolo. Si aiuta l’operazione tirando a sé e facendo oscillare, di
tanto in tanto, il manico: così si allarga la fessura nel suolo e si
facilita la penetrazione della vanga. Quando tutta la vanga è
penetrata nel suolo, il contadino tira a sé con forza il manico,
facendo staccare la zolla e rovesciandola, con un movimento analogo a
quello che fa l’aratro. Lungo il taglio prodotto dalla vanga il
suolo è compatto e lucido, sembra metallico. E’ anche profumato.
Un bravo contadino sa usare la vanga in modo che il terreno lavorato
abbia un aspetto uniforme, con le zolle regolarmente allineate l’una
all’altra, senza accavallamenti disordinati. Se la terra non è
stata vangata per lungo tempo, le zolle strappano e portano con sé
anche l’erba che vi è cresciuta, e tra zolla e zolla compare un
bell’effetto di colori, tra il verde e il bruno. La vanga si usa
solo per piccoli orti, giardini, aiole.
Pecione
Pecione ripara le
scarpe. Risuola, o rifà i tacchi, ma la maestria emerge nella
riparazione delle suole, la risuolatura. Talvolta, quando l’usura è
contenuta e il buco è ancora piccolo, lui stesso suggerisce
l’applicazione di una pezza. Pecione gira per il quartiere, si
ferma dove viene chiamato. Mia madre, soprattutto a causa mia, lo
chiama spesso. Per questo, lui suona fiducioso al nostro campanello,
quando si trova dalle nostre parti. Mia madre gli mostra il paio di
scarpe da riparare, tira un po’ sul prezzo, e lui si posta con le
sue carabattole accanto al cancello di casa nostra o all’angolo
della strada, vicino alla fontanella. Per il suo lavoro, ha bisogno
di acqua. Le fontanelle di Roma sono chiamate “nasoni”, perché
l’acqua sgorga da un lungo cannello ricurvo. L’acqua è sempre
fresca, un tempo era “Acqua Marcia”, la migliore acqua del mondo.
Pecione mette a mollo, sotto il nasone, un pezzo di cuoio - un po’
più grande della suola o del tacco da riparare - ritagliato dal
rotolo che porta con sé, legato a una cordicella. Lo ritaglia con la
lesina, dalla lama a sguincio affilata come un rasoio. Intanto ha
sistemato le cose che aveva a spalla: un seggiolino di paglia, un
grosso sacco di pelle con gli attrezzi, il rotolo di cuoio, d’un
color tabacco chiaro e ancora le venature superficiali della bestia
viva. Ritira il pezzo ammollato, si siede sullo sgabellino e comincia
a batterlo col martello su una minuscola incudine delle dimensioni di
un piede, ben stretta tra le ginocchia. Il martello dei calzolai ha
una forma strana e bellissima. La testa di ferro ha due ali, o penne,
lievemente incurvate: una sembra proprio un becco d’anatra
fessurato (il martello è detto “a granchio”) e serve per
estrarre le bollette, l’altra invece termina in un disco con il
quale il calzolaio batte su chiodi e bollette. Pecione batte a lungo
il pezzo di cuoio per renderlo più compatto e resistente, e lo
adatta alla scarpa rifilandolo tutto intorno con la lesina. Ha
strappato via la suola vecchia, la nuova sta lentamente prendendo
forma. Sempre con la lesina, scava una millimetrica fessura tutto in
giro, a un centimetro dal suo bordo. Estrae quindi dal sacco un
grosso fiocco di canapa o refe grezzo da cui separa lunghi filamenti
che arrotola in due sottili spaghi passandoli e ripassandoli, con un
mezzo guanto di cuoio ammorbidito dall’uso, prima su un blocco di
cera rossastra e poi sul logoro grembiulone di pelle. Inserisce
quindi un crine di cavallo ad una delle estremità dei due spaghi. Li
farà ora scivolare - contemporaneamente, uno da una parte uno
dall’altra - nei piccoli fori che viene praticando nella
scanalatura con un punteruolo ricurvo. Ripete l’operazione tutto
intorno stringendo a sé ogni volta, con forza, gli spaghi, finché
la suola è saldamente cucita alla tomaia. Rifinisce poi il bordo con
la carta vetrata. Il bambino osserva, gli occhi sgranati. La memoria
è un fossile.
Riparare il tacco è
operazione molto più semplice. Si applicano sul tacco uno o due
strati di cuoio, tagliati anch’essi su misura, e li si imbulletta.
Pecione tiene le bollette in bocca per insalivarle e renderle più
scorrevoli. Sia sulle suole che sui tacchi appena applicati, Pecione
spalma il bordo con un po’ di cera e di vernice, usando un piccolo
attrezzo dalla testa gonfia e curva, che ha messo a scaldare sulla
fiamma di un candelotto fatto con una lattina. Il calore scioglie la
cera e la vernice. L’ultima operazione consisterà nel passare
sulla suola o sul tacco una rapida mano di vernice nera o marrone,
lucidandola con uno straccetto. La scarpa è tornata proprio come
nuova.
L’ombrellaio
L’ombrellaio
ha, a tracolla, una grossa cassetta di legno, quadrata o
rettangolare, lunga sessanta-settanta centimetri, larga
venti-venticinque. E’ chiusa da una stringa di cuoio forato che si
incastra in un qualche piolo piantato sul fianco ed è portata a
tracolla grazie a una cinta di cuoio o un pezzo di nastro per le
persiane. Il legno è scomparso sotto strati di sporcizia grigiastra.
Dentro la cassetta, un martello, un tronchesino, due o tre pinze
piccole e una un po’ più grande, con le estremità a punta
arrotondata, come un becco. Poi, rocchetti di refe, qualche
barattolino di colla, un rotolo di fil di ferro, striscioline di
latta dei barattoli di pomodoro. Sempre a tracolla, sull’altra
spalla, vecchi fusti di ombrello di varie fogge, con o senza il
manico, tenuti assieme a fascio. Può anche avere, a piacimento,
altri ombrelli integri, sciolti o in un altro mazzo. Gira per il
quartiere, quando qualcuno gli porta l’ombrello da aggiustare, lui
si siede sopra la sua cassetta dopo averne tirato fuori gli attrezzi.
La maggior parte delle rotture da riparare è nelle stecche. Gli
ombrelli di oggi sono piccoli, hanno stecche ripiegabili, come il
mantice delle spider di lusso, sono rimasti pochi gli ombrelli
lunghi, con la stecca unica, generalmente nera, terminante comunque
sempre nel pirolino staccabile, che sembra il pedone di un gioco di
scacchi. Le stecche possono essere in tondino di acciaio oppure in
lamierino sottile, piegato ad “u” squadrato. Le rotture avvengono
nelle giunture tra le stecche e le barrette che le uniscono al fusto.
La riparazione consiste nell’inserire, nei forellini della
giuntura, sottili segmenti di fil di ferro che poi vengono serrati.
Le stecche tornano a piegarsi correttamente, evitando che la barretta
si infili di nuovo nella stoffa. Qualche volta il manico si stacca
dal fusto, oppure il fusto si spezza. Se è di legno, si potranno
rincollare le due parti, altrimenti occorre cambiarlo con uno di
quelli portati a tracolla. A volte, anche, l’ombrello perde il
puntale che è in fondo al fusto. L’ombrellaio ne ha sempre
qualcuno di riserva, usato, nella cassetta, da sostituire al
mancante. Può anche essere necessario applicare un nuovo pirolino in
cima alla stecca, per evitare che questa ti acciechi, quasi fosse
diventata un fioretto da scherma. Gli ombrelli d’un tempo avevano
l’impugnatura in legno, in bambù, in metallo, o anche in avorio
scolpito, in foggia di testa di cane o altro. Gli ombrelli di oggi
non si aggiustano, si buttano via. Sono per lo più fabbricati in
Cina. L’ombrellaio è stato rovinato dall’avvento della plastica.
Un tempo, faceva anche l’aggiustatore di piatti, ciotole, vasi e
terrecotte. Arrivava con il suo lento passo, gridando forte:
“Ombrellaio! Concoline da accomodare!” La “o” e la “e”
finali venivano prolungate e tenute sospese, con una inflessione
nasale caratteristica. L’inflessione nasale era l’”insegna”
dell’ombrellaio. Dovevi essere un vero uomo del mestiere per saper
dare quell’inflessione nasale così unica. Le donne, quando la
sentivano, scendevano precipitosamente per strade, portando
l’ombrello, il piatto o il coccio da accomodare. Accomodare piatti
e cocci era molto difficile. Nella novella “La giara”, Pirandello
racconta come si aggiustano i grandi orci da olio, ma quello è un
lavoro grezzo di fronte alla sottile tecnica dell’aggiustare un
piccolo piatto. L’ombrellaio d’un tempo metteva i due pezzi a
combaciare, poi praticava dei forellini minuscoli sulle due parti, in
corrispondenza esattissima, forellino con forellino. Per fare questi
forellini usava un trapano a mano, identico a quello usato nella
preistoria dall’homo habilis. Si tratta di una asticella, in cima
alla quale viene saldamente applicata una punta aguzza, spesso fatta
con un pezzetto di stecca d’acciaio da ombrello. A un quarto dalla
estremità con la punta è incastrato un disco, di legno con bordi di
piombo. Più su, c’è una sbarretta orizzontale forata, che può
scorrere su e giù lungo l’asticella. Alle due estremità ha una
robusta cordicella, fissata all’estremità dell’asticella.
Facendo rapidamente scorrere su e giù la sbarretta, questa
trasmette, grazie alla cordicella, un moto rotatorio all’asticella,
e la punta può così perforare la terracotta. Nei forellini veniva
infilata una grappetta di sottilissimo fil di ferro, insieme a
qualche goccia di colla. Con un piccolo martello si mette in perfetta
posizione la graffetta. Di queste graffette a volte sono necessarie
molte. Quando la colla si è asciugata, il piatto o la concolina è
aggiustato. Si fa la prova riempiendola d’acqua, che non dovrebbe
uscire né filtrare.
Nessun commento:
Posta un commento