sabato 24 novembre 2012



SCIASCIA, UN LAICO, LA CHIESA

da “Il Foglio”

Todo modo” (1974) è forse il romanzo più riflessivo e tormentoso, se non tormentato, di Sciascia: fin dall'epigrafe, quel mirabile passo di Dionigi Aeropagita che sostiene l'impossibilità di dare una definizione della “causa buona di tutte le cose”; causa che è “insieme esprimibile con molte parole, con poche e anche con nessuna”, in quanto di essa “non vi è discorso né conoscenza, poiché tutto trascende in modo soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente a coloro che trapassano tanto le cose impure che quelle pure (...) e si immergono nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che è sopra tutte le cose...” e così via, negazione dietro negazione, perché quella “causa buona” “non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità...”. Penso che già con questa straordinaria citazione Sciascia voglia avvertirci che le pagine che seguiranno saranno intese a sciogliere un qualche mistero dell'esistere e vivere umano nel suo confronto con l'ineffabile principio “di tutte le cose”: irraggiungibile, infinitamente lontano ma anche presente e incombente. Parla di Dio? Probabile: o forse il laico ed illuminista Sciascia usa l'allucinato testo in modo allusorio, ambiguo e beffardo.

Todo modo” l'ho ripreso in mano, assieme a tutte le opere dello scrittore di Racalmuto, per discuterne ad un recente convegno, curato dalla Associazione "Amici di Sciascia" e svoltosi a Palermo, nel quale si sono affrontati interrogativi molto sciasciani: “Quid est veritas?”, “Quid est religio”?, “Quid est mors”? La trama è, come sempre nei suoi romanzi, scheletrica. Un pittore, di cui non ci è riferito il nome, durante una gita in macchina si imbatte in un “eremo”, “l'Eremo di Zafer 3”. L'eremo è in realtà un albergo, gestito da preti, dove si tengono periodicamente “ritiri spirituali” - per personalità del mondo clericale, politico o affaristico - che diventano occasione per stringere rapporti di affari, o per concedersi riservatissimi intrattenimenti erotici. Sciascia ritrae efficacemente ambienti e situazioni tipiche di quegli anni lontani, con la DC al governo e un boom economico che consentiva facili e spregiudicati arricchimenti. Tra gli ospiti, il pittore intravede anche un “Principe della Chiesa”, un ministro... Ma, ad un certo punto, uno dei partecipanti al ritiro viene ammazzato, ed ecco subito dispiegarsi tutto l'apparato del giallo sciasciano. Al primo assassinio segue un altro. Il pittore ne discute, soprattutto con il gestore dell'albergo, un prete, don Gaetano. E qui il romanzetto giallo si accende di lampi improvvisi, di altezza metafisica, perché la conversazione tra i due è un susseguirsi di sottili giudizi e splendidi concetti. Il don Gaetano affarista, manutengolo e anche un po' ruffiano, si rivela uomo colto e raffinato, ma anche cinico e sarcastico, un tra Montaigne e Rabelais: “Perché, me ne confesso, la contemplazione dell'imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio: la contemplazione...Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico, riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il firmamento. Io la riconosco dall'imbecille. Non c'è niente di più profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile...” Don Gaetano sa di pittura, cita Montale, il “cristiano” Sade, persino Papa Pio II Piccolomini, “un eroe stendhaliano avant la lettre”...

Toto modo” fu criticato aspramente dagli ambienti clericali, l'immagine che dava della Chiesa era inaccettabile. Nel convegno palermitano si è convenuto che in effetti lo scrittore condanna la corruzione della chiesa e dei suoi rappresentanti, rivolgendo le sue preferenze ad una religiosità purificata, per la quale ci si è richiamati anche a Ernesto Buonaiuti, il sacerdote scomunicato e perseguitato in quanto modernista. In questo vario discorrere, Sciascia non si distingue da un comune sentire anticlericale assai diffuso tra l'intellettualità di sinistra, progressista. Ma proprio attraverso la figura di Don Gaetano lo scrittore ci dà un giudizio del ruolo della Chiesa e dei suoi rappresentanti e officianti assai più profonda. “La grandezza della Chiesa - osserva Don Gaetano - la sua transumanità, sta nel fatto di consustanziare una specie di storicismo assoluto: l'inevitabile e precisa necessità, l'utilità sicura, di ogni evento interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la serve e la testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutazione e successione”. Una interpretazione che sarebbe piaciuta ad Ignazio di Loyola, calibrata però subito da un inciso del più puro Pascal: ”Le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi”. La Chiesa è, in definitiva, “una zattera, la zattera della Medusa, se si vuole; ma una zattera”. Don Gaetano però è anche altro, la sua immagine si rovescia ancora: infatti è un assassino. E, ovviamente, viene assassinato. Il suo uccisore non viene scoperto, la sua morte resta circondata dal dubbio. Non sarà Dionigi l'Areopagita, ma in queste pagine Sciascia sprofonda nella densità del mistero. Vedi un po' in che intrico può cacciarsi un vero laico...

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