sabato 3 novembre 2012


U N  F L A I A N O  A  O S T I A


Guardala lì: sempre sul palcoscenico, lei. E guarda lì come l'applaudono, appena si china a baciare sulla guancia un fotografo e poi avanza, verso la spiaggia e il mare - che mare, scoppiettante di luci e di riflessi!... Guardala lì. Ma chi crede di essere, dico io: anzi, chi è, che alla fin fine di lei si sa solo quello che ci ha raccontato sullo schermo, mica con le parole, mica col copione, ma col corpo, e in primo luogo con quel volto straordinario - un po’ spigoloso, con gli occhi troppo scuri dentro l'ombretto straripante - il volto a forma di cuore di una che in amore prende lei l'iniziativa. Dio, che donna. Per lei ci vorrebbe il cazzo di Saturno. Un cazzo infaticabile, divino, per soddisfarla, placarla finalmente…

Commendatore. Commendatore, ne facciamo una storia?” “Una storia? Che storia?"

Una storia, un film, con quella là. Ascolti, commendatore. Io già la vedo, la scena, una scena favolosa…Chiuda gli occhi, commendatore, e mi segua: un campo lungo, e siamo lassù sull'Olimpo, e sull'Olimpo c’è Saturno, il padre di tutti gli dei...” “Saturno? Mi piace. Saturno o Maciste vanno sempre, è roba forte. Ma quella? Come c’entra, in questa storia?" “Scelga lei la parte, commendatore: Deianira, Leda, Medea, Europa - chissà quale va bene, mi piacerebbe chiederlo a Flaiano, si vedrà". "Per carità, niente operazioni filologiche! Per carità! As-so-lu-ta-men-te niente operazioni filologiche. Eh, mi raccomando". “Stia tranquillo, commendatore”. Niente filologia, dice lui. Ma chi è lui? Il produttore, vabbè - però anche per fare un polpettone su Maciste uno deve imbarcarsi in situazioni storiche, e non fa nulla se credibili o meno, poi della filologia me ne sbatto anch’io, lo so che contano solo i primi piani e i campi lunghi, le zumate e i tagli, i tempi e il montaggio, questo conta e su questo tu ci inzuppi il pane, sono i tuoi ferri del mestiere. “Niente paura, commendatore, lasci fare a me”.

Dunque, sì. Ma adesso guardala lì che rientra, guardala, è davvero unica. E io ne sono geloso, è mia - spiritualmente, si intende! - per come l'ho catturata e plasmata, l’ho fatta quella che è. Lei però di me se ne frega. Succede, con queste stronze, che alla fine non riesci a giostrarci più, non capiscono più quello che gli chiedi. Ma adesso vedremo, con questa storia la incastro e me la riprendo, sicuro. Intanto guardala, come affascina 'sta folla, 'st'ammucchiata di gente beota che fa mistico semicerchio mentre lei si infila le scarpe sui piedi bagnati e resta lì, scosciata. E fa pure cenno - zitti tutti! - vuole parlare, e quelli lì, attorno, con gli occhi torvi, figurarsi. Che ci avrà mai da dire. Guardala: accetta golosamente il saluto, gli occhi strabuzzati: non ha bisogno di emozionarsi, lei è superiore a tutto e a tutti ma gli piace follemente l'ossequio, il clamore un po' stupefatto dell'applauso. Anche l'invidia: che del resto fa bene, lo sanno tutti, può essere dolce…

Allora, dove ero rimasto? Ah, ecco: c’è Saturno lassù sull'Olimpo. Il ciak apre su di lui sul trono, circondato da gente, gli dei, i coppieri con ali e tutto. Uno stacco, e subito il primo piano di lei: lì, seduta sulla roccia, ad aspettare. Che aspetta? Ma è ovvio, e da qui parte la mia storia: aspetta il dio, un dio che verrà a sedurla, a chiavarla. Sta lì ad aspettare lui, il dio abbiamo detto… Ma no, no, che dico, così non va, troppo facile. Mica lo so veramente che racconta 'sta storia, come va a finire. Però, sicuro, noi la faremo meglio di “Ben Hur”, quell’americanata di Wyler. Sarà il meglio di tutti gli Ulisse e i Maciste e i pepli dello schermo. Bello realizzarla come la vedrebbe Flaiano, e non come pretenderà - figurarsi - ‘sto produttore, tutti ‘sti mediocri. Comunque, intorno, mare di sfondo, tanto mare. Questo mare, naturalmente, niente Caraibi. Buongiorno Ostia: vivranno di nuovo, giuro, tutti i tuoi miti. Sono i miei fantasmi. Bella spiaggia, Ostia. Un tempo. Che nostalgia. Da ragazzino ci venivo in macchina con gli zii, loro erano ricchi e mia madre invidiosa diceva che erano dei profittatori. Allora chiunque fosse ricco era un profittatore, per gente come noi senza un soldo in tasca. Col fascismo nacque l'invidia piccoloborghese, io la sentivo palpabile, in famiglia. Io però a Ostia ci venivo in macchina, mi ci portavano questi zii, ricchi e un po’ pietosi verso di noi. Che mia madre odiava, per invidia. Andai. Loro mi portavano con sé al mare, a Ostia, perché loro ce l’avevano, la macchina. Tornavamo la sera, la notte anche - c'era una strada lunga e dritta che a me, nella luce dei fari, sembrava enormemente lunga - tornavamo con nel naso l'odore dell'erba fresca che entrava dal finestrino. Mi addormentavo, felice e triste di essere un po' ricco anch'io. Ostia nasceva col fascismo, così.

Che c'entra questo, col cinema? Ma per me il cinema è solo nel ricordo di quegli anni. L'unico cinema che per me conti, è l'ossessione di quegli anni. Arrivare qui, a Ostia, a quel mare di allora, era meraviglioso, altro che Fregene, Fellini e “La dolce vita”. L'odore acre della salsedine ti bruciava il naso e le gambe cominciavano a pizzicare dieci chilometri prima. E gli stabilimenti, il Battistini, il Duilio, il mitico Plinius! E le mille esistenze, i minuscoli crostacei, granchi d’ogni dimensione, lumache di mare, che brulicavano oppure si spappolavano e l'odore di marcio putrefatto si mescolava con lo sfrigolare della schiuma salata, delle alghe ammucchiate. E gli insetti. A milioni, sulla superficie della sabbia come sull'acqua di uno stagno, veloci e affannati, lasciavano le loro impronte parallele, si infilavano in buche appena scavate e d'improvviso, zac!, ti spruzzavano addosso, negli occhi, granelli di sabbia. Iridescenti, come proiettili, una mitragliata. Io mi sentivo come il gigante... E il primo sguardare le donne, seminude, brune, sudate, senza sapere cosa dovessi fare, cosa fare con loro, di loro, e il dolore dello smarrimento adolescenziale: misteriose, bellissime e irraggiungibili, sempre.

Lei, quella lì, dove l’abbiamo lasciata? Lei, lei, sempre lei. Ma certo ci deve essere lei con la sua parte da protagonista, lei ancora e sempre, fino in fondo, fino alla feccia: lei sarà il centro di questa storia. Che nasce da lei, diciamocelo, dal suo ventre, dalla sua fica. Bisogna farlo sentire, e magari presentire, con qualcosa che richiami per analogia, che so, i suoi occhi, il loro colore, o magari la curva del culo, lì, che si sovrappone a un'onda alta, grande, gigantesca in primo piano, prima che piombi giù, ritornata liquida, sfatta, intensamente ostile, in fondo; anche questo farò sentire, si dovrà sentire senza che si avverta, però, che l'ostilità è diretta contro di lei. Proprio no, lei deve uscirne pura e casta, desiderata e desiderabile castamente. “Sarà fantastica, commendatore. Pure adolescenziale”. "Possibile?" “Certo che sarà possibile, commendatore. Mi creda, adolescenziale”.

Facciamo così, invece: Saturno geme. Sì, Saturno geme. Geme, urla, perché qualcuno - invidioso, o geloso - si è vendicato. Sarà il Fato, saranno le Parche, e - zac - glie lo taglia, glie lo ha tagliato, il grande cazzo, e lo getta di lassù nel mare. Roba da Eschilo. O Sofocle, vedremo, lo chiedo a Flaiano…E cadendo, quel cazzo divino, immenso, piombato dal cielo, tagliato via da Saturno, dal padre degli dei, figurati!, e figurarsi quindi che cazzo immenso!, ecco, ecco, tutto a un tratto comincia a schizzare fuori sperma. Una colata, una fiumara di sperma, bianco, iridescente, magmatico, qualcosa tra la galantina di pollo e le vernici acriliche, una marea lattescente, una via lattea; una nuvolaglia ilare che quando esce, quando è eruttata dal cazzo immenso, sfiata, borbotta, sibila, schizza, si effonde, fluisce torbida e giallastra, però luminosa in fondo, è lo sperma di un dio, anzi di Saturno che è il padre di tutti gli dei, e quindi figurarsi come deve essere cristallino. E quanto, anche; perché se Saturno ha la zazzerona, barba e capelli fluenti e bianchi, la sua possanza è però ancora infinita, come quella di un giovanetto, di un poco più che adolescente, quasi vergine, alle sue prime eiaculazioni da uomo, represse e controllate, e infine gloriose e irrefrenabili, insomma una fontana divina che schizza nel cielo e lo macchia e lo corrompe, certo, ma lo corrompe perché lo feconda, lo feconda con ogni sua gocciolina, con ogni schizzo, sprazzo, stroscio; tutto viene fecondato da quella fontana, da quel fontanile divino, che eccita persino l'aria e la fa vibrare...

e allora, ecco che su questo mare accidioso, inerte, bruto, vuoto, in questo cielo immenso ma stupido, comincia a risuonare un incanto di suono. E' la musica! Il cielo, schiaffeggiato dall'immensa vernice celeste, comincia a vibrare di un vento nuovo e inaspettato, vergine, leggero, modulato: è la musica, il concento divino delle note che si aprono, si distendono, si allineano una dietro l'altra, in scale, in fraseggi, in motivetti, in cascatelle ridenti e consonanti.

Quel vuoto, la cavità dei cieli, deserta prima della prima eiaculazione, naturalmente non conosceva né i venti né tantomeno gli uccelli, lo sbattere delle ali degli uccelli, l'aria era immota, nemmeno un rumore, figurarsi i suoni e i canti. Devo far capire che siamo al tempo di prima della creazione. Devo farlo capire. Il prima assoluto, assolutamente il prima di tutte le cose. Chiederò al tecnico di crearmi il suono del silenzio e di farmi vedere il vuoto, la vuota assenza di movimento, di pulsazioni, di essenze se non di essere - per gli antichi mi pare che l'essere poteva esserci senza essenze e questa era anzi la condizione primigenia del mondo senza cose, dunque del caos che è essere senza essenze ed esistenze, essere vuoto, puro essere insomma - e il tecnico, il fonico dovranno rendermi bene, per i primi cinque minuti, la infinita sequenza prima del rombo della caduta del gran cazzo di Saturno che è l'inizio di tutte le cose, di tutti gli esseri. L'inizio è sordo, oscuro, un rumore indistinto. Poi, dal semplice al complesso, dal rumore bruto su su fino alla musica, che viene dopo. E' l'immenso, straordinario, imprevedibile ciak che apre l'universo…Fino a qui, perfetto. “A che pensa, commendatore? O dorme?”

Vada, vada avanti, scriva, scriva. Intanto mi lasci ascoltare Mina a ‘sto juke-box. La sente? Sta cantando ‘Stessa spiaggia, stesso mare’, meravigliosa donna”.


E poi? Poi vedremo che suoni produrre per rendere il momento della nascita della musica e con lei di tutte le cose come essenze, "le quiddità" avrebbe detto il professore di filosofia al liceo; una musica che dovremo sforzarci di fare armonica, ben scandita in un ordine pitagoreo, misterico insomma, come dire Petrassi o Nono, boh!, vedremo poi. Dall'oboe al clarinetto più sublime, come nei film scientifici e i documentari sulla natura, quando si vedono le cose greche pecorecce e si sente sempre clarino, flauto, qualcosa di campestre, che va bene, benissimo. E - dimenticavo - le arpe, l'arpa che si vede in sovrapposizione con la mano della donna che sale e scende sulle corde e produce la musica, sale e scende come un'immensa sega che in fondo dobbiamo fare intuire, una sega immensa su quel cazzo pieno di sperma, da cui devono alla fine nascere tutte le cose.

Buono, bene, fin qui. Tutto bene. Mi sorprendo come tutto viene giù così semplice. Dove arriveremo? Questa storia alla fine è inquietante. E sì, può distruggermi, se va male, bisognerà sentire pure il Vicariato… Ma dove ero? Ah, ecco: ecco che quello sperma, piombando come una pioggia infinita sul mare, sulla lastra di piombo di questo mare di Ostia, vuoto dall'eternità, da sempre, dall'infinito vuoto del tempo, ecco insomma che quello sperma tutto a un tratto, piombando e sgocciolando, sbattendo in una miriade di gocce sul mare, su questo mare così piatto e vuoto, insignificante, lo scuote, lo sconvolge, lo fa ondeggiare, petillare, singhiozzare, zampillare e alla fine eccolo lì!, schiumeggia tutto. Insomma, quello sperma diventa la schiuma, la spuma del mare. Tutta la spuma del mare, quella di ieri e quella di oggi, quella di sempre, ogni spuma del mare in ogni tempo e in ogni latitudine, quella che da bambino raccoglievo nelle sinuosità del bagnasciuga o sotto le palafitte del molo, affogato di salsedine, smarrito da una delle meraviglie del mare, la spuma iridescente.

Formidabile intuizione. Difficile renderla, ma si deve vedere, si deve sentire. Gli spettatori, tutti, ad uno ad uno, nella sala, lì al chiuso e al buio della sala, dovranno sentire che quegli schizzi di spuma che vedranno, ossessivi, rotolare sullo schermo, panoramico e immenso, riempiendolo tutto da occidente a oriente, da cima a fondo - tutta quella spuma, quella vernice - sono lo sperma di Saturno. Dovranno fare un "oh!" di meraviglia e saltare indietro, dovranno gridare di ebbrezza e di schifo: eh, si, voglio proprio vedere come si comporteranno, sotto quella immensa pioggia tridimensionale che perforerà lo schermo e schizzerà fuori sulla platea e in galleria, umida, odorosa, di muschio, di antri, di salsedine, di scoglio, di pesce, di cernia, di cozze e di vongole, quella pioggia profumata e anche leggermente tiepida, di spuma, di schiuma, di sperma, dovrà far eccitare e gridare tutti gli spettatori, a uno a uno. Sarà un po' più difficile nella versione TV, con lo schermo piccolo non è la stessa cosa, ma perdio per una volta sarà la rivincita dello schermo grande, del cinema col suo specifico, che è il coinvolgimento, l'abbraccio dello spettatore, quel tanto di mistico, di uterino che ha il cinema e che la TV non ti darà mai; la vendetta del cinema, delle cose che hanno un peso e non sono evanescenti come quelle che si vedono in TV, e come sapevano quelli che da sempre hanno fatto cinema su questa spiaggia, questo arco di spiaggia di Ostia.

Questa spiaggia, la conosco bene. Non c’è Fregene o Sperlonga che tenga. Dedicata al cinema da sempre, da quando è nata. Una predestinazione, un amore accorato per la gente del cinema, i suoi gusti pesanti, il dopopranzo sbracato, il cameratismo insopportabile, "annamo a magnà a Ostia", le spaghettate, il pesce fritto, un po' di turpe sesso, un'epopea tutta romana, sempre con Fellini tra i piedi e Sordi, lo “Sceicco Bianco”… Ma sì, lo “Sceicco Bianco”. La “Dolce Vita” no, per quella c’è Fregene, una lagna... e insomma il grande cazzo cade in mare proprio qui davanti, fischiando dal cielo come un meteorite, grande e grosso ed eretto come era, il cazzo di un Dio, di Saturno, figurarsi - bell'idea, ma come mi è venuta? - ed infine precipita in questo mare: con un tonfo immenso, tra le onde bluastre, cinerine, torbide, un po' di merda, da sempre. Chiederò al tecnico come fare onde mostruose, piene di orrore, che si separano e si squarciano per non dover toccare il grande cazzo di Saturno che cade fischiando dal cielo. Ma perdio che tonfo e che schiumeggiare ne faremo, di 'st’onde, con un volto e la voce, quasi umane, tutte squittii, rombi, turbolenze, grida, rantoli, sussurri e sciaguattii vicini e lontani, un inferno...o piuttosto un Caos. Ecco, sì, un Caos primigenio, una idea con la quale ti frego anche Federico, lui un'idea così non l'ha mai avuta… E ora può arrivare lei. Sì, ora. Ma dove è finita, lei? Ah, sì, guardala: ancora tutti zitti, sempre lì, non la mollano un secondo. Che ci avrà mai da dire, figurarsi… Attenta, divina stronza, attenta a quel che fai, a quel che dici. Perché io posso tutto e tu no. ..

Bene: abbiamo la schiuma, che è lo sperma, e a un tratto…a un tratto da quella spuma balza su, all'improvviso, Venere. E’ la nascita di Venere! Ci siamo, perfetta storia e perfetta lei: perché lei e solo lei ti può ridare l’Anadiomene, l’erotica Ciprigna o come diavolo diceva il professore di lettere e noi ce la sognavamo, quando venivamo da poveracci a fare il bagno su questa spiaggia miserabile e malinconica di Ostia. Sì, solo questa qui, bisogna riconoscerlo, può essere la divina Anadiomene, la Venere unica, l'archetipo: questa stronza quì che non riesce nemmeno a concepire che razza di corpo le ha dato la natura, e se lo dondola, lo porta in giro, lo sbatte in faccia, negli occhi e nel cervello di tutti noi. Lei appare. Il tecnico deve inventarsi qualcosa di inaudito, perché la gente se lo possa immaginare, possa capirlo, l'evento. Lei, nuda, stupefacente, che appare in mezzo a quel mare di spuma, e appare come è, assolutamente ignara che quello che le galleggia intorno è sperma che schizza dappertutto, e lei sulla sua conchiglietta lo sfiora appena, non ne è toccata - nemmeno uno schizzo, su quella pelle perlacea, d'aria, di sogno, nemmeno uno schizzo! - lei se ne sta lì inconsapevole, buona buona mentre la conchiglietta, leggera, fragile, docilissima, viene trasportata dalle onde, dai flutti, che se la sbattono come un fuscello. La creazione: questo mare di merda mica lo sa che quella è Venere, l'Anadiomene, la Callipigia stupenda, le onde non lo sanno mica che quella è la Donna, proprio Lei, la grande maga dell'universo. Poi alla fine, con il barlume di luce che la creazione ha infuso in loro, si accorgono di quanto stupefacentemente bella sia la cosa che è apparsa lì in mezzo, d'incanto: e questa stronza davvero sarà mirabile, perché nemmeno lei si rende conto di essere proprio Venere, la prima cosa, la prima incarnazione delle cose, di tutte le cose, della bellezza del mondo che sta appena nascendo in quel modo miracoloso, da uno schizzo di sperma di quel poveraccio di Saturno che sta ancora lassù a gemere sull'Olimpo.

Lei è nata. E da quell'universo bestia e stupido esce come un sospiro, un "oh!" di meraviglia, perché alla fine ci se ne accorge, le cose si accorgono di quel che è nato. Se ne accorgeranno a poco a poco: insensibilmente, le onde cominciano a placarsi, le vedi farsi più molli, gibbute e senza punte, rientrare nello schermo Vistavision, ritrarsi, e si deve sentire che provano anche loro meraviglia, stupore, timore, dinanzi alla cosa che è nata. Si deve sentire, anzi, che con la cosa, con la donna, nascono appunto la Meraviglia, lo Stupore, il Timore e il Tremore, dico io, e insomma tutti i sentimenti e gli ingredienti del sublime e del mistero. I sentimenti, sicuro. Tutto questo si deve sentire. E poi, ecco che andiamo lentamente verso la conclusione, con un campo lungo, una zummata, un bel retino. Perché Venere lentamente si allontana, verso un fuoco dello schermo. Si allontana, leggermente, senza rendersi conto che sta uscendo di scena. Lei non deve dare l'impressione di avvertire che stiamo lavorando in zumata, non glie lo diremo, perché lei dovrà essere sempre naturale, in primo piano, solo con un giro su se stessa di centottanta gradi, perché prima dovranno vederla da davanti, con quel ventre e quel petto superbo, poi di culo, quella montagna immaginifica che è il suo culo. Ma di lontano e col retino, perché dovranno sforzarsi e immaginarlo, più che vederlo, quell'immenso culo che si allontana e digrada alla fine, nella luce calante. E intorno il mare, questo mare ritornato innocente, leggero, aperto, finalmente azzurro, con pochi baffi di spuma in primo piano, perché ormai lo sperma lo ha fecondato e si ritira lasciando relitti e gusci di conchiglie - le prime conchiglie! - e l'acqua, davvero la madre di tutte le cose, dovrà essere la madre di tutte le cose - ed ecco cominciano a svolazzare rondini, gabbiani dalle grandi ali, che fischieranno, sibileranno, faranno i primi suoni viventi, i canti di un mondo che sta nascendo, e il primo delfino scatterà e si inarcherà e ricadrà tra due onde, e persino qualche petalo di fiore. Perché lontano, digradante nel cielo senza nemmeno una nuvola, ecco che si distingue appena, all'alba del mondo, il profilo di Citera, l'isola beata, terra di Venere e dunque prima terra del mondo, e man mano che Venere le si avvicina portata dal vento le rive e le montagne e le colline si rivestiranno di una peluria - come quella del pube di lei, esattamente, e delle ascelle di lei - e poi di erbe e fiori e alberelli che si rizzeranno su con una grazia erotica sottile, adombrando ancora una volta, per gli spettatori, il mito primigenio. “Commendatore!”

Commendatore! Ho finito. Ecco come faremo il film. Sulla nascita delle cose e del mondo. Alla Flaiano, proprio come la racconterebbe Flaiano. Quì a Ostia. Con Sofocle o chi diavolo fosse, e con questa stronza. Solo con lei”.

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