giovedì 8 novembre 2012



W IL WESTERN
(da “Il Foglio”)

Una parola è come un brillante dalle lucenti sfaccettature: a leggerla controluce, oltre a quello corrente e d'uso, rivela molti altri significati meno visibili e riconoscibili, spesso inaspettati e sorprendenti, persino lontani tra loro. Attraversando i secoli, logorandosi nell'uso, confrontandosi con il contesto, ci sono parole che hanno dato origine ad altre dal significato anche opposto alla radice originaria. Seguire queste avventure semantiche è un piacere raffinato, si fanno straordinarie scoperte, è un percorso attraverso - come dire - paesaggi mentali diversi e inconsueti. Ringraziamo la filologia che ce lo permette.

Senza far ricorso ad un aiuto così impegnativo, mi è venuto di fare queste considerazioni scorrendo, sul numero di ottobre della rivista “L'indice dei libri del mese”, il box che Bruno Bongiovanni dedica al termine “western”. Il box di Bongiovanni è una rubrica fissa - titolo: “Babele: Osservatorio sulla proliferazione semantica” - dedicata ogni numero ad una parola, un termine, di cui ci fa seguire le vicende storiche e i risvolti culturali. La parola, il termine che ha dato la stura alle mie considerazioni era “western”, cioè “occidentale”. Di “ceppo germanico”, ci spiega Bongiovanni, lo si trova già in Shakespeare e in Milton con significati “intrecciati” e “diversi”. In America, “western” è ciò che è “coming from the west”. “Vi è chi lo osserva dall'Est, da quell'area atlantica ospitante le 13 colonie che (…) danno vita agli Stati Uniti”: e costui scorge “spazi enormi” con “pionieri, avventurieri, rangers, cercatori d'oro e di altre ricchezze, mandriani, coltivatori, uomini d'affari, gente in grado di trasformare il deserto in giardino, combattenti contro le tribù indiane, outlaws, sceriffi, eroi...”. Bongiovanni vuole soprattutto evidenziare l'approdo finale della parola, il suo indicare, ormai stabilmente ed esclusivamente, quel notissimo genere di film, nato ai primi del novecento, che narra avventure o vicende accadute nel “west”, raccontate dapprima da cinematografari americani, poi anche da seguaci e imitatori: in prima fila gli italiani, creatori dello “spaghetti western”, appunto.

Lo stesso Bongiovanni ricorda che il termine era stato impiegato con altre accezioni: “l'impero occidentale sorto nel 395 d.C.” o - infine - “la parte d'Europa alleata degli USA nel corso della guerra fredda...”, ecc. Non fa menzione però (ma si capisce, è uno storico e la metafisica non è nel suo mirino) di un altro significato che a me pare fondamentale e anche stuzzicante : nella corrente (e corriva) geografia culturale europea, l'”occidente” è l'ambito, la dimensione specifica - addirittura - di un modo di essere dello spirito umano. Il termine, che nell'accezione andrà scritto con la maiuscola, definisce e ritaglia quell'ambito geografico e storico che ha come suo centro l'Europa, con qualche frangia anche al di là dell'Atlantico, ma subito salta al significato geografico ad un altro, di genitura filosofica e metafisica. In questa versione, nell'ultimo secolo all'incirca, ha goduto di pessima fama. L'”Occidente” è stato denunciato come la sede, la sorgente di tutti i mali che affliggono i nostri tempi: la scristianizzazione, il relativismo, l'individualismo, la tecnica, la “crisi dei valori”... Per queste sue negatività è destinato al tramonto, anzi - con termine usato solo in questo contesto altamente specialistico - all'Untergang”. In un suo recente saggio - “Cosa resta dell'Occidente” - Gian Enrico Rusconi rielabora puntualmente le tesi di quanti hanno indagato sul tema: in tutte, “Occidente” è termine metastorico e metafisico, maledetto come modello negativo e da ripudiare, a causa del quale sono inevitabili diagnosi ultrapessimistiche sul destino dell'intera civiltà.

Lo avrete notato anche voi, l'occidente del “western” ci parla in positivo. I suoi paesaggi ci dipingono orizzonti superbi, libertà sconfinate, una selvaggia, indomita bellezza; i suoi personaggi, lineari e quasi sempre privi di psicologia, sono eroi di una lotta nella quale il bene finisce sempre per trionfare. Per l'americano, il west - l'occidente - è il miraggio, l'ambiente eletto del suo sogno esistenziale e anche civile. Per l'europeo, l'occidente evoca invece tristezza, sconfitta, angoscia. L'occidente a cui lui si rivolge è un paesaggio ideale caro ai filosofi, a filosofi di un particolare filone, forse però esaurito o almeno in via di estinzione. Ma davvero, come costoro ci predicano, dobbiamo investire questo termine di tante responsabilità, attribuirgli un valore assoluto, metastorico? Scherzando e ironizzandoci un po', potremmo, o meglio dovremmo ricordare che l'occidente è tale - sempre e solo - in relazione ad un oriente, e può a sua volta diventare o essere visto come l'oriente di un occidente ancora più lontano, più - per capirci - ad ovest. In quest'ottica, relativizzato e storicizzato, non dovrebbe fare più paura come non fa paura - anzi - all'americano. E per intanto, tra Buffalo Bill e Schopenhauer, voi chi scegliereste?


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