SCIASCIA,
UN LAICO, LA CHIESA
da
“Il Foglio”
“Todo
modo” (1974) è forse il romanzo più riflessivo e tormentoso, se
non tormentato, di Sciascia: fin dall'epigrafe,
quel mirabile passo di Dionigi Aeropagita che sostiene
l'impossibilità di dare una definizione della “causa buona di
tutte le cose”; causa che è “insieme esprimibile con molte
parole, con poche e anche con nessuna”, in quanto di essa “non vi
è discorso né conoscenza, poiché tutto trascende in modo
soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente a coloro che
trapassano tanto le cose impure che quelle pure (...) e si immergono
nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che
è sopra tutte le cose...” e così via, negazione dietro negazione,
perché quella “causa buona” “non è tenebra e non è luce, non
è errore e non è verità...”. Penso che già con questa
straordinaria citazione Sciascia voglia avvertirci che le pagine che
seguiranno saranno intese a sciogliere un qualche mistero
dell'esistere e vivere umano nel suo confronto con l'ineffabile
principio “di tutte le cose”: irraggiungibile, infinitamente
lontano ma anche presente e incombente. Parla di Dio? Probabile: o
forse il laico ed illuminista Sciascia usa l'allucinato testo in modo
allusorio, ambiguo e beffardo.
“Todo
modo” l'ho ripreso in mano, assieme a tutte le opere dello
scrittore di Racalmuto, per discuterne ad un recente convegno, curato dalla Associazione "Amici di Sciascia" e svoltosi a Palermo, nel quale si sono affrontati interrogativi molto
sciasciani: “Quid est veritas?”, “Quid est religio”?, “Quid
est mors”? La trama è, come sempre nei suoi romanzi, scheletrica. Un pittore, di cui non ci è riferito il nome, durante
una gita in macchina si imbatte in un “eremo”, “l'Eremo di
Zafer 3”. L'eremo è in realtà
un albergo, gestito da preti, dove si tengono periodicamente “ritiri
spirituali” - per personalità del mondo clericale, politico o
affaristico - che diventano occasione per stringere rapporti di
affari, o per concedersi riservatissimi intrattenimenti erotici.
Sciascia ritrae efficacemente ambienti e situazioni tipiche di quegli
anni lontani, con la DC al governo e un boom economico che consentiva
facili e spregiudicati arricchimenti. Tra gli ospiti, il pittore
intravede anche un “Principe della Chiesa”, un ministro... Ma, ad
un certo punto, uno dei partecipanti al ritiro viene ammazzato, ed
ecco subito dispiegarsi tutto l'apparato del giallo sciasciano. Al
primo assassinio segue un altro. Il pittore ne discute, soprattutto
con il gestore dell'albergo, un prete, don Gaetano. E qui il
romanzetto giallo si accende di lampi improvvisi, di altezza
metafisica, perché la conversazione tra i due è un susseguirsi di
sottili giudizi e splendidi concetti. Il don Gaetano affarista,
manutengolo e anche un po' ruffiano, si rivela uomo colto e
raffinato, ma anche cinico e sarcastico, un tra Montaigne e Rabelais:
“Perché, me ne confesso, la contemplazione dell'imbecillità è il
mio vizio, il mio peccato... Proprio: la contemplazione...Giulio
Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico, riconosceva la
grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il
firmamento. Io la riconosco dall'imbecille. Non c'è niente di più
profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più
inattingibile...” Don Gaetano sa di pittura, cita Montale, il
“cristiano” Sade, persino Papa Pio II Piccolomini, “un eroe
stendhaliano avant la lettre”...
“Toto
modo” fu criticato aspramente dagli ambienti clericali, l'immagine
che dava della Chiesa era inaccettabile. Nel convegno palermitano si
è convenuto che in effetti lo scrittore condanna la corruzione della
chiesa e dei suoi rappresentanti, rivolgendo le sue preferenze ad una
religiosità purificata, per la quale ci si è richiamati anche a
Ernesto Buonaiuti, il sacerdote scomunicato e perseguitato in quanto
modernista. In questo vario discorrere, Sciascia non si distingue da
un comune sentire anticlericale assai diffuso tra l'intellettualità
di sinistra, progressista. Ma proprio attraverso la figura di Don
Gaetano lo scrittore ci dà un giudizio del ruolo della Chiesa e dei
suoi rappresentanti e officianti assai più profonda. “La grandezza
della Chiesa - osserva Don Gaetano - la sua transumanità, sta nel
fatto di consustanziare una specie di storicismo assoluto:
l'inevitabile e precisa necessità, l'utilità sicura, di ogni evento
interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la serve e la
testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutazione e
successione”. Una interpretazione che sarebbe piaciuta ad Ignazio
di Loyola, calibrata però subito da un inciso del più puro Pascal:
”Le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive
che i suoi dubbi”. La Chiesa è, in definitiva, “una zattera, la
zattera della Medusa, se si vuole; ma una zattera”. Don Gaetano
però è anche altro, la sua immagine si rovescia ancora: infatti è
un assassino. E, ovviamente, viene assassinato. Il suo uccisore non
viene scoperto, la sua morte resta circondata dal dubbio. Non sarà
Dionigi l'Areopagita, ma in queste pagine Sciascia sprofonda nella
densità del mistero. Vedi un po' in che intrico può cacciarsi un
vero laico...
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