COMMEMORANDO
BENEDETTO CROCE
(da
“Il Foglio”)
Il 20
novembre scorso ricorrevano i sessanta anni dalla scomparsa di
Benedetto Croce. A Napoli, nello storico palazzo Filomarino - già
residenza del filosofo ed oggi sede dell'Istituto filosofico da lui
ideato - il Presidente Napolitano ha commemorato la ricorrenza,
focalizzando la sua attenzione sul periodo postbellico, quando don
Benedetto mostrò sagacia e determinazione anche politica
contribuendo fortemente alla ripresa istituzionale del paese. Mi pare
che il suo appassionato intervento sia caduto nel vuoto e nel
disinteresse. L'oblio di Croce non è un fenomeno transeunte. Croce
è inviso a troppi, per ragioni anche opposte. Non è amato dalla
Chiesa perché coerentemente laico, ma anche dagli anticlericali o -
meglio - dai laicisti, i quali non gli possono perdonare un testo
coraggioso e innovativo, “Perché non possiamo non dirci
cristiani”. Ma soprattutto Croce è stato detestato da una genia di
cosiddetti “superatori”, ingegnatisi in ogni modo per gettarlo
giù da un piedistallo egemonico ed ingombrante.
In
questo paese che ama sparlarsi addosso celebrando masochisticamente,
un anno sì e l'altro pure, la propria scomparsa (“...la morte
della patria...”) l'occasione c'era tutta per portare
all'attenzione dell'opinione pubblica quella che è invece, a mio
modesto giudizio, l'operazione etico-politica più importante che il
pensatore avviò e elaborò assieme a Giovanni Gentile: facendo corpo
e riassumendo nel loro lavoro la grandezza dell'ambiente culturale
napoletano della fine dell'Ottocento, Croce e Gentile ebbero, in
parallelo, il merito di disegnare e far accettare quella che potremmo
dire l'”ideologia italiana”.
Il
Risorgimento e l'unificazione sono stati fenomeni assai complessi, un
intreccio di spinte e controspinte, in parte endogene in parte anche
esogene, al quale hanno portato i loro contributi soggetti molto
diversi. Però occorre risalire ai due filosofi, allevati nella culla
della cultura tardoottocentesca e primonovecentesca che si sviluppò
a Napoli con Francesco De Sanctis, i fratelli Silvio e Bertrando
Spaventa o Arturo Labriola, per vedere definiti e portati in piena
luce i lineamenti ideali che poterono interpretare e legittimare,
anche o soprattutto in sede interna, la nascita del nuovo Stato.
Giovanni Gentile innalzò al livello della moderna filosofia europea,
definendoli come suoi veri iniziatori, i pensatori italiani
rinascimentali, Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso
Campanella, che preannunziano il più maturo Giambattista Vico. Al di
là delle sue grandi opere storiche, a Benedetto Croce va il merito
di aver puntigliosamente sottoposto al vaglio della critica autori,
anche di seconda importanza, dell'ottocento postunitario,
individuando in Giosue Carducci l'aedo simbolo di quelle generazioni risorgimentali. Così, se il Piemonte diede all'Unità
l'impianto istituzionale/militare sapientemente gestito dal Cavour e
Milano vi apportò la solidità di un società civile e produttiva di
stampo europeo, toccò alla cultura napoletana l'enorme compito di
offrire all'Italia che nasceva una impalcatura ideale d'eccellenza,
tale da reggere per un lunghissimo periodo all'erosione della critica
e ai colpi della storia. Togliatti ironizzava perché il ministro
Croce spesso, durante le interminabili riunioni del consiglio dei
ministri, sonnecchiava, svegliandosi di colpo e tendendo le orecchie
solo quando si parlava di agricoltura e di riforma agraria. Ma
comunisti ed excomunisti di ascendenza togliattiana non possono
dimenticare che Togliatti si impadronì di quel retaggio idealistico,
rivendicando una continuità storica ed ideale tra Francesco De
Sanctis, Benedetto Croce e quel Gramsci che poteva far pensare ad uno
sviluppo del marxismo in forma autonoma e nazionale, cui fosse aliena
la strettoia leninista e stalinista. All'egemonia del proletariato
Gramsci sostituiva l'egemonia dell'intellettuale. Su quelle
riflessioni gramsciane Togliatti edificò una teoria per sostituire
il suo comunismo, il suo PCI, all'esausto liberalismo delle residue
elites politiche e culturali giolittiane, incapaci di comprendere e
gestire il presente. Fu una operazione di raffinata intelligenza
politica e culturale, su cui si è modellata pressoché tutta la
critica letteraria del dopoguerra, tra Asor Rosa e, per dire, Giulio
Ferroni. Da questa impostazione deriva, tanto per capirci, la
preferenza data all'ortodosso Calvino piuttosto che a uno Sciascia
radicale, e la relativa dimenticanza di scrittori di tendenza
liberale o comunque non allineati al conformismo progressista, quali
un Landolfi o un Flaiano. Qualche iperzelante sostituì a Benedetto
Croce Giovanni Gentile, sostenendone la superiorità filosofica. Per
me, invece, Croce esprime al massimo il potenziale di una riflessione
antidogmatica, antispiritualista e antimetafisica. Amo vedere in lui
il più coerente prosecutore - malgré lui-même
- di Nietszche: per Croce, l'uomo è tutto nella sua storia, nella
sua opera; secondo qualche esegeta crociano (forse Gennario Sasso),
nella sua vita, nel fuoco del suo vitalismo interiore. Più laico di
così.
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