giovedì 29 novembre 2012




COMMEMORANDO BENEDETTO CROCE
(da “Il Foglio”)

Il 20 novembre scorso ricorrevano i sessanta anni dalla scomparsa di Benedetto Croce. A Napoli, nello storico palazzo Filomarino - già residenza del filosofo ed oggi sede dell'Istituto filosofico da lui ideato - il Presidente Napolitano ha commemorato la ricorrenza, focalizzando la sua attenzione sul periodo postbellico, quando don Benedetto mostrò sagacia e determinazione anche politica contribuendo fortemente alla ripresa istituzionale del paese. Mi pare che il suo appassionato intervento sia caduto nel vuoto e nel disinteresse. L'oblio di Croce non è un fenomeno transeunte. Croce è inviso a troppi, per ragioni anche opposte. Non è amato dalla Chiesa perché coerentemente laico, ma anche dagli anticlericali o - meglio - dai laicisti, i quali non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo, “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Ma soprattutto Croce è stato detestato da una genia di cosiddetti “superatori”, ingegnatisi in ogni modo per gettarlo giù da un piedistallo egemonico ed ingombrante.

In questo paese che ama sparlarsi addosso celebrando masochisticamente, un anno sì e l'altro pure, la propria scomparsa (“...la morte della patria...”) l'occasione c'era tutta per portare all'attenzione dell'opinione pubblica quella che è invece, a mio modesto giudizio, l'operazione etico-politica più importante che il pensatore avviò e elaborò assieme a Giovanni Gentile: facendo corpo e riassumendo nel loro lavoro la grandezza dell'ambiente culturale napoletano della fine dell'Ottocento, Croce e Gentile ebbero, in parallelo, il merito di disegnare e far accettare quella che potremmo dire l'”ideologia italiana”.

Il Risorgimento e l'unificazione sono stati fenomeni assai complessi, un intreccio di spinte e controspinte, in parte endogene in parte anche esogene, al quale hanno portato i loro contributi soggetti molto diversi. Però occorre risalire ai due filosofi, allevati nella culla della cultura tardoottocentesca e primonovecentesca che si sviluppò a Napoli con Francesco De Sanctis, i fratelli Silvio e Bertrando Spaventa o Arturo Labriola, per vedere definiti e portati in piena luce i lineamenti ideali che poterono interpretare e legittimare, anche o soprattutto in sede interna, la nascita del nuovo Stato. Giovanni Gentile innalzò al livello della moderna filosofia europea, definendoli come suoi veri iniziatori, i pensatori italiani rinascimentali, Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella, che preannunziano il più maturo Giambattista Vico. Al di là delle sue grandi opere storiche, a Benedetto Croce va il merito di aver puntigliosamente sottoposto al vaglio della critica autori, anche di seconda importanza, dell'ottocento postunitario, individuando in Giosue Carducci l'aedo simbolo di quelle generazioni risorgimentali. Così, se il Piemonte diede all'Unità l'impianto istituzionale/militare sapientemente gestito dal Cavour e Milano vi apportò la solidità di un società civile e produttiva di stampo europeo, toccò alla cultura napoletana l'enorme compito di offrire all'Italia che nasceva una impalcatura ideale d'eccellenza, tale da reggere per un lunghissimo periodo all'erosione della critica e ai colpi della storia. Togliatti ironizzava perché il ministro Croce spesso, durante le interminabili riunioni del consiglio dei ministri, sonnecchiava, svegliandosi di colpo e tendendo le orecchie solo quando si parlava di agricoltura e di riforma agraria. Ma comunisti ed excomunisti di ascendenza togliattiana non possono dimenticare che Togliatti si impadronì di quel retaggio idealistico, rivendicando una continuità storica ed ideale tra Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e quel Gramsci che poteva far pensare ad uno sviluppo del marxismo in forma autonoma e nazionale, cui fosse aliena la strettoia leninista e stalinista. All'egemonia del proletariato Gramsci sostituiva l'egemonia dell'intellettuale. Su quelle riflessioni gramsciane Togliatti edificò una teoria per sostituire il suo comunismo, il suo PCI, all'esausto liberalismo delle residue elites politiche e culturali giolittiane, incapaci di comprendere e gestire il presente. Fu una operazione di raffinata intelligenza politica e culturale, su cui si è modellata pressoché tutta la critica letteraria del dopoguerra, tra Asor Rosa e, per dire, Giulio Ferroni. Da questa impostazione deriva, tanto per capirci, la preferenza data all'ortodosso Calvino piuttosto che a uno Sciascia radicale, e la relativa dimenticanza di scrittori di tendenza liberale o comunque non allineati al conformismo progressista, quali un Landolfi o un Flaiano. Qualche iperzelante sostituì a Benedetto Croce Giovanni Gentile, sostenendone la superiorità filosofica. Per me, invece, Croce esprime al massimo il potenziale di una riflessione antidogmatica, antispiritualista e antimetafisica. Amo vedere in lui il più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche: per Croce, l'uomo è tutto nella sua storia, nella sua opera; secondo qualche esegeta crociano (forse Gennario Sasso), nella sua vita, nel fuoco del suo vitalismo interiore. Più laico di così.

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