W
IL WESTERN
(da
“Il Foglio”)
Una
parola è come un brillante dalle lucenti sfaccettature: a leggerla
controluce, oltre a quello corrente e d'uso, rivela molti altri
significati meno visibili e riconoscibili, spesso inaspettati e
sorprendenti, persino lontani tra loro. Attraversando i secoli,
logorandosi nell'uso, confrontandosi con il contesto, ci sono parole
che hanno dato origine ad altre dal significato anche opposto alla
radice originaria. Seguire queste avventure semantiche è un piacere
raffinato, si fanno straordinarie scoperte, è un percorso
attraverso - come dire - paesaggi mentali diversi e inconsueti.
Ringraziamo la filologia che ce lo permette.
Senza
far ricorso ad un aiuto così impegnativo, mi è venuto di fare
queste considerazioni scorrendo, sul numero di ottobre della rivista
“L'indice dei libri del mese”, il box che Bruno Bongiovanni
dedica al termine “western”. Il box di Bongiovanni è una rubrica
fissa - titolo: “Babele: Osservatorio sulla proliferazione
semantica” - dedicata ogni numero ad una parola, un termine, di
cui ci fa seguire le vicende storiche e i risvolti culturali. La
parola, il termine che ha dato la stura alle mie considerazioni era
“western”, cioè “occidentale”. Di “ceppo germanico”, ci
spiega Bongiovanni, lo si trova già in Shakespeare e in Milton con
significati “intrecciati” e “diversi”. In America, “western”
è ciò che è “coming from the west”. “Vi è chi lo osserva
dall'Est, da quell'area atlantica ospitante le 13 colonie che (…)
danno vita agli Stati Uniti”: e costui scorge “spazi enormi”
con “pionieri, avventurieri, rangers, cercatori d'oro e di altre
ricchezze, mandriani, coltivatori, uomini d'affari, gente in grado di
trasformare il deserto in giardino, combattenti contro le tribù
indiane, outlaws, sceriffi, eroi...”. Bongiovanni vuole soprattutto
evidenziare l'approdo finale della parola, il suo indicare, ormai
stabilmente ed esclusivamente, quel notissimo genere di film, nato ai
primi del novecento, che narra avventure o vicende accadute nel
“west”, raccontate dapprima da cinematografari americani, poi
anche da seguaci e imitatori: in prima fila gli italiani, creatori
dello “spaghetti western”, appunto.
Lo
stesso Bongiovanni ricorda che il termine era stato impiegato con
altre accezioni: “l'impero occidentale sorto nel 395 d.C.” o -
infine - “la parte d'Europa alleata degli USA nel corso della
guerra fredda...”, ecc. Non fa menzione però (ma si capisce, è
uno storico e la metafisica non è nel suo mirino) di un altro
significato che a me pare fondamentale e anche stuzzicante : nella
corrente (e corriva) geografia culturale europea, l'”occidente” è
l'ambito, la dimensione specifica - addirittura - di un modo di
essere dello spirito umano. Il termine, che nell'accezione andrà
scritto con la maiuscola, definisce e ritaglia quell'ambito
geografico e storico che ha come suo centro l'Europa, con qualche
frangia anche al di là dell'Atlantico, ma subito salta al
significato geografico ad un altro, di genitura filosofica e
metafisica. In questa versione, nell'ultimo secolo all'incirca, ha
goduto di pessima fama. L'”Occidente” è stato denunciato come la
sede, la sorgente di tutti i mali che affliggono i nostri tempi: la
scristianizzazione, il relativismo, l'individualismo, la tecnica, la
“crisi dei valori”... Per queste sue negatività è destinato al
tramonto, anzi - con termine usato solo in questo contesto altamente
specialistico - all'Untergang”. In un suo recente saggio - “Cosa
resta dell'Occidente” - Gian Enrico Rusconi rielabora puntualmente
le tesi di quanti hanno indagato sul tema: in tutte, “Occidente”
è termine metastorico e metafisico, maledetto come modello negativo
e da ripudiare, a causa del quale sono inevitabili diagnosi
ultrapessimistiche sul destino dell'intera civiltà.
Lo
avrete notato anche voi, l'occidente del “western” ci parla in
positivo. I suoi paesaggi ci dipingono orizzonti superbi, libertà
sconfinate, una selvaggia, indomita bellezza; i suoi personaggi,
lineari e quasi sempre privi di psicologia, sono eroi di una lotta
nella quale il bene finisce sempre per trionfare. Per l'americano, il
west - l'occidente - è il miraggio, l'ambiente eletto del suo sogno
esistenziale e anche civile. Per l'europeo, l'occidente evoca invece
tristezza, sconfitta, angoscia. L'occidente a cui lui si rivolge è
un paesaggio ideale caro ai filosofi, a filosofi di un particolare
filone, forse però esaurito o almeno in via di estinzione. Ma
davvero, come costoro ci predicano, dobbiamo investire questo termine
di tante responsabilità, attribuirgli un valore assoluto,
metastorico? Scherzando e ironizzandoci un po', potremmo, o meglio
dovremmo ricordare che l'occidente è tale - sempre e solo - in
relazione ad un oriente, e può a sua volta diventare o essere visto
come l'oriente di un occidente ancora più lontano, più - per
capirci - ad ovest. In quest'ottica, relativizzato e storicizzato,
non dovrebbe fare più paura come non fa paura - anzi -
all'americano. E per intanto, tra Buffalo Bill e Schopenhauer, voi
chi scegliereste?
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